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Commento al Decreto legislativo n. 30 del 6 febbraio 2007

Comunitari e neocomunitari – Soppresso l’obbligo della carta di soggiorno

a cura dell' Avv. Marco Paggi

Sommario:

– L’iscrizione all’anagrafe
– I familiari extracomunitari di cittadini comunitari
– Il regime transitorio
– Le misure di allontanamento in caso di mancanza dei requisiti per il soggiorno
– Il requisito del reddito
– Obbligo di dimostrare l’attività lavorativa da parte dei cittadini neocomunitari
– Il nulla osta
– Il rinnovo del psd in caso di mancanza di reddito
– II casi di illegittimità del diniego del rinnovo
– Il rinnovo nei casi di attività lavorativa non regolarizzata

L’11 aprile 2007 è entrato in vigore il D.lgs. n.30 del 6 Febbraio 2007.
Questo decreto legislativo, già nominato più volte, riguarda l’attuazione della normativa n. 38 del 2004 dell’Unione Europea relativa al diritto dei cittadini dell’Unione, e dei loro familiari, di circolare e di soggiornare liberamente nel territorio degli stati membri.

Salvo per modestissimi dettagli, non c’è ragione di distinguere tra cittadini comunitari e cittadini neocomunitari, quindi, il decreto è valido anche per i cittadini rumeni e bulgari che dal 1 gennaio 2007 hanno fatto ingresso nell’Unione Europea.
Ad essi sono equiparati anche i loro familiari, che traggono questo diritto direttamente dalle norme del Trattato dell’Unione. Dei cittadini dell’Unione hanno lo stesso status giuridico, salvo alcune peculiarità per quanto riguarda l’esercizio del diritto al soggiorno che sono disciplinate dal D.lgs. n.30 del 6 Febbraio 2007.

Nel caso di cittadini comunitari e nei confronti dei loro familiari, non siamo più nel campo di applicazione del Testo Unico delle Legge sull’immigrazione, così come modificato dalla Legge Bossi–Fini (Legge 189 del 2002), ma esclusivamente nell’ambito dell’applicazione delle norme che riguardano i cittadini comunitari, salvo i casi in cui, nell’ambito della normativa generale sugli extracomunitari, non siano contenute disposizioni più favorevoli, e quindi applicabili anche ai cittadini comunitari.

In particolare, i cittadini comunitari non hanno più l’obbligo di richiedere la carta di soggiorno, mentre invece, per i loro familiari, nel caso in cui siano extra-comunitari, pur godendo dello status giuridico comunitario a tutti gli effetti, è previsto dal decreto legislativo che debbano richiedere l’apposita carta di soggiorno per familiari extra comunitari di cittadini comunitari . Questa non va confusa con il permesso di soggiorno per i cosiddetti lungo soggiornanti, che sostituisce invece la vecchia carta di soggiorno prevista per gli extracomunitari. Da questo punto di vista, il rischio di fare confusione è molto alto, per questo puntualizziamo alcuni aspetti, anche per quanto riguarda implicazioni del tutto pratiche, a partire dagli adempimenti che sono necessari, per coloro che appartengono a queste categorie, per l’accertamento del diritto al soggiorno.

L’iscrizione all’anagrafe
Nel caso di cittadini di paesi membri dell’Unione Europea, ivi compresi i cittadini neocomunitari, non c’è più l’obbligo di richiedere la carta di soggiorno, è invece sufficiente richiedere l’iscrizione all’anagrafe.
L’iscrizione all’anagrafe comporta una ricognizione effettuata direttamente dall’Ufficiale di anagrafe, in ordine all’esistenza dei requisiti per l’esercizio del diritto alla libertà da parte dei cittadini dell’Unione. Verifica che è necessario compiere nel caso in cui si tratti di persone che intendono soggiornare per più di tre mesi, o nei primi tre mesi di soggiorno in Italia durante i quali, il cittadino comunitario, è comunque ammesso da subito alla possibilità di lavorare in regola, senza alcun tipo di restrizione.

