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Appunti siciliani: no all’approccio hotspot né qui né altrove

di Stefano Danieli e Tommaso Gandini, attivisti della campagna overthefortress

Foto di Tommaso Gandini, sbarco a Catania

Questo è il primo testo di analisi prodotto dal viaggio collettivo di #overthefortress nel Sud Italia.
Abbiamo fino ad ora raccontato realtà ed eventi singolarmente, accomunandone alcune per senso o per prossimità geografica. Cercheremo, in questo e in altri testi a seguire, di slegarci dalla narrazione vera e propria per tentare un’analisi prendendo in considerazione tutto ciò che abbiamo attraversato in queste prime settimane. Una lettura che non mira ad essere esaustiva o complessiva, quanto piuttosto uno strumento per la discussione comune.
L’impegno infatti di cercare un filo conduttore, o quanto meno dei comuni denominatori, nelle varie tappe era impostato fin dall’inizio del viaggio. Non solo per indagare e monitorare quali sono e saranno i cambiamenti nei flussi migratori e nelle politiche di gestione di questi flussi, ma anche per cercare quali sono i punti deboli del sistema. Le parti più vulnerabili intese in un duplice significato: sia dove vi è più necessità di adoperarsi per supportare i migranti, ma anche dove le decisioni politiche raggiungono le loro massime contraddizioni, offrendo di fatto la possibilità di essere esposte a critiche e attacchi destabilizzanti.

Gli obiettivi dell’approccio hotspot

Abbiamo deciso di concentraci in questo primo ragionamento su un aspetto particolare, senza menzionarne altri, non solo perché è stato il più presente nelle tappe finora svolte, ma soprattutto per la sua crudeltà: l’approccio hotspot e ciò che ruota attorno agli sbarchi.
Ogni giorno dalle coste della Libia e dell’Egitto partono centinaia di persone, lasciano quello che molti definiscono un vero e proprio inferno. In particolare quello che accade ai migranti in Libia ce l’ha raccontato Giuseppe Cannella di MEDU: quasi tutti subiscono violenze, torture e trattamenti inumani e degradanti. Partono per scappare da violenza e paura, ma non tutti riescono a raggiungere le coste italiane.
Nonostante sia novembre, le partenze non calano e con esse crescono i morti in mare, più di 5.500 vittime a partire da gennaio, come ci riferisce il dossier “Un Cimitero chiamato Mediterraneo”.
E’ proprio il peso di quelle tombe che dovrebbe pesare sulla coscienza dell’Unione Europea, che ancora si rifiuta di creare vie legali e sicure per entrare in Europa.
I canali umanitari, safe passage, reclamati a gran voce da tantissime realtà, da reti antirazziste a singoli soggetti, tanto quanto da Medici senza frontiere, sono una necessità non più rimandabile.

Invece tutto si stia muovendo in direzione opposta, e l’adozione del sistema hotspot ha sigillato la fortezza Europa. La proposta della Commissione Europea a maggio 2015 prevedeva “controllo e condivisione”, ovvero l’identificazione forzata di tutti i richiedenti asilo e offrire ad alcuni la possibilità di accedere al ricollocamento. Ma il programma, che non ha mai funzionato (ad oggi i richiedenti asilo che hanno potuto effettivamente beneficiare della relocation sono circa 1.500), è un’enorme beffa nei confronti dei migranti e degli operatori legali ed attivisti che li supportano.
Viene quasi da sorridere se pensiamo che l’approccio hotspot nasce proprio come uno strumento di implementazione del programma di ricollocamento. Mentre i migranti in Italia aspettano i lunghi tempi d’attesa per accedervi, negli hotspot i nuovi arrivati vengono picchiati e detenuti arbitrariamente per ottenere le impronte digitali.

L’impegno messo in atto dalle autorità italiane è più catalizzato quindi nel controllo, molto più di quanto si adoperi per richiedere che funzioni il ricollocamento. Le Procedure Operative Standard (SOP), promosse dal Ministero dell’Interno, indicano le pratiche svolte per garantire gli obiettivi dell’hotspot: l’identificazione e la rilevazione delle impronte digitali, lo screening per separare i “richiedenti asilo” dai “migranti irregolari”, e il rimpatrio di questi ultimi.

