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Continua il processo ai pescatori tunisini, degna conclusione di un’estate di morte e indifferenza

di Alessandra Sciurba, Progetto Melting Pot Europa

La vicenda dei pescatori tunisini arrestati a Lampedusa l’8 agosto scorso è emblematica.
Racchiude in sé tante delle cose che da anni accadono nel nostro paese, e ormai quasi dappertutto nel mondo occidentale. La criminalizzazione ai danni dei migranti, ad esempio, come di chiunque “si macchi della colpa” di interferire in qualche modo con le politiche di morte e violenza che cercano da lungo tempo di gestire le vite e condizionare la mobilità di questi “viaggiatori non autorizzati”.

Nel caso specifico, il reato per il quale si trovano imputati i membri dell’equipaggio tunisino in questione è quello di avere salvato la vita a 44 persone alla deriva nel Mare Mediterraneo e, per di più, di averle portate fino in Italia, invece di fare dietro front e raggiungere la Tunisia.

Non importa che fossero più vicini a Lampedusa che all’Africa, e figuriamoci se importa il fatto conclamato e risaputo che, se qualcuno dei naufraghi tra cui si contano cittadini sudanesi, eritrei, etiopi, avesse voluto chiedere asilo politico com’è nei suoi diritti, in Tunisia avrebbe trovato solo la via dell’espulsione.
L’Italia e l’Europa hanno stabilito da tempo ormai, che Ben Ali è un partner d’eccellenza nel “contrasto dell’immigrazione clandestina”, come del resto lo è anche il dittatore libico Gheddafi, con buona pace della lega tunisina per la difesa dei diritti dell’uomo – il cui presidente ha rilasciato dichiarazioni che denunciano chiaramente la gravità delle violazioni perpetrate dal suo paese verso i migranti – e di tutte le Ong, le associazioni, gli attivisti e i ricercatori che hanno raccontato quello che avviene in Libia. Basterebbe ricordare l’allucinante racconto del pescatore Salvo Lupo circa quel che avviene sulle piattaforme libiche quando vengono intercettate imbarcazioni che trasportano esseri umani in viaggio verso l’Europa.

Favoreggiamento dell’immigrazione clandestina a fini di lucro: questa l’accusa mossa ai pescatori tunisini.
Fino 15 anni di carcere: questa l’eventuale condanna in cui potrebbero incorrere.
Lo stesso giudice chiamato a presiedere anche il più famoso processo contro l’operato della nave Cap Anamur dovrà decidere del loro destino. E il suo esordio non è stato proprio dei migliori.
La dott.ssa Antonia Sabbatino, probabilmente certa di poter risolvere la questione velocemente e potere tornare a pensare a cose più importanti della sorte di questi africani evidentemente colpevoli anche solo per il fatto di trovarsi in Italia, ha dovuto invece ascoltare la dichiarazione di sette imputati che, sicuri della loro innocenza, hanno rifiutato ogni ipotesi di rito abbreviato o di un patteggiamento optando per il rito ordinario. Alla prima udienza, il giudice ha deciso di accogliere solo sette testimoni della lista di 26 persone “accuratamente formulata e motivata”, escludendo veri e propri protagonisti di questa assurda vicenda di criminalizzazione del dovere civico e dell’umana solidarietà, come la donna marocchina mamma di due bimbi tra cui uno malato, trasportata d’urgenza a Palermo per venire ricoverata.

Allo stesso modo non sono stati ascoltati i medici di Msf che hanno prestato il primo soccorso e quindi verificato la gravità delle condizioni di alcuni naufraghi, e sostanzialmente tutto il personale sanitario lampedusano e palermitano che avrebbe potuto comprovare l’assoluta urgenza di portare i migranti a terra il più velocemente possibile. Sono state ritenute superflue anche le dichiarazioni dei proprietari dei pescherecci sequestrati che avrebbero invece potuto dimostrare il fatto che gli imputati fossero davvero pescatori e non scafisti in cerca di soldi. E’ solo grazie alla tenacia degli avvocati che si stanno occupando di tutelare la situazione dei pescatori che la vicenda rimane fortunatamente ancora aperta.

È triste dover ricordare, nel tentativo di discolpare questi “criminali”, che tra le persone da loro salvate c’è anche un bambino di cinque anni affetto da paralisi spastica, un uomo in fin di vita, due donne incinte. È triste dovere convincere la Corte e l’opinione pubblica che proprio non si poteva fare altrimenti, che la drammaticità della situazione richiedeva di sorvolare sulle leggi nazionali e internazionali e di seguire una diversa legge morale che ormai si è di continuo apertamente invitati a mettere a tacere.
È triste perché l’incolumità della persone umana dovrebbe avere la precedenza su ogni cosa, mentre per avere il diritto di sopravvivere, sembra sempre che alcuni debbano dimostrare il fatto che erano davvero sul punto di morire.
È triste, e comunque non serve.
A meno di smentite che accoglieremmo con stupore e gioia, questo sembra un altro di quegli episodi la cui fine debba simbolicamente servire da monito a tutti. Le leggi del mare sono spezzate, sono cambiate, sono stravolte. La gente non è tutta uguale. Le dichiarazioni universali sono carta straccia. Il razzismo è una modalità di governo della popolazione imprescindibile per i partiti di destra come per quelli di sinistra. I diritti umani non sono i principi sui quali basare le relazioni internazionali e la convivenza globale dei cittadini del mondo: sono merce di scambio per fini economici come lo sono i corpi dei migranti continuamente attraversati dai nostri confini.

Dietro processi come quello in corso ad Agrigento, l’attenzione si concentra sulle accuse ridicole e sulla criminalizzazione degli innocenti, mentre i riflettori si spengono sulla sorte dei naufraghi soccorsi che sono già finiti a ingrossare le fila dei detenuti nei cpt, o centri di prima a accoglienza o come diavolo li si voglia chiamare. Donne e uomini con la colpa di essere sopravvissuti da espiare d’ora in poi attraverso una vita di clandestinità da mettere in commercio sul mercato del lavoro a nero, continuamente migranti senza il permesso di fermarsi e trovare un posto nel mondo.

Soad Kufi, uno degli uomini tratti in salvo, ha raccontato al giudice di aver pagato 1.500,00 dollari per il viaggio suo e di sua moglie dalla Libia fino all’Italia. Di essere rimasto in Libia per sei anni, con tutto ciò che la vita in Libia comporta, prima di riuscire a raccogliere questi soldi e a partire.
Chissà se il giudice si è fermato solo un attimo a pensare a quanta ingiustizia traspaia da una simile storia, uguale a quella di tantissimi altri. Al fatto che tutti quei soldi, più quelli che Soad ha speso per raggiungere la Libia sarebbero potuti servire per pagarsi un biglietto aereo fino a Roma e iniziare una vita più serena alla ricerca di un lavoro normale. Chissà se si è fermata a pensare che chi ha salvato la vita di Soad ora rischia la galera, mentre chi– prima affamando il suo paese e poi scrivendo leggi razziste sull’immigrazione e sull’asilo- ha costretto lui e la sua famiglia a mettere in gioco la propria esistenza per migliorarla almeno un pochino, invece non pagherà niente.
È più facile prendersela con gli scafisti di turno che quando non sono persone del tutto estranee ai fatti come gli imputati in questione, sono spesso migranti come gli altri che hanno avuto la sfortuna di reggere il timone lungo il gioco alla roulette russa della traversata.

Il processo è ancora in corso. Speriamo alla fine di poter scrivere per una volta qualcosa di diverso.

In allegato il resoconto dell’udienza dibattimentale