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Accogliere per essere accolti

L'Italia si svuota: siamo noi i primi ad emigrare per cercare fortuna

Immagino mio zio imbarcarsi sulla nave che lo porterà in America, pronto per il famoso viaggio della speranza.
Spostarsi dalla Calabria. Quest’ultima rea confessa, spesso, di essere la punta dello stivale che schiaccia la spina dorsale delle ambizioni e della vita.
Lo vedo salutare lo scirocco con gli occhi lucidi prima di essere avvinghiato dal gelido e tagliente vento di Ellis Island.
Lo immagino partire per arrivare a Napoli e, da lì, prendere posto sulla nave Conte di Savoia.
Direzione New York.
Siamo nel 1932, esattamente il 19 Novembre.
Arriverà in territorio americano un mese e mezzo dopo, il 1 Gennaio 1933.
Lui insieme ad altri 585 passeggeri.
Stretti come sardine, relegati in mezzo a topi e feci.
Rosari o coppole in mano, sguardo fermo che tradisce emozione e paura, voglia di essere liberati dal mostro di ferro che salpa le onde.
Ragazzini, adulti, donne. Famiglie intere.
Mio zio è partito a ventinove anni, non è più tornato.
E’ stato smistato in quarantena, visionato attentamente dai liberisti americani, lasciato un po’ a mollo come una spugna e poi catapultato a New York.
Lui è uno che ce l’ha fatta. Quelli che, dalle nostre parti, si chiamano vincitori.
Uomini per bene che, spinti dalla più impellente necessità, devono emigrare e costruirsi un futuro dal nulla. Non diversi, insomma, dal senegalese che giunge in Italia.
Dopo gli inizi come manovale, muratore, lavandaio e minatore, è riuscito a stringere i denti, serrare le nocche dei pugni e non mollare.
Non è stato schiacciato dalla povertà, non è stato sommerso dal razzismo quotidiano degli americani.
Ne ha mangiato di pane ammuffito, certo. Ma poi è riuscito a mangiarne anche di buono.
Mio zio è uno che ce l’ha fatta nonostante lo status d’italiano. Nonostante fosse, per giunta, meridionale. Addirittura con l’aggravante di essere calabrese. Perfino reggino. Neanche della città, ma di un paesino di provincia sperduto.
Un po’ come il keniota che giunge dalla periferia più misera e miserabile di Nairobi.

Ha potuto permettere gli studi a suo figlio, ha potuto permettergli di diventare un diplomatico di primissimo livello mandato dal Governo degli Stati Uniti d’America in Ethiopia, Addis Abada, Monrovia, Calcutta e Milano.
Noi italiani siamo un popolo che va via dal proprio Paese, siamo popolo di emigranti. Lo siamo stati, lo siamo e sempre lo saremo.
E’ per questo che fare del razzismo verso chi giunge sul nostro territorio è irrispettoso verso lo zio andato in America, il nonno in Germania oppure in Argentina. E’ sciocco, senza alcun senso.
E’ fare del razzismo verso noi stessi in primis.

Al 1 Gennaio 2017 gli italiani sparsi nel mondo erano tantissimi: 4.973.942 per l’esattezza.
L’8,2% sulla popolazione totale residente in Italia.
+ 162.779 rispetto all’anno prima (+0,3%).
Un numero, quindi, in progressivo aumento.

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Un numero elevatissimo, in continua evoluzione, a testimonianza di come il nostro sia un Paese sia di immigrazione, ma anche di emigrazione.

Solo nel 2016 sono 124.076 le iscrizione all’AIRE (Anagrafe Italiani Residenti all’Estero).

Se i dati dell’emigrazione italiana verso l’estero vengono comparati a quelli dell’immigrazione verso l’Italia, sorge spontanea una considerazione:
i partenti dall’Italia aumentano, gli arrivi diminuiscono.
Di questo passo l’Italia è destinata a svuotarsi, come testimoniano le previsioni che attestano la popolazione italiana nel 2081 pari a 53 milioni e mezzo.

In questo contesto appare altresì chiaro come i respingimenti in mare, l’accordo italiano con la Libia, rischino seriamente di essere un boomerang per l’Italia stessa. Anche perché all’orizzonte non si intravedono politiche che rivedano le modalità di ingresso regolare in Italia, come ad esempio i decreti flussi.

Inoltre, per la prima volta, il numero degli italiani all’estero è praticamente uguale al numero degli stranieri in Italia: nel 2017, i cittadini stranieri in Italia sono 5.047.028, gli italiani all’estero 4.973.942.
Differenza minima: 73.086 unità.

Domanda spontanea: possiamo avallare lo slogan “Italia agli italiani” quando siamo proprio noi che andiamo via a cercare fortuna?
Cerchiamo fortuna prevalentemente in Europa 1, in America ed in Oceania.