I familiari extra-comunitari di cittadini comunitari
Per quanto riguarda invece i familiari extra-comunitari dei cittadini comunitari invece, permane l’obbligo di richiedere la carta di soggiorno, che ha prerogative, peculiarità, e requisiti da verificare, diversi da quella prevista per gli extra comunitari.
In questo caso, infatti, non è necessario rivolgersi alle poste, cioè non è necessario presentare la domanda di rilascio della carta di soggiorno attraverso gli appositi kit, e quindi non è necessario sottoporsi alla relativa spesa, né alla spesa relativa al rilascio del permesso di soggiorno elettronico, né al pagamento della marca da bollo che, nel caso di cittadini comunitari e di soggetti assimilati (come appunto i familiari extracomunitari) è esclusa.
Quindi, in questo caso, è possibile rivolgersi direttamente alle questure.

Il Ministero dell’Interno, con una nota indirizzata al Centro dei Diritti di Patronato, il 6 aprile scorso, ha precisato che, a partire dall’11 aprile, data dell’entrata in vigore del D. lgs. n. 30 del 6 febbraio 2007, che regola il diritto di soggiornare e circolare liberamente nel territorio dell’Unione per i cittadini comunitari ed loro familiari, gli uffici postali non devono più accettare le domande relative al rilascio della carta di soggiorno dell’Unione Europea in favore di cittadini dell’Unione Europea. Questa precisazione è senz’altro utile perché in molti hanno continuato e continuerebbero a presentarsi presso le poste con i kit, sostenendo maggiori spese e andando anche incontro al rischio di tempi di attesa più lunghi connessi alla lavorazione della pratica tramite sistema postale, alle relative verifiche e a trattazioni informatiche notoriamente farraginose.

I cittadini dei paesi membri dell’Unione Europea non hanno più bisogno di chiedere la carta di soggiorno e si potranno rivolgere direttamente ai comuni, mentre invece i loro familiari extracomunitari non hanno più la necessità di rivolgersi al servizio postale, potranno invece rivolgersi direttamente alle questure.

Sono state segnalate da più parti condotte difformi rispetto a questo quadro normativo.
In molte questure, per motivi connessi alla enormità di pratiche a cui devono far fronte per le varie verifiche e trattazioni (decreto flussi, rinnovi dei permessi di soggiorno, complicazioni che derivano da questa nuova procedura) si preferisce deviare il traffico verso gli uffici postali anziché assorbirlo, come invece è diritto pretendere da parte dei cittadini comunitari e dai loro familiari.

I comunitari ora non avranno più interesse a rivolgersi né alle questure né alle poste, e si potranno rivolgere direttamente all’ufficio anagrafe del comune del luogo in cui risiedono, per chiedere contestualmente, l’iscrizione all’anagrafe della popolazione residente, e l’accertamento del diritto al soggiorno, che avverrà attraverso un’apposita attestazione per la qual è già stata divulgata dal Ministero dell’Interno l’apposita modulistica da adottare.

Per quanto riguarda invece i familiari extracomunitari di cittadini comunitari, che naturalmente già abbiano esercitato il diritto di soggiorno in Italia, è possibile richiedere la carta di soggiorno per i familiari di cittadini comunitari anche presso il servizio postale, ma è pieno diritto di queste persone richiederla direttamente anche presso il locale ufficio della Questura. Questo comporta una minore spesa ma soprattutto un minor dispendio di tempo (visti i tempi di attesa incalcolabili derivanti attualmente dalla procedura postale).

I familiari extracomunitari dei cittadini comunitari avranno poi il diritto di ottenere l’iscrizione anagrafica, tuttavia, ai fini del perfezionamento della procedura di attribuzione della residenza anagrafica, è indispensabile che esibiscano la carta di soggiorno per i familiari dei cittadini extracomunitari nel frattempo richiesta e ottenuta presso la competente Questura. In questo caso, precisa la circolare del Ministero dell’Interno del 6 Aprile 2007 indirizzata non solo alle questure e alle prefetture ma anche all’Associazione Nazionale dei Comuni d’Italia e all’amministrazione dei servizi demografici, i familiari potranno richiedere e avviare la procedura di iscrizione anagrafica presso i comuni, pertanto, la domanda di iscrizione non potrà essere rifiutata per il solo fatto che non sia già pronta la carta di soggiorno per i familiari dei cittadini comunitari.
La procedura di iscrizione anagrafica potrà essere avviata e quindi consentire la verifica della dimora abituale attraverso l’accertamento della disponibilità di un’abitazione tendenzialmente stabile. La procedura potrà però perfezionarsi solo successivamente, quando sarà esibita all’ufficio anagrafe la carta di soggiorno per i familiari extracomunitari di cittadini comunitari.

