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3 ottobre: il ricordo non basta!

Antonio Ciniero, MigrAzioni*

In questo 3 ottobre, ricordiamo le tante, le troppe, vite ingoiate dal Mar Mediterraneo. 1 Ma oltre a ricordare, l’Italia e l’Europa farebbero bene ad attrezzarsi – e il prima possibile, visto che sono già in ritardo di almeno trent’anni – per permettere finalmente a chi parte di giungere vivo e incolume in Europa.

Le morti nel Mediterraneo non sono un incidente, né una tragica fatalità. Non sono nemmeno conseguenza di scafisti senza scrupoli, come spesso la stampa ci ripete. Le morti nel Mediterraneo sono conseguenza diretta e immediata delle politiche migratorie europee (e italiane).

Per evitarle occorrerebbe poco: nell’immediato basterebbe l’apertura di corridoi umanitari, seguita, in breve tempo, dalla riformulazione delle politiche in materia di migrazione. Cosa, di per sé, tecnicamente semplice, ma politicamente complicatissima visti gli interessi in questione, i rapporti e le relazioni economiche internazionali che si giocano sulla pelle delle persone, dei migranti e di tutti noi.

Nel corso degli ultimi decenni, la questione migratoria ha assunto una rilevanza centrale all’interno dell’agenda politica dei diversi paesi dell’Unione europea. In tutti i paesi, il dibattito attorno alle migrazioni è stato l’argomento fondamentale delle principali competizioni elettorali nelle quali sostanzialmente si è riproposto, con poche sfumature, un copione già sperimentato nel passato e risultato vincente sul piano del consenso elettorale: presentare le migrazioni come una minaccia all’ordine pubblico e sociale, parlando di “invasioni” o “emergenze”, per cui occorrevano soluzioni “eccezionali”.

Il reale obiettivo di questo modo di approcciarsi alle migrazioni è quello di distogliere l’attenzione dell’opinione pubblica dai problemi del Paese, trovando al contempo un facile capro espiatorio su cui scaricare la responsabilità delle problematiche sociali, addossandole agli immigrati. Una volta confezionato questo pacchetto, si possono proporre soluzioni che, se sul piano della regolamentazione del fenomeno risultano totalmente inefficaci (come, ad esempio, l’aumento del numero delle espulsioni per contrastare l’immigrazione irregolare), sul piano mediatico invece raggiungono in pieno il loro obiettivo: tranquillizzare l’opinione pubblica fornendo risposte rassicuranti, sebbene del tutto fittizie.

Se si guarda al modo in cui i diversi governi europei si sono approcciati ai fenomeni migratori, non si faticherà a scorgere aspetti ricorrenti riguardo la regolamentazione dell’ingresso sul territorio statale dei cittadini stranieri. Aspetti che, a prescindere dal Paese o dal governo che li mette in atto, esprimono il tentativo di trovare un equilibrio tra le istanze dell’economia, la pressante richiesta di sicurezza artatamente instillata nell’opinione pubblica e gli obiettivi di politica internazionale e che spesso finiscono con il risolversi in leggi intrise di contraddizioni e incoerenze.

La volontà dichiarata di contrastare l’immigrazione irregolare, la difesa dei confini dal tentativo di infiltrazioni terroristiche, è divenuto il leitmotiv di tutte le legislazioni nazionali europee e non, ma si è espressa quasi esclusivamente mediante l’elaborazione di strumenti repressivi quali l’irrigidimento e le esternalizzazioni dei controlli alle frontiere e il rafforzamento delle garanzie d’esecutività per le espulsioni. Lasciando totalmente nel dimenticatoio la promozione di percorsi di cittadinanza capaci di favorire una reale inclusione sociale.

L’Unione Europea ha elaborato politiche migratorie sempre più incentrate sugli aspetti repressivi e gli orientamenti securitari. Nella normativa comunitaria sull’immigrazione e sull’asilo emergono in modo evidente due anime opposte tra loro: sicurezza contro inclusione ed altrettanto evidenti appaiono le diverse velocità a cui viaggiano i due piani: progressiva e rapida armonizzazione nella repressione delle “irregolarità” migratorie; lenta e frammentata elaborazione di una base di regole comuni per l’immigrazione “regolare”.

L’armonizzazione normativa tra gli Stati membri è finora avvenuta pressoché esclusivamente “in negativo”, ovvero con la diffusione di pratiche repressive e di standard di diritti al ribasso, sintetizzata nella pratica dell’espulsione/allontanamento, dinamica che costituisce il filo rosso che unisce gli accordi di riammissione, i centri di detenzione (in Italia sono denominati CIE), la protezione e i controlli delle frontiere.

Tutti gli sforzi fatti fin ora dagli Stati sono andati nella direzione di assicurare la chiusura delle frontiere, nell’infondata illusione di bloccare i flussi migratori, mentre, in concreto, nulla o quasi nulla è stato fatto per favorire la promozione della conquista dei diritti inalienabili di cui ogni individuo è portatore. Gli stessi diritti nati in seno alla civiltà giuridica dell’Europa mediterranea.


  1. Nota di redazione: Per Fortress Europe, il blog di Gabriele Del Grande, dal 1988 sono morte lungo le frontiere dell’Europa almeno 27.382 persone, di cui 4.273 soltanto nel 2015 e 3.507 nel 2014 (il dato è aggiornato al 2 febbraio 2016. Nel 2016 le morti accertate – fonte UNHCR – al 3 ottobre sono 3.498). I dati di Fortress Europe si basano sugli incidenti documentati dalla stampa internazionale negli ultimi trent’anni. Il dato reale potrebbe essere molto più grande. Nessuno sa quanti siano i naufragi di cui non abbiamo mai avuto notizia. Lo sanno soltanto le famiglie dei dispersi, che dal Marocco allo Sri Lanka, si chiedono da anni che fine abbiano fatto i loro figli partiti un bel giorno per l’Europa e mai più tornati.