Per la libertà di movimento, per i diritti di cittadinanza

tratto da Migra news

Clandestina tra i clandestini

di Cristina Formica

Ha fatto molto scalpore in Messico il film “Un dìa sin mexicanos”, del regista Sergio Arau: è la storia di una giornata molto particolare della California, che si sveglia senza un terzo della sua popolazione, quella di origine ispanica. Solo una giornalista messicana sembra essere sopravvissuta alla sparizione, su cui si interroga l’intero stato, mentre la vita quotidiana va a rotoli. Infatti la classe lavoratrice più numerosa ha smesso di dare il suo apporto alla potenza mondiale, e il messaggio induce alla riflessione sulle questioni razziali e sull’emigrazione, sempre molto presenti nel ricco stato statunitense e in tutto il continente. Infatti, le rimesse dell’emigrazione, clandestina e non, sono l’entrata principale della federazione messicana, e la relazione tra il ricco nord e il povero centro America sono spesso dettate dalla questione della clandestinità di molti cittadini messicani. Spesso i giornali e i telegiornali messicani raccontano la dura vita degli indocumentados, i migranti che senza documenti cercano la fortuna rischiando la vita attraverso il deserto del nord del paese; e poi, oltre i confini nazionali, già in California o in Texas, i sopravvissuti rischiano di incappare nelle forze regolari antimmigrazione o in quelle più pericolose di bravi cittadini, che si uniscono per eliminare il problema umano alla radice, anche in modo violento. Gli aeroporti messicani sono tappezzati da manifesti orgogliosi dei compatrioti che emigrano, e programmi bilaterali o delle agenzie internazionali dei diritti umani fanno il possibile per impedire o rendere meno drammatico il difficile viaggio verso il dollaro, simbolo di ricchezza e di riuscita sociale. Le donne dei piccoli pueblos, i paesi dell’interno messicano, spesso simili a quelli dell’Italia degli anni Cinquanta, ti raccontano che aspettano il marito da uno, due, tre anni, e intanto ricevono i 100-200 dollari mensili, che in Messico costituiscono una buona base economica per mangiare, in attesa di un ritorno non assicurato da troppi anni di lontananza.

“El hambre viene, el hombre se va” canta Manu Chao, ma non è solo la fame che spinge questi uomini (e sempre più spesso anche donne e bambini) ad andare lontano, la sicurezza di poter avere, con 2.000-3.000 dollari, il terreno su cui costruire la propria casa, coltivare il mais, insomma avere un tetto sulla testa e la pancia piena per tutta la numerosa discendenza. Sempre più è anche il mito della modernità, dello sviluppo marcato da oggetti tecnologici, dal miraggio di una vita migliore che porta tanti cittadini di questo paese a rischiare la vita e il proprio futuro verso un paese, gli Stati Uniti, che mal sopporta i latinos, i nativi di lingua spagnola, di cui i messicani costituiscono un’ampia rappresentenza. Ma non ci sono solo loro: il Messico è geograficamente l’ultimo stato del centro America, appena sopra il Guatemala, e poi l’Honduras, il Nicaragua, il Salvador. Paesi con un recentissimo e terribile passato, dove la povertà è la base della vita quotidiana. Il Messico anche numerosi cittadini di origini meno umili, come gli stessi statunitensi o gli ancora più ricchi europei, che qui trovano quella possibilità di una vita meno rigida e socialmente regolamentata che nei paesi nativi va sempre più scomparendo.

Il Messico è quindi terra di emigrazione ed immigrazione contemporaneamente, paradiso e speranza per chi comunque vuole cambiare vita. La Migra, la polizia addetta ai controlli dei passaggi umani sul territorio nazionale, non risparmia neanche gli aristocratici migranti di pelle bianca, o gueros, come si dice qui: ho conosciuto e sentito dire di diversi italiani incarcerati e quindi picchiati e ricattati perchè indocumentados, irregolari. Per tutti vale la regola di pagare un piccolo o grande contributo perchè la Migra ti lasci andare, e se non ce l’hai sei sempre nelle mani di qualcuno con più potere di te, fosse solo perchè sei rinchiuso nel carcere, e allora devi pagare 100, 200 pesos. Più pensano che tu ne abbia più devi pagare.