Il regime transitorio
La circolare del Ministero dell’Interno si premura di precisare anche il regime transitorio, cioè i casi di coloro che, in applicazione delle vecchie norme, prima dell’entrata in vigore del D. lgs. n. 30 del 6 febbraio 2007, avevano già presentato la richiesta della carta di soggiorno e non l’ hanno nel frattempo ottenuta.
A partire dall’entrata in vigore del decreto, per i cittadini dei paesi membri dell’Unione Europea non verrà più rilasciata la carta di soggiorno, questa sarà necessaria solo per i loro familiari, quindi, per i cittadini nati in paesi membri dell’UE, la carta di soggiorno, anche se precedentemente richiesta, non avrà più ragione di essere rilasciata e i relativi procedimenti saranno archiviati d’ufficio.
In questo caso, dice la circolare, per l’iscrizione anagrafica, proprio perché si tratta di persone a cavallo tra la vecchia e la nuova legislazione, sarà sufficiente esibire all’ufficio anagrafe la ricevuta di presentazione dell’istanza di carta di soggiorno già precedentemente rilasciata dalla Questura o dal servizio postale.
In realtà questa precisazione è superflua perché se, a partire dall’11 di Aprile, un cittadino dell’UE ha diritto di ottenere direttamente l’iscrizione anagrafica, e quindi l’accertamento e la intestazione del diritto di soggiorno nel territorio italiano, è chiaro che non avrebbe senso trattare in senso peggiorativo coloro che avevano precedentemente avviato la procedura. Quindi l’esibizione della ricevuta attestante l’avvenuto inoltro della domanda non ancora perfezionata, non dovrebbe essere ritenuto necessaria.

Le misure di allontanamento in caso di mancanza dei requisiti per il soggiorno
E’ giusto ricordare che le norme contenute nel D. lgs. n. 30 del 6 febbraio 2007, se da un lato regolano il diritto di soggiorno permanente, che naturalmente, una volta trascorsi cinque anni di residenza legale nel territorio dello stato, è esteso anche ai familiari, dall’altro, prevedono e regolano anche le procedure di allontanamento.

Le norme del trattato prevedono la possibilità di espulsione dei cittadini comunitari e di coloro che sono assimilati ai cittadini comunitari nel caso in cui questi siano ritenuti pericolosi per l’ordine pubblico o per la sicurezza dello stato.
Il D. lgs. n. 30 del 6 febbraio 2007 ha regolato agli artt. 21 e 22 anche le misure di allontanamento, termine eufemisticamente distinto rispetto a quello di espulsione, ma che con questo istituto presenta forte somiglianza; si tratta di una novità rispetto al previgente D.P.R. 54/2002, che esprime un evidente approccio “sicuritario” anche nella disciplina della circolazione comunitaria.

Il requisito del reddito
Il cittadino comunitario e il suo familiare sono espellibili in senso tecnico solo se sono pericolosi per la sicurezza dello stato e per l’ordine pubblico, ma il D. lgs. n. 30 del 6 febbraio 2007 ha previsto che possa essere disposto l’allontanamento dei cittadini dell’Unione Europea, e ovviamente dei loro familiari, quando vengono meno le condizioni che determinano il diritto di soggiorno dell’interessato, quando cioè il soggetto non possegga più quei requisiti minimi previsti per consentire una ricognizione sulla effettività del diritto al soggiorno.
Uno di questi è la disponibilità di un reddito minimo pari all’importo annuo dell’assegno sociale; certo, si tratta di una soglia minima ma possono essere non rare situazioni di famiglie in difficoltà che si trovano al di sotto di questa soglia di reddito.

La mancanza di questo requisito potrebbe comportare il rischio di allontanamento dal territorio dello stato.
Certo, il provvedimento di allontanamento non ha carattere definitivo, non pregiudica un ingresso anche immediatamente successivo, a condizione che siano dimostrati i sopravvenuti requisiti minimi per il diritto di soggiorno, tuttavia si affaccia nel nostro ordinamento ciò che finora non avevamo conosciuto: l’espulsione nei confronti dei cittadini comunitari era prevista fin’ora solo per ipotesi di pericolosità per la sicurezza dello stato e per l’ordine pubblico.
Un cittadino comunitario che fosse risultato presente sul territorio nazionale senza la carta di soggiorno poteva di fatto rimanere sul territorio senza rischiare una misura coercitiva.
Ora invece, il soggetto che non abbia fatto accertare il possesso dei requisiti previsti o che li abbia persi nel corso del tempo, prima di acquisire il diritto di soggiorno permanente, per il quale devono essere trascorsi cinque anni, può essere esposto al rischio di allontanamento regolato dall’art. 21 del D. lgs. n. 30 del 6 febbraio 2007.

