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Abusi, pestaggi e torture in Libia: ecco da cosa fuggono quelli che rischiano la propria vita nel Mediterraneo

El Diario, Desalambre - 9 agosto 2017

Photo credit: Pablo Tosco / Oxfam

Le cicatrici che Esther, una giovane nigeriana di 28 anni, ha sulla testa e sul braccio destro parlano dell’inferno vissuto in Libia. Le altre cicatrici non si vedono. Il dolore per aver perso il figlio che aspettava, la pena di sapere che sua sorella è morta a causa delle percosse e degli abusi che entrambe hanno sofferto nel paese africano. Esther ha trascorso cinque mesi rinchiusa nella prigione di Zawia, una città costiera 40 chilometri ad ovest di Tripoli.

Gli uomini in uniforme erano violenti e giravano armati con spranghe di ferro, pistole e bastoni. Chiesero denaro per ricattarci. Mi hanno picchiata in tutte le parti del corpo e mi hanno costretta ad assistere agli abusi sessuali inflitti alle altre donne”, ricorda la giovane. “Ho perso il povero bambino che portavo in grembo a causa delle botte. Persi molto sangue senza ricevere alcun tipo di aiuto”, racconta in una testimonianza raccolta da Oxfam Intermón.

Esther è riuscita ad arrivare in Sicilia dopo aver rischiato la sua vita nella rotta più letale al mondo, il Mediterraneo centrale. “La pericolosa fuga dalla Libia attraverso il Mediterraneo non è un’opzione, ma una questione di sopravvivenza”, assicura la ONG nel suo rapporto “Non sei più umano, nel quale documenta gli orrori” che quotidianamente sopportano i migranti e i rifugiati intrappolati nel paese vicino, in preda al caos post-Gheddafi. “È un terreno fertile per le bande che sequestrano, schiavizzano ed estorcono denaro ai migranti”, dicono.
Il documento (.pdf) rivela che l’80% delle persone intervistate al loro arrivo in Italia ha subito torture e maltrattamenti in Libia, e tutte le donne, eccetto una, abusi sessuali.

“La cella era piena di cadaveri”

Lamine, un ragazzino senegalese di 18 anni, è stato catturato e rinchiuso in una cella a Tripoli. “Mi colpirono sulla testa con un fucile. Cominciai a sanguinare e persi conoscenza. Quando mi risvegliai, pensai di essere morto. Avevo sangue dappertutto. Mi sono ritrovato in una cella con altre persone. La cella era piena di cadaveri”, afferma nel rapporto. “Ho visto i soldati spaccare il naso a un tizio e picchiarlo così forte sulla testa che ha finito per perdere gli occhi. A me hanno rotto il dito, e mi hanno tagliato sulla gamba sinistra con un pugnale”. Dopo tre settimane, Lamine è riuscito a scappare dalla finestra del bagno.

Il 74% delle 258 persone intervistate da Oxfam e dalle organizzazioni partner in Italia ha dichiarato di aver assistito all’assassinio o alla tortura di qualche suo compagno di viaggio. Il 70% è stato legato, e più dell’80% di esse ha assicurato che gli furono sistematicamente negati acqua e cibo. Come Chidi, un altro ragazzo di 18 anni proveniente dal Gambia, che è rimasto tre mesi nella prigione di Zuwarah, a Sabratha. “I nostri carcerieri ci davano il pasto una volta al giorno”, racconta. “Mi torturavano regolarmente, mi legavano le mani dietro la schiena e le fissavano ad una corda ancorata al soffitto”, ricorda.

Molte delle persone intervistate, secondo Intermón, sono state sequestrate da bande che le hanno imprigionate in celle sotterranee “per poi mettersi in contatto con i loro familiari e chiedere un riscatto”. “Se non potevi pagare i 1.500 dirham (circa 1.000 euro), ti lasciavano dentro e ti picchiavano. Ho visto cinque persone morire per mancanza di cibo e ferite d’arma da fuoco”, osserva Peter, un ragazzo di 18 anni che è stato rinchiuso in una casa assieme ad altre 300 persone. Quando i trafficanti hanno capito che Banna non avrebbe potuto pagare il riscatto, lo hanno costretto a lavorare. “Non avevo denaro, né una famiglia alla quale chiederlo. Mi hanno obbligato a svolgere qualsiasi tipo di lavoro, qualche volta mi hanno portato a rubare di notte”, racconta questo ragazzo gambiano di 28 anni.