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Abbiamo, inoltre, letteralmente invaso la Germania.
La vulgata odierna afferma che noi siamo invasi dagli africani, particolarmente presi di mira sono i senegalesi.
I senegalesi in Italia sono 101.207.
Gli italiani in Germania, invece, 723.864.
La comunità italiana in Germania è sette volte maggiore rispetto alla comunità senegalese in Italia!
Se è invasione la loro, la nostra cos’è?
I marocchini presenti in Italia sono 420.651, numero nettamente inferiore rispetto agli italiani presenti nel territorio tedesco.

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Le comunità italiane presenti in Argentina, Germania e Svizzera sono di gran lunga superiori alle comunità africane in Italia.
E sono soprattutto i meridionali a partire, devastati dalla disoccupazione e dagli sbocchi lavorativi sbarrati.

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Gli italiani che partono, similmente a quanto succede con gli africani che tentano la fortuna in Italia, sono soprattutto i giovani: la fascia d’età tra 18-34 anni (48.607).
Notevole, però, pure l’incidenza dei minori tra 15 e 17 anni (3.158).

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Quanto emerge è quindi una situazione dove l’Italia si sta rapidamente svuotando. Per tamponare tutto questo la chiusura così radicale e netta delle frontiere non è affatto conveniente, poichè graverebbe in modo assai incisivo sul quadro demografico.
Al posto di chiudere gli occhi sul dramma che gli immigrati vivono per arrivare sulle nostre coste, sarebbe necessario invece politiche di progressiva apertura delle frontiere e un’accoglienza intelligente che porti il migrante ad una piena inclusione nel nostro sistema.

Un’accoglienza efficiente comporta, ragionando anche cinicamente, soldi che entrano nelle case dello Stato: probabilmente, evitando questa caccia alle streghe senza senso, i problemi del sistema pensionistico sarebbero inferiori.
L’italiano che cerca fortuna all’estero è in aumento. Questo comporta meno denaro immesso nell’economia: meno soldi spesi per i beni di prima necessità, meno soldi inseriti nel sistema pensionistico, meno soldi da far circolare nel sistema italiano.

La soluzione più ovvia e scontata è “sostituire” queste mancanze con i migranti che arrivano in Italia: se è pur vero che parte del loro denaro diventa rimessa, è altrettanto veritiero che il cittadino straniero in Italia immette comunque liquidità nel nostro Paese.
Affitti, spese alimentari, bollette, sono tanto scontate quanto necessarie per far girare un’economia, specie in tempo di crisi.
Sono una risorsa da sfruttare.

Infine, è doveroso non mettersi una benda davanti agli occhi sulle stragi che avvengono nel Mediterraneo. Non sbarrare gli occhi dinanzi alle tragedie che avvengono nei nostri mari.
Se un PM arriva a qualificare un salvataggio di una ONG come associazione per delinquere finalizzata all’immigrazione clandestina, vuol dire che è permesso anche e soprattutto da un’opinione pubblica che appoggia tali nefandezze.
Queste uscite sono permesse, concesse, da un clima di odio che si propaga come un tuono.
In una situazione di ferma solidarietà e accoglienza, una cosa del genere non sarebbe successa.
Per questo non bisogna chiudere gli occhi sul Mediterraneo.

Quanto successo in questi anni non è assolutamente diverso a quanto accaduto agli italiani, in mare e non.
Basti ricordare la tragedia di Monongah, negli USA, dove morirono moltissimi italiani. In condizioni di lavoro pessime saltarono in aria a seguito di un’esplosione in una miniera.
Non è diverso da quello che succede oggi all’africano che muore di stanchezza nei campi di raccolta di pomodori.
I calabresi morti nell’esplosione della miniera nel West Virginia, dove lavoravano in condizioni brutali, non sono affatto diversi da Mohamed, sudanese morto di infarto per la stanchezza.
Sotto il sole, lavorava nel Salento. Ore e ore e ore, il cuore ha ceduto.
O a Marcinelle, in Belgio, l’8 Agosto 1956.
Un incendio divampato in una miniera di carbon fossile fu fatale a 136 italiani.

Gli italiani di ieri, sono gli africani di oggi.

Situazioni lavorative precarie, sfruttamento fino allo sfinimento, vittime di razzismo, ostaggio di padroni senza scrupoli.
Chiudere gli occhi su ciò che succede oggi è oltraggioso verso ciò che è successo ieri.
Il naufragio nel canale di Sicilia del 18 Aprile 2015 non è diverso da quello della nave Sirio.
Non è possibile voltare la faccia e far finta che siano cose che non ci riguardano.
La nave Sirio portava i migranti italiani in Uruguay, Brasile e Argentina. Andavano a cercare fortuna.
Ne morirono 500.
Affogati come formiche davanti le coste del Capo Palos, a Cartagena. Esattamente come gli eritrei due anni fa, annegati davanti alle coste siciliane.
Siamo stati noi i primi ad emigrare, a soffrire, ad ansimare per le difficoltà.
Non è possibile voltare le spalle a ciò che eravamo.

Un sistema chiuso, raggomitolato in se stesso, che non bada a ciò che succede al vicino, è un sistema destinato al fallimento.
L’Europa ha alzato i recinti al proprio confine, ha piazzato i cani da guardia alle estremità dei propri territori. Ha messo gli aguzzini nella porta accanto, tappandosi le orecchie e sbarrandosi gli occhi. Ha militarizzato il “proprio giardino”.