Il provvedimento di allontanamento prevede un termine per lasciare il territorio nazionale non inferiore ad un mese, quindi non è immediatamente esecutivo, e non può essere imposto un divieto di reingresso.
Il provvedimento è adottato dal Prefetto ed è impugnabile davanti al tribunale entro 20 giorni dalla notifica.
Non è tuttavia ben chiaro se e, soprattutto, come detto provvedimento potrebbe o dovrebbe essere azionato anche dal Comune qualora, nel corso degli adempimenti previsti per l’iscrizione anagrafica, si dovesse verificare l’assenza o il venir meno dei requisiti per il diritto al soggiorno.

L’art. 13, comma 3, del D. lgs. n. 30 del 6 febbraio 2007 prevede che i cittadini dell’Unione che siano lavoratori subordinati autonomi o che siano in condizioni di occupazione, e alla ricerca di occupazione, non possano essere oggetto dei provvedimenti di allontanamento se non di quelli adottati per motivi di ordine e sicurezza pubblica. Quindi non è il semplice ingresso nello stato di disoccupazione che può giustificare automaticamente l’adozione del provvedimento di allontanamento.
Ma non mancheranno equivoci a questo riguardo, ed è ciò che più preoccupa.
In un’Europa che dovrebbe essere sempre più unita e favorire sempre più la circolazione, spiace dover sottolineare l’adozione di provvedimenti di carattere sanzionatorio anche in situazioni in cui il soggetto non rappresenta un pericolo, né per la sicurezza dello stato, né per l’ordine pubblico, né dal punto di vista della pericolosità sociale.

Per quanto riguarda l’accertamento dei requisiti per il diritto al soggiorno, sotto il profilo del reddito si fa riferimento all’importo annuo dell’assegno sociale che per l’anno 2007 è pari ad euro 5061.68 annui.
Questo è l’importo previsto come soglia per il reddito complessivo di due persone che siano familiari conviventi e deve essere raddoppiato nel caso di un nucleo familiare di tre persone, in questo caso, il reddito da dimostrare sarà superiore ai diecimila euro annui, e va poi triplicato se i familiari conviventi sono quattro o più di quattro.
Naturalmente va tenuto conto di eventuali entrate da parte di familiari conviventi, quindi non è necessario che questa soglia di reddito sia dimostrata in base al reddito di uno solo dei familiari ma nell’ambito del nucleo familiare.

Tutto quello che abbiamo detto finora vale naturalmente anche per i cittadini neo-comunitari, tuttavia c’è una particolarità che riguarda anche l’accertamento del diritto al soggiorno.

Anche i neocomunitari hanno il diritto di andare direttamente ed esclusivamente presso gli uffici anagrafe dei comuni, e non più presso la Questura, perché sia accertato il loro diritto al soggiorno e per ottenere il relativo attestato; solo i loro familiari extra-comunitari dovranno ancora richiedere la carta di soggiorno.

Obbligo di dimostrare l’attività lavorativa da parte dei cittadini neocomunitari
Pur avendo il diritto di rivolgersi esclusivamente ai comuni per l’iscrizione anagrafica e l’accertamento al diritto di soggiorno, i cittadini romeni e bulgari, dovranno, come tutti gli altri, dimostrare, ai fini della verifica del reddito minimo, la posizione lavorativa, essendo in vigore, ancora fino al primo gennaio 2008, un regime transitorio di utilità estremamente dubbia come abbiamo già avuto modo di osservare più volte.

