Per la libertà di movimento, per i diritti di cittadinanza

da La Republica del 20 maggio 2006

Al centro del nulla sulla frontiera ricchezza-povertà

Viaggio al centro del nulla, sul confine Arizona-Messico Quel che basta per scoprire l'inutilità della piccola guerra di Bush contro i clandestini

Il progetto di un imbarazzante “Berlin Wall”, le truppe, la visita di Bush per rendere spettacolare l’avvio di una nuova “guerra”, questa volta nel deserto di casa propria. Siamo andati a Yuma, sul confine bollente tra Arizona e Messico, per vedere che succede e per capire quanto sia vana la politica della Casa Bianca.

di Vittorio Zucconi

Yuma – Il termometro nel cruscotto scandisce il viaggio verso il confine, come la discesa dentro un vulcano. Parto da Phoenix che segna 32 gradi centigradi. Appena la città si arrende al nulla dell’Arizona, sbriciolandosi in un vuoto che mi accompagnerà per 350 chilometri fino a Yuma e inghiottirebbe mezza pianura Padana senza un rutto, comincia a salire. Dopo un’ora è a 35 gradi. Dopo due ore e mezza sfiora i 40 gradi. E quando l’enorme bandiera americana che segna la fine del mio mondo appare oltre la curva di un piccolo canyon color cioccolato, ecco la frontiera, ecco il vulcano. Quarantasei gradi. In maggio. Welcome to Yuma.
Cinquecento arresti al giorno. Gatti grassi contro topi famelici. Settantamila all’anno che ce la fanno e settecento che no, che muoiono seccati dal sole come prugne, nella corsa per attraversare il deserto e sfuggire alla “Migra”, soprannome della polizia anti immigrazione. Qui sorgerà il muro americano, la nuova Berlino pensata non per chiudere dentro, ma per chiudere fuori, nel punto dove il contatto immaginario fra il Nord e il Sud si fa incandescente sotto le suole e nero come l’asfalto che sfuma e prende alla gola. Qui si combatte una guerra di silenzi, di morti che cadono senza un grido e vengono seppelliti dove cadono, sotto le pietre per proteggerli dagli animali, una battaglia senza esplosioni, sotto un cielo stupendamente feroce e infinito. Prigionieri di un paesaggio che Dio aveva creato per le salamandre, non per gli uomini.
Yuma, Arizona. L’ultima frontiera, la guerra tra i ricchi del mondo che hanno bisogno dei poveri per restare ricchi, e i poveri che hanno bisogno dei ricchi per sfuggire alla condanna della nascita. Sì, c’è anche il treno per Yuma, processioni di container trascinati dai muli diesel della Union Pacific, lentissimi perché nulla può muoversi in fretta in questo forno, neanche un treno. «Mexico: Last Exit Before the Border», mi avverte un cartello sull’autostrada numero 8, ultima uscita prima del confine. Commedia divina alla rovescia: lasciate ogni speranza, o voi che uscite, perché per rientrare, se la vostra mamma non ha avuto il buon gusto di partorirvi nel mondo giusto, sarete condannati a vivere affacciati sull’abisso e a consumare la vita a decidere se buttarvi giù. In undici milioni, se le cifre sono vere e ne dubito, sono saltati giù e sono sopravvissuti. In cinquecentomila ci provano ogni anno, tenendosi per mano, chiudendo gli occhi, portandosi solo quello che hanno sulla schiena, una maglietta sudata, un paio di jeans, prima che costruiscano «the Wall», il muro di seicento chilometri che ora dovrebbero innalzare per sigillare l’Arizona dallo stato di Sonora, il Norte che ammicca nel buio oltre i cespugli e il Sur, l’America che non è America.

Quando Bush è stato qui, giovedì scorso, gli sceneggiatori della Casa Bianca, che hanno riscoperto la guerra nel deserto di casa loro dopo il disastro della guerra nel deserto degli altri, lo hanno inquadrato dietro l’unico pezzo di frontiera fortificata ma, come tutte le scenografie della falsa informazione, anche questo sketch era un inganno, un set. La frontiera fra gli Usa e il Messico non esiste. Basta uscire dalla città di Yuma che si finisce a sbattere contro il posto di controllo di San Luis, seguire le strade di campagna dall’altra parte o da questa per vedere che la sola barriera sono il caldo, la notte, il disorientamento, lo spazio, i serpenti a sonagli. E al muro nessuno crede davvero, neppure quelli che lo invocano per far scena con gli elettori e per distrarli dalle guerre lontane. Non lo vuole neppure Bush, che parla di «frontiere sicure» e di «permessi di lavoro temporanei» con documenti per gli immigrati clandestini, che è l’equivalente politico del “sale sulla coda”.

