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Agli incroci: senzatetto e persone senza documenti a Parigi dopo le espulsioni di Calais

Frances Grahl, Open Democracy - 20 aprile 2017

Photo credit: Mara Scampoli, Calais 2016

Agli incroci

Porte de la Chappelle è un largo e antiestetico incrocio all’estremità della circonvallazione Periferica, dove il centro urbano di Parigi incontra l’inizio delle banlieue in espansione. Verso sud, la strada che porta al centro di Parigi porta a vibranti bar hipster e ai consolidati mercati africani del diciottesimo Arrondissement. Il bianco da torta nuziale del Sacre-coeur brilla a ovest, svettando su deprimenti grattacieli e complessi di edilizia popolare, mentre al nord svincoli stradali si innalzano fino a connettersi con le autostrade che portano a Lille, Calais e in Inghilterra. Ad est, edifici grigi e fatiscenti si tramutano gradualmente nel giro di appena un km nella moderna area di Rosa Parks, dove appartamenti nuovi e di eleganti proporzioni sfoggiano bizzarri decori floreali e argento.

Porte de la Chapelle è un punto di ritrovo per i “nuovi” migranti e rifugiati di Parigi – quelli che la gente di solito associa alla “crisi” – per quanto non sia l’unico. Per le strade della città vi è un numero imprecisato di persone in movimento. Respinti al confine con il Regno Unito a seguito dello sgombero di Calais dello scorso ottobre, molti sperano di approdare in Germania o in Svezia, oppure tentano in qualche modo di aggirare gli ostacoli dell’intricato sistema d’asilo francese e dell’accordo di Dublino. Se ti hanno preso le impronte in un altro paese europeo, ci sono poche speranze di rimanere “ufficialmente” in Francia.

Alcuni hanno parenti, reti d’appoggio o un posto dove stare. Altri hanno usufruito di una sistemazione grazie allo stato o ad associazioni caritatevoli; altri ancora, provati dalla fatica e dal freddo, decidono di tentare la sorte nei diversi “centri di accoglienza” fuori dalla capitale, le strutture di ricezione che hanno accolto molti degli sfollati di Calais. Ma troppi ancora dormono all’aperto nel grigio inverno parigino, tirando avanti alla giornata.

La Bulle

La scorsa estate il comando locale della polizia di Parigi ha intrapreso una serie di rastrellamenti contro i campi informali sorti sotto le linee della sopraelevata vicine al centro urbano, come Stalingrad e Jaures. Piccole tendopoli sono state smantellate nel giro di una notte. I sacchi a pelo danneggiati o distrutti, le tende confiscate. Un campo più grande nei pressi di Stalingrad è stato completamente raso al suolo e l’area è stata recintata. A novembre, mentre la violenza ancora imperversava, una debole risposta è giunta sotto forma di La Bulle (la bolla), un centro “umanitario” che conta 400 letti a Porte de la Chapelle.

Finanziata dallo stato e gestita dall’associazione cristiana Emmaus, La Bulle nasce con lo scopo di fornire un rifugio di emergenza fino a dieci giorni. Non è un villaggio vacanze. Gli alloggi sono suddivisi tra un blocco di cemento compartimentato, in precedenza di proprietà della compagnia tranviaria nazionale, e dei containers dentro ad una grande bolla di plastica bianca e arancione. È un posto terribile. Ma qui si possono consumare tre pasti al giorno, si ha un accesso limitato a corsi di lingua francese e, a differenza che dai centri di detenzione, è possibile uscirne per avventurarsi nella capitale durante il giorno (mentre le porte sono chiuse durante la notte). Ha immediatamente raggiunto il limite della sua capienza e da allora è rimasto al massimo delle sue capacità.

A partire da questa struttura, un secondo campo informale – un campo che non potrebbe essere un campo – è lentamente emerso attorno ai cupi incroci grigi. Durante il mattino, le persone alla ricerca di una sistemazione si mettono in coda ai cancelli di La Bulle, mentre altri rimangono in attesa di caffè, tè zuccherato o panini con la Nutella. Grazie a gruppi come Utopia 56 e Solidarité Migrants Wilson talvolta si ottengono anche dolciumi e frutta. Agli incroci non vi è accesso all’acqua potabile. Non ci sono bagni. E non ci sono tende.