Il nulla osta
Nel caso in cui si tratti di attività lavorativa che non sia inclusa nei settori già immediatamente liberalizzati, per esempio nel settore dei trasporti, dovranno dimostrare, non solo l’attività lavorativa, ma anche il possesso del nulla osta che ancora è necessario chiedere per determinati settori di attività, da parte di chi intende assumere lavoratori rumeni e bulgari.
E’ un nulla osta questo, ne abbiamo già parlato, di evidente inutilità, perché la sua richiesta non sottostà a nessuna verifica di nessun requisito, né di alcuna valutazione dell’impatto sul mercato lavoro, né alla verifica della disponibilità di quote, né di graduatorie, eppure, tra la sua richiesta ed il suo rilascio, presso le diversi sedi competenti, si registrano attese che superano abbondantemente il mese.

Molti datori di lavoro sono a disagio perché, salvo per quei settori in cui i lavoratori possono essere assunti direttamente in piena libertà, perché è adottata l’immediata liberazione, come per l’edilizia, il lavoro domestico, la metalmeccanica, il turismo, l’agricoltura, settori che riguardano lavoratori altamente specializzati, nei rimanenti vi è la difficoltà di dover sottostare a questa inutile richiesta di nulla osta.

Prevista una sanzione indiretta
Avevamo già osservato che, pur essendo questo nulla osta previsto dal regime transitorio, non vi è nessuna norma di legge che preveda una sanzione per chi assume un lavoratore in queste condizioni; tuttavia, per chi assume immediatamente un rumeno nel settore dei trasporti e facchinaggio, per fare un esempio, pur non essendo prevista nessuna sanzione, con il D.lgs. n.30 del 6 febbraio 2007, si prevede una sanzione indiretta.

Infatti, se un cittadino rumeno che ha già iniziato a lavorare nel settore dei trasporti, come autista o come facchino ad esempio, si reca presso gli uffici comunali per chiedere l’iscrizione anagrafica, continueranno a chiedergli, non più la carta di soggiorno, ma il nulla osta, per poter perfezionare l’iscrizione all’anagrafe e quindi per poter ottenere l’attestato di diritto al soggiorno.
Questo può generare qualche confusione anche nell’ambiente dei datori di lavoro perché non mancheranno senz’altro coloro che, non avendo una esatta cognizione di queste disposizioni, non solo delle disposizioni legge, ma delle relative circolari, potrebbero continuare a chiedere al cittadino rumeno di ottenere prima il diritto al soggiorno, e quindi l’iscrizione anagrafica, provvedendo solo successivamente ad effettuare l’assunzione.

In realtà la procedura è un po’ più complessa, prima bisogna chiedere il nulla osta, ottenuto il nulla osta, anche in assenza di iscrizione o comunque anche in assenza di perfezionamento dell’iscrizione anagrafica, può essere avviato il rapporto di lavoro, e contemporaneamente può essere richiesta l’iscrizione anagrafica.

Nel caso di attività lavorativa svolta da parte di un cittadino rumeno o bulgaro, in uno dei settori non ancora liberalizzati, con regolare versamento dei contributi, iscrizione al libro paga, e con tutte le comunicazioni effettuate, non essendovi alcuna norma di legge che preveda una sanzione, il datore di lavoro e lo stesso lavoratore, non dovrebbero andare incontro a nessun inconveniente se non quello di rischiare un provvedimento di allontanamento che però, per essere considerato legittimo, dovrebbe presupporre che non sussistano i requisiti per il soggiorno.

Il rinnovo del psd in caso di mancanza di reddito
Tornando a parlare dei cittadini extracomunitari, uno dei problemi più ricorrenti, che rischiano di essere acuiti dalla complessità della procedura postale, è quello del rinnovo del permesso di soggiorno, in particolare del rinnovo del permesso di soggiorno per asserita mancanza di occupazione regolare, quindi per mancanza di reddito.

Come è noto, il cittadino straniero che perde il lavoro ha il diritto di conservare il permesso di soggiorno fino alla scadenza. Se alla data di scadenza la richiesta di rinnovo è presentata con una nuova attività lavorativa in corso, salvo altre circostanze ostative, avrà diritto. o quanto meno una legittima aspettativa, di rinnovare il permesso di soggiorno.
Viceversa se, nel momento in cui viene effettuata la richiesta di rinnovo del permesso di soggiorno, ha alle spalle, negli ultimi sei mesi o per periodi più lunghi, una costante disoccupazione -la giurisprudenza in questo senso è altrettanto costante- potrà essere rifiutato il rinnovo del permesso di soggiorno.