Documenti, dice? Torniamo a Yuma. La chica, la ragazza messicana che mi porta i tacos al tavolo, ha occhi belli e svegli sotto le ciglia finte e il rimmel, sia mai detto che una messicana si fa trovare struccata fuori casa. «Desculpe, me necessitan papeles…», azzardo nel mio improbabile spagnolo. «Parlo inglese», mi fulmina con un lampo di mascara «sono nata qui a Yuma, I am an American». Ok. Sorry. Mi servono documenti per un’amica che cerca lavoro… insomma… capisce, e stiro venti dollari sul vassoio di plastica. Capisce. La ragazza, rassicurata dal mio accento straniero, mi sussurra in fretta un nome, «Pollo a la Brasa», e un indirizzo, «Colorado Avenue e 15esima. Ernesto», e se ne va coi miei venti dollari e le sue ciglia finte.
Documenti, mister President? Nella rosticceria del pollo alla brace l’Ernesto rosola galline e frigge documenti falsi. Il menu è semplice: un pollo intero quindici dollari con papas fritas. Permesso di soggiorno falso cinquecento dollari, e senza patate fritte. Se lo voglio buono, con identità vera rubata a qualche ignaro cittadino, ci vogliono tre mesi e cinquemila dollari. La roba buona costa sempre cara. Però poi neppure la “Migra”, riesce più a pizzicarti. Torno domani coi soldi, lo saluto. E il pollo non lo vuoi? No, niente pollo. I polli sono quelli che si agitano credendo che si possa spegnere il vulcano dell’immigrazione dal Sud con un secchio d’acqua.

Yuma, Arizona. El Norte, la calamita, e il Sur, il Sud, polvere di ferro, limatura di umanità che vola e si incolla per sempre. Un popolare demagogo di origine italiana, tale Tom Tancredo, sta in tv a ogni ora e in ogni canale per predicare che i clandestini andrebbero arrestati tutti e deportati nei paesi di origine, Messico, Honduras, Guatemala, Salvador, tutto il centro America. Il classico cretino di successo da talk show, come ne conosciamo bene, basti pensare a quanti Jumbo Jet 747 servirebbero per portare via almeno undici milioni di persone, circa trentunomila aerei, più dell’intera flotta civile e militare del mondo. Per adesso, sotto la notte senza fine della Frontera, anziché deportarli, se non ce la fanno li seppelliscono sotto una pietra anonima con una scritta graffiata: No Olvidado, non dimenticato. La sera prima che arrivasse Bush, sono morte una donna incinta e il figlio di due anni. Al presidente non lo hanno detto, per non turbare lo spot.
Attraverso e riattraverso la Frontera, per gusto sadico, per impudenza, come i ricchi che nelle vignette si accendono i sigari con le banconote. Perché io posso e loro no, loro sono nati nel posto sbagliato e muoiono nel posto sbagliato. Tutti gli uomini sono stati creati con gli stessi diritti inalienabili, proclama la Costituzione americana. Dipende da dove nascono, si sono dimenticati di aggiungere. Questa volta vado a piedi, ad Algodones, insieme con frotte di vecchi americani che vanno in Messico a comperare farmaci che costano un terzo rispetto agli Stati Uniti e sono altrettanto inefficaci. Riprovo la stessa sensazione di vertigine che avvertivo quando attraversavo, tre decadi or sono, la frontiera sovietica. Di qua o di là, carcerati per caso. Rifaccio la parte dell’aspirante clandestino.

Le ottanta farmacie che conto nella strada principale di Algodones sono la pista di lancio della polvere verso il Nord. Nella farmacia Maria Virgen, un po’ di devozione aiuta la farmacologia, sotto un bar dove coppie di americani d’antiquariato succhiano margaritas e daiquires da cannuccine strettissime per farli durare di più, chiedo e ottengo risposta. Il “farmacista”, che di giorno vende pillole e di notte fa il “coyote”, il traghettatore di anime oltre la Frontera, conosce le leggi del mercato. «Ora è tutto più difficile, più peligroso, da quando Buuush – lo pronunciano così, strascicando la “u” – ha chiuso la Frontera», mi spiega. Duemila dollari a persona, con recapito in una casa sicura a Yuma. Duemila? I miei amici avevano detto mille e cinque. No, Mister (Señor lo dice soltanto Speedy Gonzales), oggi c’è Buuuuush, muy duro, muy duro. Ci sono garanzie? Ride. «Suerte, mister». Questione di culo.
Nella notte infinita, io, figlio del passaporto giusto, guardo dal basso della valle, dove il Colorado alle sue ultime anse, ormai stanco dopo aver scavato il Grand Canyon, bagna di verde le sponde del deserto, come il Nilo in Egitto; guardo i lampi delle fotoelettriche della “Migra”, montate sui furgoncini bianchi, tagliare la notte e sembrano i riflettori delle contraeree, contro il cielo stupendo. L’agente Tom Clayburn, che mi scorta, ascolta nel walkie talkie il bollettino: 250 presi e ributtati oltre, «catch and release» si chiama, acchiappa e rilascia, come i pesci pescati dai pescatori buoni. Lo scorso anno ne avevano presi 75mila, in questo tratto: «E dove le abbiamo 75mila celle?», ride amaro. I politicanti sognano tendopoli apposite, erette nel deserto, per detenere i clandestini. «Se l’immagina l’incubo di dar da mangiare e da bere a duecentomila accampati nel deserto, vecchi, neonati, malati?». Me l’immagino, ma la politica deve fingere di avere soluzioni, anche quando soluzioni non ci sono.