Molti dei migranti che arrivano in Italia sanno cosa significa lasciare le impronte digitali e conoscono il regolamento di Dublino, perciò si rifiutano di essere inseriti nell’ormai famoso sistema Eurodac.
Rispetto a prima dell’era hotspot, adesso l’Italia mira ad ottenere un tasso d’identificazione del 100%. E nel raggiungere questo obiettivo le autorità italiane, ci riferiamo a poliziotti, carabinieri, guardia di finanza, guardia costiera e qualunque altra divisa che abbiamo visto nei porti siciliani, si sono macchiate di crimini inumani, come è ampiamente verificato dal rapporto di Amnesty International “Hotspot Italia”.

Il rapporto spiega come “come le politiche dell’Unione Europea portano a violazioni dei diritti di rifugiati e migranti”.
Per noi è però importante definire questi atti come violazioni dei diritti umani e basta, non certo diversi perché inflitti a migranti: quei diritti fondamentali che sono anche vostri e nostri.
In particolare, parliamo di maltrattamento e detenzione arbitraria, e l’uso della forza fisica per ottenere le impronte digitali è passato da un semplice spintone a duri pestaggi. Come riferiscono le tantissime testimonianze raccolte da Amnesty, la polizia italiana ricorre al manganello elettrico, ad umiliazione sessuale e inflazione di dolore ai genitali. E’ bene ricordare che tra i migranti che attraversano il Mediterraneo ci sono anche minori non accompagnati, donne e bambini piccoli, tutti potenziali vittime della stessa accoglienza.
Anche Nawal Soufi, attivista indipendente, riporta testimonianze analoghe riguardo l’hotspot di Pozzallo. Ci racconta di aver sentito le urla e le grida delle persone che erano in contatto con lei provenire da dentro l’hotspot. Inutile stupirsi di questi fatti se è la stessa Commissione Europea che ci chiede di adottare una normativa negli hotspot che consenta, al fine di ottenere le impronte, l’utilizzo della forza.

Questo ci fa capire che al momento non esiste una legge che rende leciti (come se bastasse una legge per farlo) i maltrattamenti e le violenze subite dai migranti. La stessa cosa vale per la detenzione arbitraria e il trattenimento per mesi di migliaia di persone negli hotspot e nei centri d’accoglienza.
Secondo la normativa vigente i migranti dovrebbero trascorrere un massimo di 48/72 ore negli hotspot, ma quelli che abbiamo incontrato fuori dall’hotspot di Pozzallo ci hanno detto di essere lì da più di un mese. La stessa cosa ci è stata riferita dagli operatori di MEDU, attivisti di Borderline Sicilia e dalla rete antirazzista catanese, oltre ovviamente dai migranti che abbiamo conosciuto al CARA di Mineo o al CPA di Messina.
Il trattenimento prolungato di persone, a prescindere dal paese di provenienza o da cosa abbiano fatto (compresi coloro che sono indagati di reato), è illegale secondo il nostro codice di procedura penale. E’ quindi evidente che per il sistema chi è costretto ad attraversare il mar Mediterraneo e arriva sulle nostre coste perde definitivamente la propria identità, si trasforma e diventa un file digitale che corrisponde ad una foto e un’impronta.
Nell’attesa di questa metamorfosi, che come abbiamo detto può durare diversi mesi, i migranti vengono tenuti all’interno di magazzini, tendopoli, ex caserme in condizioni di vita disumane.

Come già abbiamo sottolineato in diversi report, la direttiva hotspot si sta diffondendo sistematicamente in ogni porto o questura del sud d’Italia.
Abbiamo visto a Catania che il fotosegnalamento e l’identificazione avvenivano direttamente sulla banchina con il conseguente rallentamento delle operazioni.
A Palermo ci è stata segnalata una situazione allucinante: lo sbarco è durato più di 30 ore e mentre i migranti aspettavano sotto la pioggia con solo le coperte termiche, la polizia si dedicava alla burocrazia. La lunghezza delle operazioni si è resa necessaria proprio perché venivano portati in gruppi da 50 in questura per il rilevo delle impronte digitali e il fotosegnalamento.
A Palermo ci hanno raccontato di 300 persone provenienti dall’aerea del Magreb lasciate per strada con un decreto di espulsione. Grazie agli accordi di riammissione dell’allora Ministro Maroni non hanno accesso nemmeno alla richiesta d’asilo, ma questa scrematura avviene in modo sommario e discriminatorio per lo più tramite una selezione basata sul colore della pelle. Ne è prova che anche alcuni palestinesi facevano parte di questi 300 respinti.
In questo modo, se non il migrante non fa ricorso al decreto d’espulsione, perde la possibilità di fare richiesta d’asilo in Italia e allo stesso tempo diminuiscono le probabilità di riuscire a migrare in un altro Stato europeo. Dal momento in cui le impronte digitali sono state registrate, il regolamento Dublino prevede il ritorno in Italia.

