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Cosa c’è dietro ad un nome? La complessa realtà della migrazione e dei diritti umani nel 21simo secolo

di Pia Oberoi, OpenDemocracy ottobre 2015

Perché chiamiamo rifugiato qualcuno che scappa dalla guerra?
Perché non può essere qualcuno che scappa da una povertà senza speranza?

Raisa Abdul Aziz aveva otto mesi e Aylan Kurdi aveva tre anni quando le loro famiglie salirono su imbarcazioni insicure a pochi giorni l’una dall’altra, in cerca di un futuro in Europa per i loro figli. Le loro vite sradicate, e le oro tragiche, commuoventi morti in mare, rendono queste due famiglie molto simili. Ma Risa era la figlia di immigranti del Bangladesh che lavoravano in Libia, mentre Aylan era figlio di rifugiati siriani in Turchia. Ci hanno detto che, fondamentalmente, si tratta di due tipi di persone diverse.

Foto: Angelo Aprile, #apiediscalzi Venezia, 14 settembre 2015
Foto: Angelo Aprile, #apiediscalzi Venezia, 14 settembre 2015

Ma lo sono davvero?

In assenza di una definizione legale universale, la parola “migrante” descrive semplicemente uno schieramento misto di persone che si sposta e vive in un paese diverso dal suo. I dati ci dicono che dei circa 232 milioni di migranti nel mondo, intorno ai 19,5 milioni sono rifugiati che hanno lasciato i loro paesi a causa di conflitti e persecuzioni. Tuttavia, queste cifre crudeli non ci dicono nulla delle motivazioni e i bisogni dei migranti, in particolare di quelli che non sono rifugiati ma sono comunque marginalizzati, esclusi e vulnerabili. E, a prescindere dal fatto che tali migranti costituiscano il 20% o il 50% di questi tumultuosi “flussi misti”, le loro vite sono importanti.

Circa 70 anni fa, nell’ombra di un’imminente Guerra Fredda, la comunità internazionale definì “rifugiato” qualcuno che fuggiva da persecuzioni politiche, non da una povertà estrema. Nei decenni successivi a partire dal 1951, tuttavia, le sfumature intrinseche nelle migrazioni internazionali sono diventate più visibili. È sempre più chiaro che i limiti dell’esperienza umana non sono così ben ordinati o nettamente separati come le nostre accuratissime categorie legali finemente disegnate avrebbe voluto fossero.
La dinamica della migrazione sta cambiando.

Oggi, per milioni di migranti, la scelta di partire è condizionata da vari gradi di imposizione e volontà propria dall’inizio alla fine. I viaggi sono lunghi e non hanno una direzione unica, e le condizioni di una persona variano, spesso tragicamente, nel corso del viaggio. Alcuni rimangono bloccati nei campi rifugiati per anni. Altri restano impigliati nelle fasi di transito, facendo lavori umilianti, intrappolati in circoli viziosi di vulnerabilità, abuso e insicurezza nella spirale della migrazione.

Ci sono poche telecamere televisive sulle spiagge della Libia, perciò sappiamo poco della vita e della morte di Raisa Abdul Razim. Pare che i suoi genitori abbiano vissuto e lavorato in Libia per anni e che Raisa e sua sorella, di cinque anni, sono nate lì. Si dice che la sua famiglia avesse deciso di rimanere nel caos sanguinario della Libia di oggi, e che, quando la situazione si era fatta insostenibile, avesse scelto di iniziare il viaggio pericoloso verso l’Europa, invece di tornare in Bangladesh. Il Bangladesh è uno dei paesi più poveri al mondo e si trova in una delle aree più a rischio del pianeta, regolarmente vittima di devastanti inondazioni e cicloni. Le stime parlano di un 43% della popolazione sotto la soglia di povertà, in un paese che è al 9° posto per numero di abitanti.

