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tratto da Migra news

Centri interculturali occasione di confronto per una crescita comune

di Daniele Barbieri

Reggio Emilia – Molto si parla di inter-culturalità (o di “multi-culturalismo”) mentre poco si indaga su quel che di concreto si muove. Per questo appare di particolare interesse l’indagine – o meglio «il rapporto finale della ricerca» – di Paola Bonora e Angela Giardini sui “I centri interculturali in Emilia Romagna” che sarà anche la base di un convegno, il 30 ottobre a Reggio Emilia.

Il libro è pubblicato dalla Regione Emilia Romagna (assessorato alle Politiche sociali, immigrazione, progetto giovani e cooperazione internazionale): 192 pagine dense di numeri, interviste, schede, bibliografie, indirizzi utili. Il sotto-titolo spiega: «un progetto di ricerca-azione per una territorialità attiva» e dichiara subito di porre al centro dell’indagine «spazi dell’appartenenza, segni dell’identità, riterritorializzazione multietnica del territorio».

Uno dei pregi del minuzioso lavoro di Angela Giardini è aver saputo valorizzare, accanto ai problemi, anche «le energie virtuose», la sfaccettata ricchezza (di umanità in primo luogo) che molti immigrati portano in dote.

Quali che siano le definizioni “scientifiche” di centro inter-culturale e le diverse tipologie che essi assumono, la ricerca della Giardini chiarisce subito che si sta indagando sulle «sedi di confronto fra nativi e migranti», quali siano i nomi o i luoghi nei quali «incontro, scambio, conoscenza» avvengono. L’autrice ne individua e studia una quindicina in Emilia Romagna che, come si può immaginare anche solo dai nomi, hanno origini e/o percorsi abbastanza differenti: la «Casa delle associazioni» di Piacenza, «Prometeo» e «Mondi insieme» di Reggio Emilia, il «Centro culturale internazionale della Filef» di Rio Saliceto, il «Servizio educazione permanente» di Modena, il «Cd-lei» (cioè Centro documentazione-laboratorio per un’educazione interculturale), il centro «Zonarelli» e la «Scuola di pace» di Bologna, «Trama di terre» di Imola, il «Centro per la pace, la cooperazione, l’integrazione multietnica e multiculturale» di Forlì (qui vi è pure uno “Sportello intercultura”) con il suo “gemello” (il nome è analogo) di Cesena dove vi sono pure un «Centro interculturale Spazio donna» e lo «Sportello intercultura Mirca Aldini», la «Casa delle culture» di Ravenna; vi sono poi alcune esperienze (a Parma e Carpi) che per varie ragioni vengono classificate come “concluse” e altri progetti (a Modena, Ferrara e Rimini) in fase di decollo. Da quelle parti si usa l’espressione “fatti, non pugnette”: assai poco scientifica – ovviamente è assente nella ricerca – ma assai chiara. E di fatti è ricco tutto il libro. Una piacevole eccezione… al tempo dell’aria fritta.

Nel quarto capitolo Angela Giardini espone «le problematiche dei centri interculturali» raccogliendo le testimonianze e le riflessioni dei protagonisti: 41 persone delle quali solo 4 di origine straniera e ben 29 donne. Lo sguardo si allarga su questioni di genere, sullo specifico degli adolescenti, sulle discriminazioni, sul versante educativo e sui bisogni formativi, sulle reti di relazioni, sui legami fra migranti e Paesi d’origine che spesso li rendono terminali di progetti («una pompa d’acqua o una scuola» come racconta Giuliana Zani).

Ne esce un quadro ricco dove questi centri sono «punti nodali della rete di relazioni» ma anche «il raccordo dei diversi soggetti e delle risorse mobilitate in ogni territorio per l’integrazione dei cittadini stranieri».

Spiace in un libro così importante e puntuale segnalare un errore abbastanza clamoroso: per due volte (prima a pagina 95 e poi 134) il pakistano Iqbal Masih viene indicato come turco. Lo si mette in rilievo non per pignoleria ma proprio perché – nella «Casa delle culture» di Ravenna – da tempo c’è un appuntamento con le scuole che si chiama appunto «La giornata di Iqbal» particolarmente importante nella logica di «promuovere il cambiamento culturale».

E’ forse opportuno riassumere qualche numero: se si ragiona sull’inter-cultura in Emilia Romagna stiamo parlando di circa 250 mila immigrati (dunque più vicini alla media europea, che si aggira sul 6 %). Ma altrettanto importante è il contesto socio-politico; siamo in una Regione che – al contrario di altre – prova ad avere uno sguardo strategico, dunque sa che «gli immigrati e i loro discendenti dovrebbero raggiungere nei prossimi 25 anni una quota media nella popolazione emiliano-romagnola attorno al 25%» come scrive l’assessore Gianluca Borghi nell’introduzione. Siamo in un tessuto socio-politico che, nella sua maggioranza, non gradisce «i ringhiosi epigoni di Huntington» (l’azzeccata definizione è di Paola Bonora), che non vorrebbe etichettare l’immigrazione come paura, emergenza sociale, rima sbilenca di terrorismo. Se la definizione delle identità – nel caso dei migranti spesso “vite a metà”, spezzate fra due mondi – è comunque difficile, bisogna però in primo luogo, come nativi, liberarsi dai frutti allarmanti di «mentalità che non sono mai riuscite a svincolarsi dalle logiche che hanno dominato il colonialismo e che dunque pretendono, ancora oggi, seppure in maniera indiretta, una implicita superiorità» (ancora Paola Bonora). Proprio qui – nelle nostalgie identitarie “occidentali”, per improbabili e ambigue che siano – si annidano sospetti, chiusure, ignoranze, xenofobie: sempre citando la Bonora, «dall’altra parte dello specchio si agitano gli artigli affilati del razzismo». Lo scavo in profondità condotto da Angela Giardini restituisce un po’ di ottimismo proprio sotto questo profilo: i problemi connessi all’immigrazione esistono anche in una regione privilegiata come l’Emilia-Romagna ma, anche grazie al quotidiano lavoro dei “centri interculturali”, è probabile che non si trasformino in panico sociale, ghettizzazione, discriminazioni ma divengano occasione di confronti per una crescita comune, per un nuovo intreccio di saperi e di culture.

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