“Non vedo, non sento, non parlo”

Accordi ambigui. Normative confusionarie e pretestuose per litigi interni. Denaro versato all’aguzzino di turno. La testa girata nella direzione opposta a quella del mare nostro.
Che conclusione ha avuto, tutto questo?
Un esercito di bambini fantasma senza protezione, migranti venduti ai turchi, dublinati che vagano in un presente senza futuro, pescatori che quando ritirano le proprie reti dal mare al posto di pesce fresco trovano carne di esseri umani.

Il “giardino dell’Europa”, per la troppa vanesia sempre più tendente al narcisismo, è destinato ad appassire se le politiche europee non allungano il collo per vedere quanto succede nel nostro Mediterraneo e sull’altra sponda.
Il mondo ha sempre vissuto di migrazioni. Perfino nei periodi più protezionisti.
Adesso, in un contesto dove ogni ambito è sotto la sfera della globalizzazione, è davvero impensabile che l’unico punto a restarne fuori è quello della mobilità umana: si muovono i capitali, si muovono le merci, si muovono da un capo all’altro del mondo i mezzi di trasporto, può fermarsi la migrazione?
Sembra impossibile.
Se si tappa un buco se ne apre un altro: chiudi la Libia e si aprono i Balcani.
I sogni di un uomo non si possono fermare. I desideri sono come il vento, placcarli è utopia.
L’unica soluzione possibile sembra ripensare il Regolamento di Dublino, strumentalizzato e strapazzato fino all’inverosimile: con la scusa della mobilità tra europei si è deciso di schedare e controllare lo straniero.
Cestinare l’accordo di Dublino e riformulare il concetto stesso di immigrazione.
Senza questa visione ossessiva compulsiva sulla migrazione, ci sarebbe molto più ordine e naturalezza.

Un esempio pratico? Il maliano che vuole arrivare in Italia.
La realtà odierna è questa: paga gli scafisti, contrae debiti che non riuscirà mai a risanare, vivendo eternamente sotto il ricatto degli aguzzini; poi passa dalle carceri libiche, falsifica i documenti, scappa probabilmente dagli hotspot. Oppure ci resta e finisce nei centri di accoglienza attendendo per moltissimi mesi il verdetto sulla protezione internazionale.
Risultato: un’Odissea. Pagata, paradossalmente, migliaia di euro.
Un’alternativa possibile? Aprire le frontiere.
Il maliano parte da Bamako con l’aereo, arriva in Italia con la sua valigia e col permesso temporaneo per trovare lavoro, nel caso la ricerca non porta i suoi frutti se ne ritorna senza l’assillo struggente di essere un fallimento.
Sintesi: Modibo ha risparmiato migliaia di euro sul viaggio, ha evitato di essere ricattato, taglieggiato o torturato oppure di morire durante il tragitto, non ha avuto un iter durato anni in Italia per (forse) ottenere dei documenti, non ha dovuto commettere alcun tipo di azione imputabile come reato; sia che decida di restare in Italia o di rientrare in Mali non avrà il fardello del fallimento.
Controllo i prezzi degli aerei Roma-Bamako, mettendo una data a caso.
1 Settembre 2018: prezzo dell’aereo 341,71 €, 9 ore e 35 minuti di viaggio.
Ecco il prezzo di un volo.
Costi e tempi nemmeno paragonabili all’epopea vissuta nei giorni attuali.

In sostanza, è paradossale per un popolo come il nostro lamentarsi dell’immigrato quando noi siamo immigrati in altri Paesi. E sembrerebbe che l’Europa non voglia risolvere realmente il problema dell’immigrazione, facendo comodo unire l’aggettivo clandestina.
Il perché sembra piuttosto chiaro: mafie e associazioni a delinquere nazionali e internazionali, così, non potrebbero lucrarci sopra. Non potrebbero spolpare migliaia e migliaia di uomini. E loro, i migranti, sarebbero meno ricattabili una volta immessi nel mercato del lavoro. E politicamente nessun potrebbe più lucrare sull’immigrazione irregolare.

Accogliere, per essere accolti.

– Leggi anche: Se le frontiere fossero aperte, The Economist, 13 luglio 2017

* Fonti utilizzate: AIRE, Migrantes, Ministero dell’Interno, Istat

  1. Rapporto Italiani nel Mondo 2017, Migrantes – sintesi http://www.astrid-online.it/static/upload/sint/sintesi_rim2017.pdf

Pietro Giovanni Panico

Consulente legale specializzato in protezione internazionale ed expert prevenzione sfruttamento lavorativo. Freelance con inchieste sui MSNA, rotte migratorie, accordi illegittimi tra Paesi europei ed extra UE e traffici di armi.
Nel 2022 ho vinto il "Premio giornalistico nazionale Marco Toresini" con l'inchiesta "La guerra dei portuali genovesi contro le armi saudite".