Ultimo obiettivo fondamentale del sistema hotspot sono i rimpatri. Questi avvengono solo nei confronti di cittadini di Stati extraeuropei con i quali sono stati firmati accordi bilaterali. Ad esempio, sappiamo che i cittadini della Tunisia vengono rimpatriati immediatamente dopo lo sbarco. Altri possono subire lo stesso dopo alcuni mesi o anni di permanenza in Italia, come è stato per i 48 sudanesi rimpatriati la scorsa estate grazie a un “Memorandum d’intesa” con il dittatore sudanese firmato il 3 agosto dal capo della polizia italiana, Franco Gabrielli, senza ratifica del Parlamento.
Va sottolineato che il ministro Gentiloni è stato recentemente in missione diplomatica in Africa anche per organizzare i famosi Compact, degli accordi bilaterali con paesi come il Mali, il Senegal, la Nigeria ecc. con i quali l’Italia punta a bloccare le partenze ed agevolare i rimpatri in cambio di soldi.

A tutto questo processo, messo nero su bianco nelle SOP, si aggiunge la forsennata ricerca dei presunti scafisti, capri espiatori agli occhi dell’Unione Europea. Molto spesso non sono altro che migranti forzati con violenze o minacce a governare la nave, i quali una volta arrivati in Italia vengono incarcerati senza nemmeno sapere il perché.

Le conseguenze dell’approccio hotspot

Cercando di tirare le somme, l’ampliamento del sistema hotspot sta portando ad almeno due grossi cambiamenti.
Il primo è l’aumento dei richiedenti asilo bloccati in Italia. Fino a pochi anni fa la percentuale dei migranti che sbarcava in Italia ma che non veniva identificata, e quindi che probabilmente riusciva a proseguire per il Nord d’Europa, sfiorava il 50% (nel 2014 e 2015 l’Italia lasciò transitare circa 175.000 persone verso altri paesi europei). Ora il quadro è complessivamente modificato.
Questo sta portando ad un sensibile aumento dei migranti accolti all’interno del precario sistema d’accoglienza italiano, arrivando forse anche a causarne il collasso.
Già ora sono evidenti molte problematiche, dalle pessime condizioni di vita nei centri d’accoglienza al fallimento del ricollocamento. Queste disfunzioni vengono ignorate e comportano che si ignorino anche i principali beneficiari dell’accoglienza. Siamo di fronte ad una situazione simile a quella greca, dove di fatto si sta formando un vero e proprio “Stato prigione”, con migliaia di persone invisibili incollate in una terra che non può e non vuole accoglierli degnamente.

Il secondo aspetto è un aumento della criminalizzazione del soggetto migrante e la conseguente marginalizzazione degli stessi. Al pari dell’aumento dei dinieghi da parte delle Commissioni territoriali, i continui respingimenti differiti, a cui però non consegue quasi mai un vero e proprio rimpatrio, creano un “esercito” di persone senza possibilità di ricevere documenti, impossibilitate ad avere diritti ed escluse dal quel poco welfare che il nostro paese garantisce. Quasi inevitabilmente queste persone finiscono nei circuiti di tratta, dello sfruttamento lavorativo o della criminalità organizzata.

Alla fine di questa riflessione crediamo sia sbagliato parlare di fatalità e incidenti in mare, incidenti per le strade o nelle stazioni. I migranti muoiono ogni giorno, uccisi da chi li costringe a salire sui quei gommoni espropriando valore e ricchezza in Africa, a chi si rifiuta di creare vie legali per entrare in Europa e richiedere asilo o cercare lavoro. L’Europa e i suoi legislatori si voltano di fronte al dolore e al peso di tante bare, ridono mentre muore la loro umanità.
Oltre alle manovre possibili per arginare le cause che spingono le migrazioni, chiediamo a gran voce l’apertura di canali umanitari e la sospensione delle procedure di respingimento.
Al tempo stesso diciamo chiaramente che l’hotspot è un sistema di trattenimento indegno che presenta una sistematica violazione dei diritti fondamentali.
Crediamo che ora come non mai questo approccio debba essere criticato e smontato alla radice, prima che diventi una norma comunemente accettata.
No Hotspot, né qui né altrove!