Tuttavia, da questo punto di vista, l’elaborazione della giurisprudenza ha consentito di puntualizzare l’interpretazione della norma nel senso che, nei casi di disoccupazione per gli ultimi sei mesi, non vi è comunque un mero automatismo.

II casi di illegittimità del diniego del rinnovo
In particolare, per chi, nonostante la perdurante situazione di disoccupazione protratta oltre i sei mesi, in base alla legge, sia fruitore di un trattamento di mobilità, disponendo di mezzi di sostentamento ritenuti sufficienti e legittimi, sarebbe illegittimo, come è stato a suo tempo affermato dal Tar Veneto, il rifiuto di rinnovo del permesso di soggiorno.

Inoltre, per chi, al momento del rinnovo del permesso di soggiorno, dimostra di avere una concreta disponibilità di occupazione, il diniego del rinnovo è da considerarsi illegittimo, perché, secondo la giurisprudenza – anche del Consiglio di Stato – l’amministrazione non ha soltanto il dovere di valutare le circostanze documentate al momento dell’inoltro della richiesta di rinnovo, ma anche il dovere di valutare le circostanze che siano sopravvenute nel tempo intercorrente tra la presentazione della domanda di rinnovo e la determinazione che l’amministrazione adotta a riguardo.
Essendo questo periodo spesso lungo, a volte di mesi, se non addirittura di oltre un anno, come abbiamo già potuto constatare in moltissimi casi ed in molte aree del territorio, in questo arco di tempo può verificarsi che l’interessato reperisca una nuova occupazione. Anche questa nuova occupazione regolare deve essere valutata utilmente al fine del rinnovo del permesso di soggiorno.

Un’altra situazione già presa in considerazione da parte della giurisprudenza, specialmente da parte del Tribunale Amministrativo Regionale del Piemonte, è quella di chi, pur non avendo un’occupazione da più di sei mesi, può dimostrare di poter vivere a carico dei propri familiari, che siano già regolarmente soggiornanti nel territorio italiano, sia nel caso di figli che siano divenuti maggiorenni, sia nel caso di genitori che possono dimostrare di vivere legittimamente a carico di una persona che invece dispone di un’attività lavorativa, o comunque, di un reddito sufficiente per mantenere se stessa e anche i familiari a carico.
Anche in questo caso l’automatismo del rifiuto del rinnovo del permesso di soggiorno deve considerarsi illegittimo.

Il rinnovo nei casi di attività lavorativa non regolarizzata
Un caso particolare è stato trattato da una recentissima sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale del Veneto, sentenza n. 1133 del 2007, depositata il 6 aprile 2007, e riguarda chi ha svolto attività lavorativa in condizioni irregolari, perché l’attività lavorativa cosiddetta in “nero” non risulta, non è documentabile, e quindi, non essendo dimostrabile, difficilmente può essere utilizzata per dichiarare l’esistenza di un reddito, di un’attività lavorativa, e quindi per chiedere il rinnovo del permesso di soggiorno.

Dobbiamo dire che, generalmente, da parte delle Questure, l’asserita attività lavorativa in “nero”, anche se dimostrata, dimostrabile, o verificabile, non viene considerata utile ai fini del rinnovo del permesso di soggiorno.

Ma nel sistema del diritto del lavoro italiano, il lavoro “nero” non è mai considerato una colpa del lavoratore, non è prevista alcuna sanzione, nemmeno di tipo amministrativo, nei confronti di chi lavora in “nero”, tutte le sanzioni previste dal nostro ordinamento giuridico sono inflitte nei confronti del solo datore di lavoro.
Infatti, si presume giustamente che, quella tra il lavoro regolare ed il lavoro in “nero”, non sia una scelta libera del lavoratore e che la situazione di impiego irregolare sia normalmente imposta dal datore di lavoro, l’unico a trarne concreto vantaggio.

Tenuto conto di questo, l’accertamento di un rapporto di lavoro irregolare, proprio in quanto situazione illecita non imputabile se non al datore di lavoro, dovrebbe comunque essere utile e rilevante ai fini della verifica dei requisiti per il rinnovo del permesso di soggiorno.
Da questo punto di vista, la giurisprudenza si è occupata molto raramente di situazioni del genere, proprio perché, e questo è una conferma, presso le Questure si tende a non prendere in considerazioni periodi di lavoro “nero” -ancorché dichiarati dagli interessati che fanno richiesta del permesso di soggiorno sotto la loro responsabilità e riferiti a circostanze precise e verificabili— ed a rifiutare il rinnovo del permesso di soggiorno.

