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Amara Lucania! Il ghetto di Boreano

Non v'è futuro se non nella lotta per i diritti

Foto di Matteo De Checchi

Nel corso dell’Ottocento i briganti meridionali scorrazzavano per l’intero territorio lucano caratterizzato da ampie e profonde forre scavate anticamente nella roccia di colline che, in lontananza, diventano montagne; quello della Basilicata è un angolo di Sud spesso dimenticato o nominato solo per l’estrema povertà.
Ho appuntamento con Francesco, nel primo pomeriggio, nella piazza principale di Venosa; Francesco Castelgrande è un delegato dell’USB, un dipendente pubblico che passa la maggior parte del suo tempo, compreso quello libero, a risolvere i problemi dei braccianti agricoli africani che popolano questo sperduto lembo di terra ai confini con la Puglia.
Francesco è un signore minuto, gli occhi vispi di chi le lotte le ha vissute davvero, con coraggio e determinazione. Mi stringe forte la mano e mi chiede di seguirlo, direzione Boreano, un ghetto disperso tra le campagna coltivate a fave. La strada per raggiungere il ghetto è un insieme di profonde buche e fango rosso, 5 chilometri dove solo un fuoristrada può salvarti la vita.
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Dopo più di mezz’ora di viaggio vedo in lontananza, tra i prati verdi, le prime macchie blu, caratteristiche di ogni ghetto che ho potuto vedere finora. Sono i lunghi nylon che normalmente vengono usati come copertura allo scheletro di legno delle “case” della jungle.
Il ghetto di Boreano è costituito da alcuni casolari in rovina e una tendopoli centrale che non ha niente da invidiare alle peggiori bidonville latinoamericane.
Il ghetto di Boreano è l’Inferno, quello vero! È la peggiore sacca di povertà che abbia potuto vedere fino ad oggi in Italia. Fuori stagione vivono in una cinquantina, provenienti quasi tutti dal Burkina Faso, ma quando la raccolta del pomodoro decolla allora il ghetto si riempie fino ad ospitare 600 braccianti. Sono numeri molto bassi rispetto alla Piana di Gioia Tauro, ma particolarmente significativi. Qui infatti, a differenza degli altri ghetti del Meridione, nessuna associazione lavora stabilmente, ad eccezione di MEDU nel periodo estivo, e Francesco resta l’unico punto di riferimento per questi nuovi schiavi che vivono in condizioni igienico sanitarie drammatiche; per la prima volta mi accorgo che sto parlando con persone scavate dal freddo invernale e dalla malnutrizione. Percorro le stradine del ghetto, latrine a cielo aperto, e l’aria diventa sempre più irrespirabile, l’odore tossico della plastica bruciata per scaldarsi è sempre più pregnante tanto da preferire, a questo punto, il freddo pungente.
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Francesco li conosce tutti, uno ad uno, sa le loro storie, i loro vissuti, parla con loro come fossero i suoi fratelli; mi racconta che odia la carità spicciola di alcune associazioni, mi ripete all’infinito che non sarà un pacco di pasta a risolvere i problemi dei braccianti africani di Boreano. Francesco sta insegnando loro il concetto di lotta per la dignità lavorativa e abitativa; oggi un africano guadagna due, tre euro l’ora per raccogliere pomodori e spaccarsi la schiena in un sistema interamente gestito e controllato dai caporali, dal trasporto all’affitto della baracca che, in alcuni casi, può arrivare a 100 euro al mese! Il sistema resta in piedi perché le istituzioni, in primis la Regione Basilicata, non hanno mai messo in campo un piano per uscire dal ghetto rendendosi così conniventi della criminalità organizzata e dei caporali.
Il ghetto di Boreano, come la maggior parte delle jungle del Sud, dà lavoro a molti: gli agricoltori locali sfruttano il lavoro nero degli africani per regolarizzare amici e parenti che, alla fine della raccolta, riceveranno l’indennità di disoccupazione senza aver mai riempito un cassone di pomodoro. È una vera e propria guerra tra poveri!
In mezzo a tutto questo, Francesco ha deciso di essere militante, di metterci la faccia. In paese, mi racconta, lui è “l’amico dei negri”, talvolta attaccato e criticato perché da italiano dovrebbe aiutare gli italiani, ma non arretra di un centimetro anzi, negli ultimi mesi, ha organizzato una serie di assemblee sindacali con i braccianti, l’ultima l’otto aprile, per chiedere a gran voce il superamento del ghetto e il diritto ad una residenza fittizia per i lavoratori africani. È un combattente e salutandolo mi rendo conto che avrò poche altre possibilità di incontrare ancora persone come lui.

A pochi chilometri da Boreano, immerso e adagiato nella verde campagna lucana, l’altro grande ghetto della Basilicata, quello di Palazzo San Gervasio, paese tristemente famoso per la presenza di un C.I.E, oggi chiuso. Percorro la strada affascinato da una natura primaverile che qui, in Lucania, assume forme e colori incredibili ma che è pesantemente sfregiata da un abusivismo selvaggio costituito da una miriade di casette e annessi agricoli che si stagliano in mezzo ai campi sagomati, quasi a formare un immenso villaggio turistico stile anni Ottanta. Questo è il grande ghetto di Palazzo. Negli anni marocchini, ghanesi e centrafricani hanno occupato quasi tutti i ruderi, senza luce e acqua, e oggi sono al soldo di grandi agricoltori che non li pagano più di tre euro l’ora, rigorosamente in nero!
Sono pochi i braccianti che si fanno vedere, sanno di essere invisibili; alcuni mi guardano e, trafelati, si rifugiano nelle loro “case”.
Decido così di non violare la loro privacy, la loro sofferenza e torno verso la macchina consapevole, una volta di più, che solo una grande lotta può ridare diritti e dignità a questi ragazzi dimenticati.

Matteo De Checchi

Insegnante, attivo nella città di Bolzano con Bozen solidale e lo Spazio Autogestito 77. Autore di reportage sui ghetti del sud Italia.
Membro della redazione di Melting Pot Europa.