Se acciuffano i “coyotes”, i contrabbandieri di anime che arrotondano con l’ecstasy, le anfetamine prodotte in Messico e divorate negli Stati Uniti, quelli sì li mettono in galera, ma i “coyotes” sono bestie accorte. Fiutano l’odore della “Migra” da lontano, lasciano al loro destino i poveracci che hanno spolpato e corrono dall’altra parte ridendo: «Ci rivediamo domani sera, maricones gringos», americani froci. «Fermare l’immigrazione clandestina con pezzi di muro – dice Alejando Ruiz Costa, della Arizona University – è come stringere un palloncino pieno d’aria. Si gonfia da un’altra parte». Chiudi la California, passano per l’Arizona. Sigilli l’Arizona, passano per il New Mexico, poi il Texas. E se accetti l’ignominia di un “Berlin Wall”, arriveranno dal Canada, passando dal forno al frigorifero, o per nave, come i container che oggi sbarcano a Seattle carichi di cinesi, a volte vivi, a volte no.

«Vada all’ospedale di Yuma», mi aveva suggerito il professore della Arizona State University. Yuma oggi ha 200mila abitanti, scoppia di soldi, è una “boom town”, ha appena costruito uno shopping mall scicchissimo, con tutto il ciarpame del consumo di lusso. Ha portici di finto stucco coloniale irrorati da una nebbiolina di acqua gelida che scende a velo dal soffitto sui consumatori per tenerli freschi e vogliosi di spendere. Il 95 per cento della manodopera che l’ha costruito era di clandestini, scrive il Comune di Yuma, l’altro 5 per cento erano “regolari”, probabilmente con i “papeles” cucinati da Ernesto. Sono gli stessi manovali, muratori, carpentieri che hanno costruito l’ospedale, lo “Yuma Regional Hospital”, nuovissimo.
Gli ospedali, come gli obitori nelle zone di guerra, non mentono mai, sono i tristi amici del cronista. Entro nel reparto “Maternità e Infanzia”, un’ala a parte. Sembra la hall di un albergo a cinque stelle. Vetrate isolanti, climatizzazione perfetta, gli “illegali” hanno lavorato bene. Colori rassicuranti, pastelli azzurri e rossi, ovviamente. Pelouche giganti, qualche citazione western, “decò” di gusto Apache, ma sobrio e poi qui gli Apache c’erano davvero, anche se oggi i loro discendenti gestiscono i parcheggi e il solito casinò. Nella sala d’attesa con poltrone comode ma non soffici, studiate per donne col mal di schiena da gravidanza, ne conto dieci vistosamente incinte, otto con neonati o bambini piccoli a rimorchio. Nessuno piange, nessuno protesta. Sono tutti latinos meno una, la receptionist che mi guarda un po’ strano. Posso aiutarla? No, grazie, mia figlia verrà, volevo vedere. Ho visto. Come avevo visto, qualche ora prima, la “Clinica” di Algodones, la sola del paese.

Un’ora di macchina, una corsa nella notte tra i cespugli con il cuore in gola, un documento falso, e una donna porta il bambino che ha in pancia da un bordello sucio, sporco, urlante, sgomitante a questo reparto di maternità dove anche a un maschio viene voglia di partorire. E quella che riuscirà a farcela, a vendere tutto quello che possiede, se stessa compresa, la donna che sopravviverà alla traversata del deserto, a ore nel cassone sigillato di un camion sotto il sole di Sonora, ai coyotes, ai serpenti e agli uomini velenosi per sbarcare allo “Yuma Regional Hospital” metterà al mondo un americanino vero, uno del Norte. Uno con il suo passaportino giusto e tutte le cartine a posto. Uno con un futuro attraverso tutte le Fronteras.

Non l’hanno ancora inventato un muro che possa fermare una donna incinta che vuol dare un futuro al proprio figlio. Ma ci costano venti miliardi di dollari all’anno, strepitano i neo-fasc che sognano la grande muraglia nel deserto contro i messicani che vorrebbero tornare in quelle terre che ieri gli appartenevano. È vero, le donne che ce la fanno, quei bambini che verranno al mondo cittadini del grande Nord e andranno a scuola e si faranno curare nei pronto soccorso costano e parlano spagnolo. Fuori tutti, gridano. Via, via, chiudete la porta e buttate la chiave. E poi gli shopping center con la pioggerellina finta chi glieli costruisce? L’Ernesto? Chi gli compera tonnellate di rimmel e mascara? Le donne sotto le pietre non si truccano.