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da Terranews.it del 3 gennaio 2011

A Milano il Cie della vergogna

Intervista a Roberto Magnano, Medici senza frontiere

A marzo lo sciopero della fame, a luglio la rivolta che culmina con la fuga di tre immigrati, ad agosto i disordini e gli scontri con la polizia e a novembre e dicembre le nuove proteste lanciate dal tetto del Centro. Il 2010 è un anno caldo per il Cie di via Corelli. Ed è proprio allo scadere dell’anno corrente che per un agente di polizia in servizio nel 2009 nel Centro di identificazione e di espulsione milanese arriva una condanna a 7 anni e 2 mesi di reclusione per violenze sessuali nei confronti di un trans brasiliano rinchiuso nel centro. Per capire le cause del profondo malessere all’origine delle rivolte, dei tentativi di fuga e degli episodi di autolesionismo registrati nei Cie italiani, abbiamo incontrato Rolando Magnano, di Medici senza frontiere, che, insieme ad altri colleghi, nel 2010 ha redatto il rapporto sui centri per migranti “Aldilà del muro”.

D: Quali sono le tipologie di centri per immigrati presenti in Italia?
R: Semplificando possiamo individuare due tipologie: i centri chiusi, da cui le persone non possono uscire, e i centri aperti. I primi si dividono in Cie, Centri di identificazione e di espulsione, e in Cspa, Centri di soccorso e di prima accoglienza, come quello di Lampedusa. I Cara, Centri di accoglienza per i richiedenti asilo, e i Cda, Centri di accoglienza, sono invece centri aperti.

D: Che caratteristiche ha la popolazione che vive nei Cie?
R: È molto eterogenea. Ci sono stranieri che hanno vissuto per anni in Italia con un contratto regolare, che hanno qui la famiglia e che parlano benissimo italiano, ma che poi hanno perso il lavoro e con esso il permesso di soggiorno. Ci sono stranieri appena arrivati nel nostro Paese che non sanno nulla del sistema italiano, nemmeno che cosa li aspetta dopo la detenzione. Ci sono cittadini comunitari, quasi esclusivamente rumeni, donne vittime di tratta e soggetti con patologie infettive, affetti da tossicodipendenza. Il 45% delle persone viene poi direttamente dal sistema carcerario. Gente che dopo il carcere subisce un’estensione della limitazione della propria libertà personale perché non si è riusciti a provvedere al rimpatrio.

D: Come si vive in questi centri?
R: Gli standard dei servizi rimangono molto bassi, se non addirittura assenti. In alcuni centri mancano anche per lunghi periodi beni essenziali come sapone, carta igienica, coperte e biancheria intima. In molti centri la manutenzione è scarsissima, con acqua e pozzanghere all’interno delle strutture, scarse condizioni igienico-sanitarie e in alcuni casi la presenza di topi. Servizi basilari come la mediazione culturale sono assenti o inadeguati e lo stesso vale per l’orientamento legale. Noi come Msf abbiamo approfondito gli aspetti medici. E quello che emerge è l’assenza di protocolli sanitari per la diagnosi e il trattamento di malattie anche importanti, come quelle croniche o infettive. In alcuni casi mancano le strumentazioni e i materiali sanitari adeguati. Ma quello che più ci ha sconcertato è che i servizi sanitari erogati all’interno dei centri sono scollegati dalle Asl locali.

D: Il sistema sanitario pubblico non ha alcun ruolo all’interno di questi centri?
R: I Cie sono gestiti da società private. Le Asl non hanno il diritto di entrarvi né per verificare se i servizi sanitari sono appropriati, né per controllare le condizioni di salute delle persone. In modo provocatorio abbiamo detto che oggi le Asl hanno competenza di valutare le condizioni igienico sanitarie di bar, ristoranti e canili, ma non dei centri per migranti. Sono al di fuori di qualsiasi supervisione da parte delle autorità sanitarie pubbliche.

D: Chi può entrare nei centri?
R: Per entrare si deve chiedere un’autorizzazione alla prefettura, che ha il potere arbitrario di negarla. A noi è stata negata nel centro di Bari e in quello di Lampedusa, ma anche in altri centri abbiamo avuto delle limitazioni. Nel momento in cui poi si entra nei centri sorge un altro problema: mancano degli standard qualitativi oggettivi da rispettare perché i parametri determinati dal Ministero degli Interni sono molto vaghi.

D: Quali sono le situazioni più critiche in Italia?
R: Spesso le strutture dei Cie vengono riadattate da edifici costruiti per altre finalità e questo incide negativamente sulle condizioni di vita degli immigrati. Msf ha chiesto la chiusura immediata di due centri, quelli di Trapani e di Lamezia Terme, che secondo noi non hanno i requisiti minimi di vivibilità. Nel primo le stanze non hanno finestre e lo spazio comune è costituito esclusivamente da un ballatoio circondato da grate. Nel secondo lo spazio comune è costituito da un cortile in cui, se gli ospiti dovessero uscire tutti contemporaneamente, avrebbero 2 metri quadrati a testa a disposizione.

D: In che cosa si contraddistingue il centro di Milano?
R: In via Corelli sono presenti sia un Cara, sia un Cie, l’unico in Italia ad avere una sezione dedicata ai transessuali. La struttura è quella classica del sistema penitenziario, con muri di cinta e sbarre alle finestre. Ha una buona assistenza sociale, ma i servizi d’informazione per i richiedenti asilo sono molto carenti. In generale il centro di Milano si distingue per la tensione, sempre molto alta. Sono frequenti le rivolte e gli episodi di autolesionismo, sintomi di un malessere molto profondo.

D: Di cosa ci sarebbe bisogno per migliorare la situazione?
R: Le persone che vivono nei Cie sono una goccia nell’oceano dell’immigrazione irregolare. Da quando questi centri sono stati istituiti, l’immigrazione irregolare in Italia non è diminuita. Eppure i costi umani di questi luoghi sono enormi. Quello che noi chiediamo è che sia portata avanti una riflessione sulla loro finalità. E chiediamo anche che le autorità sanitarie pubbliche possano avere un ruolo di supervisione sulla salute delle persone che vivono nei centri e sui servizi medici in essi erogati.

Anna Pellizzone (Terra Milano)