“Un bastone nel terreno”

Danika, una volontaria instancabile che lavora con i rifugiati di Parigi da oltre un anno, ci mostra delle tende impilate in una piccola cantina, una delle tante in giro per la città che ha preso in prestito da amici per depositarvi le continue donazioni. “È Parigi. Se conficchi un bastone nel terreno, la polizia lo distruggerà”. Cerca di recarsi a Porte de la Chapelle la sera tardi ogni volta che può, alla ricerca dei nuovi arrivati che vi giungono con nulla più dei vestiti che portano addosso. Quando possibile, dà loro coperte e sacchi a pelo. Quelli che rimangono senza si accalcano in file attorno alle griglie di ventilazione che danno sulla metro, da cui si diffondono zaffate di aria calda che smorzano l’asperità del freddo di Febbraio.

È probabile che ci siano diverse centinaia di persone nella zona dell’incrocio: secondo stime fornite dai rifugiati e dai volontari si attestano tra le 150 e le 300. Molti si raggruppano su base nazionale. Sul lato settentrionale, sul lastricato della stessa strada principale e separati dal flusso del traffico da sottili barriere metalliche, ci sono uomini afghani. Sotto il cavalcavia a est ci sono circa trenta persone sudanesi. Qui l’amministrazione ha imposto uno dei peggiori esempi di architettura ostile che abbia mai visto. Dove prima le persone dormivano, sono state disposte alcune grandi rocce, in tutta evidenza poste in modo tale che un uomo non possa distendersi completamente.

Ci sono anche dei sudanesi in una piccola discarica poco a sud della strada principale, dietro ad un muro alto circa due metri. All’incirca a metà del muro una piccola scala aiuta a scavalcarlo. “Una volta mi ci sono arrampicata” dice Danika. “ma mi è stato intimato di andarmene”. Questo è quanto di più vicino alla privacy ci sia a Porte de la Chapelle, ma qui niente può essere permanente. Qualche giorno prima che arrivassi, la polizia aveva interrotto la distribuzione serale dei pasti dal retro di un furgone, minacciando di sanzionare i volontari con una multa di 135 euro.

I volontari resistono: diversamente, la maggior parte qui soffrirebbe la fame. Ma le regole mutano continuamente. Non possono parcheggiare la macchina sempre nello stesso posto. Non possono dare per scontato che saranno autorizzati ad entrare anche domani. Sembra che la politica sia permettere che una piccola parte degli aiuti venga distribuita, e d’altra parte qualora ciò non dovesse avvenire l’esito sicuro sarebbe un aumento dei ricoveri dovuti a fame e assideramento.

Tuttavia, forse a causa della vergogna pubblica seguita alla chiusura del campo di Calais, le autorità obbligano tutti a lavorare su base puramente contingente, giorno per giorno, senza possibilità alcuna di avanzare una pretesa legale su questo spazio desolato, di costruirci sopra o di rivendicare i più infimi bisogni umani.

“Ti ricordi di noi?”

Parlo con tre uomini pakistani che sono rimasti a Calais per molto tempo. Sono appena arrivati a Porte de la Chapelle e hanno bisogno di acqua potabile. A quest’ora della notte, l’unico posto dove trovarla è un negozio di kebab: compro le ultime bottigliette rimaste e un litro di Coca. “Se sei stata a Calais, non puoi non ricordarti di noi! Eravamo famosi. Gestivamo il ——- ——-!

Si trattava di un’instabile costruzione in truciolato con un generatore rumoroso, dove i volontari spesso si recavano per curry e tè caldo. Non fanno riferimento a dove hanno passato gli ultimi quattro mesi, ma sono allegri. Hanno in mente di cambiare aria non appena possibile. Uno ha vissuto a lungo in Gran Bretagna, e il suo accento pakistano si è mescolato con quello di Londra nord. Sono felici che io sia stata una loro cliente nel passato e promettono che la prossima volta che ci vedremo – a Londra, ovviamente – offriranno loro da bere.

Non tutte le persone con cui parlo – tutti richiedenti asilo provenienti da paesi altamente instabili – sono così allegre. Ma sono amichevoli, educate e informate. Due giovani ragazzi somali vogliono sapere cosa ne sarà degli accordi di Dublino dopo la Brexit: la Gran Bretagna continuerà ad utilizzare il database europeo di impronte digitali? Non ne ho idea, ma cerco di spiegare loro che le prospettive non sono buone. Come a Calais, i segnali di tensione sono sulle facce di tutti, e per via della natura incerta e frammentata del “campo” è difficile distribuire aiuti con dignità e a contatto diretto.