Anche a me è capitato di essere indocumentada, senza documenti, per più di un mese, e per fortuna non sono incappata in nessun controllo della visa, il visto locale; aiuta sempre essere di un altro continente, e ancor di più muoversi nelle pieghe del turismo internazionale, che comunque costituisce fonte di reddito in molti meravigliosi luoghi di questo grande paese. Al sud, poi, l’emigrazione e il turismo costituiscono spesso le uniche fonti sicure per garantire il cibo e qualcosa in più per gli abitanti del Chiapas e di Oaxaca, gli stati più poveri della confederazione messicana, quelli meno sviluppati, senza fabbriche, ricchi solo di braccia e di ricchezze naturali, compreso il petrolio, probabilmente uno dei maggiori problemi rispetto anche alla lotta zapatista del Chiapas, abitato oltre il 50% da indigeni.

Proprio perchè senza visto, e sperando in una possibilità di lavoro interessante, ho deciso di varcare i confini nazionali messicani. Nessun problema alla frontiera, il controllo si svolge in modo rapido ed annoiato, la mia aria da brava ragazza e qualche stupidaggine mi aiutano, il poliziotto non è interessato a controllare meglio il mio passaporto. Il Guatemala, poi, molto più povero del Messico, accoglie gli stranieri, quindi i soldi che noi abbiamo, con molta benevolenza e gentilezza, basta evitare Guatemala City, dove gli stessi guatemaltechi muoiono per un cellulare. Qualche giorno in una delle tante località turistiche del paese mi permettono un ritorno regolare in Chiapas. Ma… Per mio costume preferisco evitare i luoghi e i trasporti strettamente turistici, per cui con pochi altri gueros prendo uno dei tanti pittoreschi pullman di linea, molto colorati ed affollati dagli indigeni di origine maya, il 60% della popolazione guatemalteca. È il primo novembre, sia in Guatemala che in Messico è una delle più importanti feste nazionali con il 2 novembre, giorno dei defunti, quando tutti rendono omaggio agli antepasados, gli antenati a cui sempre bisogna dimostrare rispetto ed affetto attraverso cerimonie familiari e pubbliche, in casa e nei cimiteri. Un lungo viaggio verso La Mesilla mi porta a prendere un autobus alle 5 del pomeriggio, quando ormai si fa sera.

L’autobus parte pienissimo, siamo 4 europei, due messicaei e poi guatemaltechi, quasi tutti donne e uomini giovani, sui vent’anni. Appena usciti dalla città, ci ferma un primo controllo di polizia: tutti quelli senza documenti devono scendere. Il ragazzo seduto accanto a me viene risparmiato, forse pensano che siamo insieme, a me basta mostrare il passaporto perchè il poliziotto passi oltre. Sono indocumentados, mi spiega un uomo seduto davanti al mio sedile, e la polizia chiede un contributo perchè continuino il viaggio verso la frontiera. A gruppetti risalgono, la sosta dura 15-20 minuti, non di più. L’esperienza è forte, si sente nell’aria l’eccitazione, la paura di questi giovani. Finalmente ripartiamo, ma neanche 10 minuti dopo c’è un nuovo controllo: il poliziotto sale, ordina di accendere la luce, e riprende il controllo dei documenti. Questa volta anche il ragazzo mio vicino scende, con i suoi amici: si allontanano scortati dai poliziotti, io scendo per una sigaretta con l’uomo che mi aveva spiegato prima cosa stava succedendo. Mi dice che un coyote, una guida di clandestini, aspetta queste persone senza documenti vicino alla frontiera, già è tutto pronto per il loro arrivo, cibo e albergo, oltre che il passaggio irregolare del confine tra Guatemala e Messico. “Todo costa en esta vida, solo Dìos…” Tutto ha un costo, tranne Dio. Mi spiega che i poliziotti chiedono come 100 quetzales a persona, circa 9 euro, e che prima, con la guerra civile in atto, il passaggio irregolare costava molto meno. Poi, a circa 10 chilometri dal confine, scende anche lui con tutti gli indocumentados, e mi viene il dubbio che sia lui il coyote.

Rientro in Messico in modo regolare, solo 60 giorni di visto perchè gli stranieri non sono ben visti in Chiapas e sempre c’è il sospetto che vengano per impicciarsi dei locali affari messicani, infatti San Cristobal de las Casas è presidiata da molta più polizia che altre città. La fortuna assiste me e gli altri europei, un gentilissimo messicano ci dà un passaggio gratuitamente verso San Cristobal, ormai è già notte. Commento con lui, mentre gli altri dormono, quello che era successo in Guatemala, e poi gli chiedo: “E qui com’è?” Molto peggio, mi risponde, qui è molto peggio.