Altri sono stati venduti come schiavi in cambio di denaro. Mustafa dichiara di averlo visto coi propri occhi. “In 29 siamo stati ceduti a un libico, che ci ha rinchiusi per circa 20 giorni in una piccola stanza in cui non c’era nulla. Mi facevano cucinare per gli altri prigionieri. Un giorno ho visto sette, forse otto persone, costrette a salire su un’automobile. L’uomo che guidava l’auto diede dei soldi ai libici che ci tenevano prigionieri”, sottolinea quest’uomo senegalese di 20 anni.

Il pericolo non cessa una volta fuggiti dalle violenze. Secondo l’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni (OIM), quest’anno 2.240 persone sono morte nel loro tentativo di arrivare in Italia attraverso la rotta del Mediterraneo centrale. Emmanuel, un ragazzo di 19 anni della Costa d’Avorio, si è imbarcato dalla Libia a bordo di un gommone diretto al paese europeo, e ha visto come molti, tra i suoi compagni di viaggio, siano morti nel tentativo.

Ci fecero uscire di notte, e finalmente arrivammo al mare. Ci misero in 135 su un gommone, che era condotto da un libico. Non appena ci allontanammo dalla spiaggia, la barca iniziò subito ad affondare. Alcune persone morirono. Per quando vennero a salvarci, l’estremità del barcone si era sgonfiata completamente. Il mare era molto agitato. Diverse persone affogarono mentre cercavano di salire sulla nave giunta in soccorso”, ricorda.

Queste testimonianze compongono un’immagine agghiacciante della vita delle persone rifugiate e migranti in Libia”, afferma in un comunicato Lara Contreras, responsabile di Incidencia Humanitaria di Oxfam Intermón. “Queste persone stanno scappando dalla guerra, dalle persecuzioni e dalla povertà e, come se ciò non bastasse, in Libia non fanno che incontrare un altro inferno. È necessario anteporre le persone”, osserva. Questa nuova denuncia sugli abusi nel paese vicino va ad aggiungersi a quelle che da tempo stanno realizzando numerose organizzazioni non governative, come Amnesty International o Medici Senza Frontiere (MSF).

Si rafforza il sostegno alla Libia

Dall’inizio del 2017 sono arrivate sulle coste italiane più di 95.000 persone, e la stragrande maggioranza di esse, intorno al 97%, è partita dalle coste libiche. Oxfam pubblica il suo rapporto una settimana dopo la firma del codice di condotta che il Governo italiano ha imposto alle ONG presenti nel Mediterraneo con navi di soccorso. Sebbene alcune, come Proactiva Open Arms e Save the Children, abbiano avallato il testo, questo è stato bocciato da diverse organizzazioni, tra esse MSF. Con esso, l’Italia vieta alle ONG di entrare nelle acque territoriali libiche o di utilizzare strumenti luminosi per segnalare la propria posizione. Questo lunedì, Proactiva ha denunciato che la Guardia Costiera libica, sparando in aria, ha minacciato una delle sue navi di soccorso affinché facesse ritorno verso l’Italia.

Coloro i quali potranno, invece, entrare in acque libiche, saranno i pattugliatori che l’Italia invierà per supportare i guardiacoste libici e “controllare il flusso migratorio”. Tale missione navale è stata autorizzata la scorsa settimana dal Parlamento e ha ricevuto numerose critiche, tra le quali quella di Oxfam, che considera, nel suo rapporto, che “riportarli indietro” verso le coste libiche “vada a creare un circolo vizioso nel quale le persone disperate cercano ripetutamente di sfuggire alle violenze e alla morte, e le forze europee glielo impediscono”.

A questo proposito, la ONG mette in guardia sul rischio rappresentato dal fatto che migliaia di migranti, per effetto delle politiche europee, possano restare prigionieri nell’”inferno che è la Libia“, richiamando alla memoria l’accordo firmato tra i governi libico e italiano nel febbraio 2017, poi avallato dai paesi dell’Unione Europea in occasione del vertice di Malta, finalizzato proprio a ridurre le partenze dal paese vicino.

Peraltro, la situazione del Mediterraneo centrale è assimilabile all’accordo siglato tra la UE e la Turchia al fine di limitare l’arrivo di rifugiati sulle isole greche in cambio di 3 miliardi di euro. “Effettivamente, [l’Europa] esternalizza il problema spingendo le frontiere europee verso altri paesi”, conclude Oxfam nel documento.

Per queste ragioni, auspica che la UE e gli stati membri non firmino accordi con la Libia relativamente a questa materia, così come auspica l’avvio di un’operazione di ricerca e soccorso “con finalità umanitarie”, l’apertura di rotte più sicure e l’istituzione di meccanismi legali di accesso all’Europa, come i visti di lavoro stagionale e i visti umanitari.


Nota: I nomi utilizzati in questo articolo sono fittizi al fine di preservare l’identità delle persone intervistate.