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Cittadinanza – Con il “decreto del fare” via gli ostacoli sulla residenza legale

Ai nati in Italia non saranno più imputabili inadempienze commesse dai genitori nell registrazioni. Tradotta in legge la recente giurisprudenza

Foto di Angelo Aprile

Una riforma che sappia superare il principio dello ius sanguinis senza che il risultato sia una mediazione al ribasso tra tante proposte presentate, sembra molto, molto lontana.
Intanto però il dibattito in corso sul tema ha prodotto il primo risultato con il cosiddetto “decreto del fare”.
Non si parli di grande successo. Le norme contenute nell’articolo 33 del decreto legge n. 69 del 21 giugno 2013, che prima di diventare definitivo dovrà essere convertito in legge entro sessanta giorni dal Parlamento, non introducono nulla di innovativo, né tantomeno rappresentano un avanzamento nella direzione dell’auspicata riforma per lo ius soli.
Si tratta invece di una “pezza” messa a seguito delle tante, troppe ingiustizie prodotte dall’attuale normativa, laddove anche una volta soddisfatti i rigidi requisiti che occorre dimostrare per potersi veder riconosciuta la cittadiannza italiana, una miriade di prassi illegittime, messe in campo dagli uffici di stato civile, impedivano l’esercizio di tale diritto da parte dei giovani stranieri nati in Italia e divenuti maggiorenni.

Più che in un’occasione infatti moltissimi tribunali erano stati chiamati a pronunciarsi a seguito di rigetti emessi nei confronti di giovani che, pur potendo dimostrare in maniera lampante la loro continuità di presenza in Italia, non potevano invece vantare una interrotta “residenza legale” per tutto l’arco della loro vita, sia per il mancato adempimento dell’iscrizione anagrafica da parte dei genitori, sia per la mancanza di un titolo di soggiorno da parte degli stessi genitori al momento della nascita.
Nonostante alcune circolari avessero cercato di ammorbidire in qualche modo l’operato degli uffici, la poca chiarezza delle indicazioni impartite ed una certa rigidità nella loro interpretazione, avevano dato seguito ad una miriade di rigetti.

Sulla vicenda, nel corso degli ultimi due anni, la giurisprudenza aveva avuto anche l’occasione di pronunciarsi diverse volte. Su tutte, appare di fondamentale importanza la sentenza della Corte d’Appello di Napoli n. 1486 del 26 aprile 2012 che ha restituito per la prima volta un’ interpretazione della norma e delle circolari stesse conforme alla ratio della legge ed agli stessi obiettivi enunciati nella circolare del 2007, rifiutando le restrizioni con cui il decreto attuativo e la sua applicazione, avevano deformato il contenuto dela disposizone normativa

Facendo un passo indietro è bene ricordare che l’articolo 4, comma 2, della legge 91/92 prevede che “lo straniero nato in Italia, che vi abbia risieduto legalmente senza interruzioni fino al raggiungimento della maggiore età, diviene cittadino se dichiara di voler acquistare la cittadinanza italiana entro un anno dalla suddetta data”.
Il punto cardine della previsione normativa, oltre ovviamente al requisito del raggiungimento della maggiore età, è evidentemente la condizione della continuità di soggiorno senza interruzioni fino al compimento del diciottesimo anno.

Sul punto l’art 1 del D.P.R. 572/93, il regolamento attuativo della legge, definisce “legalmente residente nel territorio dello Stato chi vi risiede avendo soddisfatto le condizioni e gli adempimenti previsti dalle norme in materia d’ingresso e di soggiorno degli stranieri in Italia e da quelle in materia d’iscrizione anagrafica”.
Il confronto tra la disposizione prevista dalla legge 91/92 e la norma regolamentare rende immediatamente evidente come la seconda, di rango certamente inferiore alla prima e quindi ad essa subordinata, compia una restrizione piuttosto significativa quanto al requisito della residenza legale, dandone una definizione ancorata al contemporaneo soddisfacimento di due requisiti quali la titolarità di un permesso di soggiorno ed il perfezionamento dell’iscrizione anagrafica.
In buona sostanza, con il regolamento attuativo, l’art. 4 della legge 91/92 è stato deformato nel suo scopo, piegato di fatto ad un diverso obiettivo: non quello di riconoscere la cittadinanza italiana a chi sia nato e cresciuto qui e possa ovviamente dimostrarlo, ma quello invece di mettere a verifica la sua improbabile continuità nella titolarità di un permesso di soggiorno e nell’iscrizione anagrafica che poco hanno a che vedere con la volontà del legislatore di rendere cittadino, pur solo al diciottesimo anno di età, chi sul territorio italiano affonda le sue radici.

I Giudici della Corte d’Appello di Napoli erano così intervenuti chiarendo in primo luogo quale fosse il riferimento alla luce del quale interpretale il concetto di residenza legale. Secondo la Corte d’Appello “l’unico concetto di residenza legale richiamato dalla legge 91/92 non può essere che quello di cui all’art. 43 c.c.” che non prevede, ai fini del suo riconoscimento, l’adempimento dell’iscrizione anagrafica. La residenza – recita l’art 43 del c.c. – è nel luogo in cui la persona ha la dimora abituale, senza alcun riferimento alla necessità di compiere l’ulteriore adempimento dell’iscrizione nei registri dell’anagrafe.