L’espediente del rimedio giudiziario, e quindi del ricorso al Tribunale Amministrativo Regionale,
è stato sperimentato, ma in casi che per il momento sono ancora rarefatti.

La sentenza che abbiamo citato, del T.a.r del Veneto, prende in considerazione il caso di un cittadino extracomunitario che aveva richiesto la regolarizzazione nel 2002.
Il presupposto per il perfezionamento della regolarizzazione, secondo la legge, era quello di dimostrare un’occupazione che fosse in atto almeno da tre mesi alla data di entrata in vigore della legge, quindi prima del 10 settembre 2002.
Nel caso specifico il soggetto si era visto rifiutare la regolarizzazione perché aveva dichiarato in buona fede di aver iniziato a lavorare esattamente il 10 settembre 2002 (fraintendendo la domanda e riferendosi non all’effettivo inizio del lavoro ma alla sua successiva “emersione”).
In realtà il rapporto di lavoro era iniziato da tempo, ma il datore di lavoro, solo con la richiesta di regolarizzazione, il 10 settembre 2002, aveva regolarizzato anche il rapporto, come in realtà è successo in moltissimi casi.

Prima ancora che fosse perfezionato il diniego nei suoi confronti, il lavoratore, aveva prodotto la documentazione relativa ad una vertenza di lavoro avviata, con il patrocinio di un’organizzazione sindacale, nei confronti del datore di lavoro.
Il rapporto di lavoro era inoltre iniziato da più di tre mesi alla data del 10 settembre 2002, addirittura nel marzo dello stesso anno. Questo però non è bastato a convincere la Questura che ha poi adottato il provvedimento di rifiuto di rinnovo del permesso di soggiorno.

Solo successivamente, nell’ottobre 2006, questa vertenza si è conclusa con una sentenza del Giudice del lavoro del competente tribunale che ha accertato la sussistenza del rapporto lavorativo a decorrere dal marzo 2002, e ha quindi implicitamente accertato anche la presenza dei requisiti previsti per la regolarizzazione.

C’è da notare che, quando venne proposto, all’inizio del 2004, a seguito di un diniego notificato dopo moltissimo tempo dalla data in cui era stata presentata la domanda di regolarizzazione, il ricorso aveva comportato la proposizione immediata di un’istanza di sospensione del provvedimento della Questura, che fu rifiutata, perché non era ancora sopravvenuta una sentenza che accertasse l’esistenza di un rapporto di lavoro, ma vi era semplicemente una vertenza avviata e non ancora fosse sfociata in un vero e proprio accertamento.
Successivamente, a seguito dell’ accertamento del Giudice del lavoro, il Tar dovette accertare il diritto di soggiorno di questo soggetto, con decorrenza dal 2002. Questa vicenda si è protratta per quasi cinque anni, e solo ora l’interessato può confidare legittimamente nel rilascio del permesso di soggiorno di cui aveva titolo fin dal 2002.

Questo caso ci permette di trarre delle conclusioni analoghe e più generali per la situazione di chi rischia il rifiuto del rinnovo del permesso di soggiorno per il fatto di non poter dimostrare un’occupazione in quanto ha lavorato in “nero”.

La possibilità di rivendicare il diritto al soggiorno c’è, ma alla condizione di poter dimostrare compiutamente, concretamente, l’esistenza del rapporto di lavoro irregolare, e quindi, alla condizione di promuovere un vero e proprio accertamento in sede sindacale, confidando che il datore di lavoro, convocato per il tentativo di conciliazione, riconosca che vi è stato effettivamente un rapporto di lavoro, e se ciò non basta, promuovendo una causa davanti al giudice del lavoro competente, per accertare l’esistenza del rapporto di lavoro e con essa la verifica dei requisiti per il rinnovo del permesso di soggiorno.
Una cosa è una condizione di effettiva disoccupazione, un’altra è una formale disoccupazione che invece maschera una situazione di lavoro effettivo, che rappresenta, da parte del lavoratore, un’attività comunque lecita, perché l’unico soggetto che commette un illecito è datore di lavoro.