Invece, stiamo nervosamente in piedi ammassati attorno alle piccole borse di approvvigionamenti – mutande e calzini un giorno, kit per la rasatura il giorno seguente – distribuendo gli aiuti nell’ombra e il più rapidamente possibile. Ci sono stati scontri, specialmente in concomitanza con il brutto tempo, e non vogliamo guai con la polizia. Le persone ci dicono “thank you” o “merci” e si allontanano rapidamente. Un volontario francese ci saluta prima di raggiungere il suo gruppo. “Des caleçons (intimo)? Bene. Ce ne è bisogno.”

La gente attende a Porte de la Chapelle perché questa è la loro migliore possibilità di accedere anche solo ad una sistemazione temporanea a Parigi. Tuttavia, non è l’unica. Altri gruppi si raccolgono, in una ragnatela che si estende giù fino ai quartieri più poveri e multietnici del centro di Parigi. Sul canale vicino a Stalingrad, il Collectif Petit Dej de Flandres organizza una colazione essenziale ma dignitosa ogni mattina.

Le persone che dormono in angoli invisibili della metropoli indaffarata vanno e vengono, parlando e aggiornandosi a vicenda sugli ultimi sviluppi. Sono compiaciuti del fatto che una lista di contatti utili sia finalmente stata tradotta in arabo, e la piccola pila di fotocopie si esaurisce in fretta.

Qualche mese fa distribuivamo più di un migliaio di colazioni” dice Zelda, una studentessa che fa da volontaria ogni venerdì mattina. “Ora qui siamo a trenta, ma ci sono molti altri posti”. Un ristretto numero di rifugiati ha trovato riparo in hotel economici, ma tornano comunque per salutare. Le baguette sono donate, e alcune panetterie della zona portano pacchi con i dolci del giorno precedente. Quando arriva il momento di pulire, restituisco il cavalletto del tavolo ad un uomo in un ufficio in zona, il quale lo tiene al sicuro per la notte.

Un giorno per volta

Non ci sono grandi gruppi organizzati che si occupano dei rifugiati senza un alloggio e dei migranti, ma ce ne sono a dozzine di più piccoli, alcuni parzialmente finanziati o supportati da gruppi con connessioni in Gran Bretagna come Help Refugees e Care for Calais. I più fortunati riescono ad accedere alle più formali, per quanto basiche, strutture di assistenza fornite da Emmaus e France Terre d’Asile, un’associazione che si batte per i diritti dei richiedenti asilo. Gli altri sono obbligati a fare affidamento su questi piccoli gesti solidali organizzati da quei parigini che vedono in loro dei vicini.

Ci sono altri gruppi, più politicizzati, che ragionano sulle soluzioni di lungo periodo alla situazione. A partire dagli anni Ottanta, gruppi come Collectif des Sans Papiers si sono organizzati come un sindacato non ufficiale e un gruppo di pressione in difesa delle persone senza permesso di soggiorno. Il loro lavoro ha permesso di ottenere nel tempo delle occasionali amnistie per le persone senza documenti e di proteggere i diritti fondamentali dei lavoratori che risiedono in Francia da anni, talvolta decenni. In una città dove l’endemico razzismo istituzionale ha ancora una volta suscitato sollevazioni di massa a seguito dello stupro di un giovane ragazzo nero da parte di un ufficiale di polizia, il lavoro di gruppi anti-razzisti e di sinistra incorpora la solidarietà verso i “nuovi” migranti e rifugiati, ma cambiare la mentalità e le priorità politiche in questa nazione divisa è una corsa in salita.

La situazione a Porte de la Chappelle e altrove in città rimane cupa per i rifugiati e per i migranti “dublinati”, per coloro che sono ritornati a sud da Calais e per coloro i quali non conoscono la lingua o sono sprovvisti delle connessioni necessarie per orientarsi. È difficile prevedere gli scenari futuri. A differenza delle grandi occupazioni di alloggi ad Atene o nel vecchio campo di Calais, sembra che vi sia poca volontà di farsi carico della loro situazione. E per quanto la principale motivazione dell’apatia statale potrebbe essere l’assenza di fondi, il risultato finale è un progetto miope e de-umanizzante che rende coloro che già sono espropriati di tutto inermi e invisibili.