Poi, proprio alla luce delle considerazioni espresse in premessa dalla circolare del Ministero dell’Interno n. 22 del 7 novembre 2013, i Giudici della Corte d’Appello di Napoli hanno successivamente affermato che “non possono imputarsi al minore nato in Italia e figlio di genitori stranieri, gli inadempimenti di quest’ultimi circa i permessi di soggiorno e/o le formalità anagrafiche, sicché deve venire in rilievo la situazione di effettiva (e quindi legale) residenza del minore …”

La Corte d’Appello dunque aveva aperto uno spazio interpretativo ben oltre le fattispecie prese in considerazione dalla circolare del Ministero dell’Interno del novembre 2007 e assolutamente in controtendenza rispetto a quanto disposto dal decreto attuativo, ritenendo che, non solo nei casi di tardiva iscrizione anagrafica o di temporanea interruzione nella titolarità del permesso di soggiorno del minore, ma anche in tutti gli altri casi riguardanti la mancata iscrizione anagrafica o la titolarità di un permesso di soggiorno, eventuali inadempienze dei genitori non possano ricadere sulla possibilità del minore di esercitare il diritto al riconoscimento della cittadinanza italiana.

La pronuncia è stata di particolare importanza proprio perché ha preso in considerazione le tante situazioni in cui proprio i genitori dei minori, al momento della nascita, si trovavano in posizione di soggiorno irregolare.
Il caso più frequente è quello che riguarda i tantissimi cittadini albanesi (e non solo) entrati in Italia tra il 1992 ed il 1994, che hanno potuto ottenere un permesso di soggiorno solo grazie alle sanatorie emanate negli anni seguenti e quindi hanno potuto iscrivere all’anagrafe e nel titolo di soggiorno i loro figli solo dopo il rilascio del permesso.
Su casi simili si erano poi espresse in maniera analoga anche altri tribunali consolidando un orientamento pressoché univoco.

In buona sostanza, grazie alle sentenze citate, è stato possibile ricostruire un quadro interpretativo secondo cui, né la tardiva iscrizione anagrafica, né la presenza irregolare dei genitori al momento della nascita, possono essere motivo di rigetto dell’istanza di riconoscimento della cittadinanza del minore nato in Italia che abbia compiuto il diciottesimo anno di età, quando questi possa dimostrare in altro modo la sua presenza continuativa in Italia.

Ovviamente, come già ricordato, il fatto che sia stata la giurisprudenza a dover dirimere diverse controversie è indice implicito di una problematica tutt’altro che risolta. Le interpretazioni giurisprudenziali non sono conosciute ai più, così, migliaia di domande si sono dovute bloccare di fronte alle prassi illegittime degli uffici, diventando oggetto di contrattazione, come accade alla stragrande maggioranza degli adempimenti relativi alla condizione giuridica dei cittadini stranieri. A farne le spese sono stati centinaia di giovani stranieri nati in Italia che si vedono negato il diritto di divenire cittadini italiani nell’unico Paese che hanno conosciuto.

E’ su questo defici di legittimità che si inseriscono le disposizioni contenute nel decreto legge n. 69, nel tentativo di ripristinare una interpretazione corretta della legge.

Niente riforma per lo ius soli quindi, ma in qualche modo, le pressioni e l’acceso dibattito avvenuto sul tema della cittadinanza ai nati in Italia ha costretto il legislatore a mettere fine quantomeno a quelle ingiustificate prassi che rendevano l’attuale legge in vigore ancor più restrittiva e irragionevole.

L’art 33 del cosiddetto “decreto del fare”, al comma 1, prevede che “Ai fini di cui all’articolo 4, comma 2, della legge 5 febbraio 1992, n. 91, all’interessato non sono imputabili eventuali inadempimenti riconducibili ai genitori o agli uffici della Pubblica Amministrazione, ed egli può dimostrare il possesso dei requisiti con ogni altra idonea documentazione” chiarendo (speriamo) in maniera definitiva quale debba essere il comportamento degli uffici, così come la giurisprudenza aveva affermato.

Al tempo stesso il decreto ha introdotto una ulteriore disposizione al comma 2, di particolare importanza, laddove si prevede che “gli ufficiali di stato civile sono tenuti al compimento del diciottesimo anno di età a comunicare all’interessato, nella sede di residenza quale risulta all’ufficio, la possibilità di esercitare il diritto di cui al comma 2 del citato articolo 4 della legge 91/92 entro il compimento del diciannovesimo anno di età. In mancanza, il diritto può essere esercitato anche oltre tale data”.

Si tratta di capire ora quale sarà la sorte di migliaia di domande rigettate in passato, nella speranza che gli uffici possano agire in auto-tutela per riformulare i provvedimenti negativi adottati in precedenza.

Il decreto in ogni caso sembrerebbe definitivamente cancellare quella prassi che aveva costretto molti a vedersi negato ingiustamente il diritto di essere riconosciuti cittadini nel paese in cui sono nati e cresciuti, anche se le disposizioni introdotte non sono in grado di offrire in alcun modo risposte a quella condizione di forzata di non cittadini che costringe per diciott’anni nel limbo centinaia di migliaia di ragazzi.