Foto: Angelo Aprile, #apiediscalzi Venezia, 14 settembre 2015
Foto: Angelo Aprile, #apiediscalzi Venezia, 14 settembre 2015

Non siamo riusciti a trovare un termine migliore per coloro che non possono essere definiti “rifugiati” ma che, nonostante ciò, si spostano in questa ricerca disperata di speranza e opportunità, sicurezza e dignità.

Noi tendiamo a dare per scontato che, nel caso in cui non fuggano da persecuzioni e guerre, queste persone partano di loro spontanea volontà e che possano facilmente tornare indietro. Ma è il concetto di “volontarietà” ad essere messo in discussione: come può essere volontaria la migrazione di una persone che è incapace di provvedere all’assistenza sanitaria di suo padre in un paese dove si può a malapena salvarsi la vita, o uno che non vede futuro per i suoi figli in un paese senza sistema educativo? Povertà e disuguaglianza, discriminazione, scarsità di cibo e acqua, mancanza di assistenza sanitaria, abitazioni o educazione; queste sono tutti, da soli o combinati fra loro, motivi per cui il viaggio non è davvero volontario. Come affermato dallo scrittore statunitense Teju Cole, “A volte l’arma che ti puntano alla tempia è in realtà un’opprimente povertà o un’ignobile lotta senza fine.”

La contrapposizione tra il “meritevole” rifugiato politico e “l’immeritevole” migrante economico non solo ignora la complessità di questa realtà, ma gioca anche a favore di coloro che vogliono umiliare e demonizzare gli stranieri per i propri scopi. La protezione dei diritti umani non è un gioco a somma zero; estendendo la protezione ai migranti meritevoli di riceverla secondo le norme dei diritti umani, non si sottrarrà ai rifugiati la protezione alla quale hanno diritto secondo la legge sui rifugiati.

La classe politica e il populismo dei media potrebbero anche definire i migranti “assassini” e “parassiti” o altri odiosi termini, ma questo non vuol dire che dobbiamo lasciare che siano loro a definire chi sono i migranti, cosa vogliono o cosa meritano. Tutti i migranti meritano la nostra compassione e la nostra comprensione di esseri umani. In qualità di possessori di diritti, a tutti loro spetta la stessa protezione secondo la legge dei diritti umani.

Foto: Angelo Aprile, #apiediscalzi Venezia, 14 settembre 2015
Foto: Angelo Aprile, #apiediscalzi Venezia, 14 settembre 2015

Alla fine, il successo delle nostre politiche migratorie dipenderà dalla comprensione delle motivazioni individuali e delle costrizioni dei migranti, e dal modo in cui essi verranno trattati come esseri umani piuttosto che come minacce o statistiche.

La stragrande maggioranza non cerca la carità. Nella sola Europa, si stima che nei prossimi 50 anni la forza lavoro diminuirà di circa 50 milioni di lavoratori. Nell’Unione Europea, una popolazione che invecchia e in declino vedrà la dipendenza degli anziani duplicare dal 27,5% nel 2013 al 51% nel 2080. Le necessità di cura aumenteranno, e ci saranno sempre meno giovani ad occuparsi di una crescente popolazione di anziani.

Secondo il Bertelsmann Institute, ad esempio, nell’arco dei prossimi 15 anni la metà dei lavoratori tedeschi sarà in pensione. Senza i lavoratori migranti provenienti da paesi extracomunitari, la forza lavoro della Germania passerà probabilmente dai 45 milioni di persone di oggi ai 29 milioni del 2050.

Tuttavia, nonostante il bisogno strutturale del lavoro migrante, i canali regolari per entrare in Europa sono generalmente insufficienti, in particolare per quei settori poco qualificati con maggiore necessità, come l’infermieristica o la cura della persona, costringendo molti migranti a percorrere percorsi irregolari. Allo stesso tempo, i documenti dimostrano che i migranti generalmente contribuiscono alle tasse e alla contribuzione sociale più di quanto non ne ricevano in beneficio. Le nostre politiche migratorie devono rispondere a queste realtà piuttosto che danneggiare miti e stereotipi.

E per quegli innumerevoli migranti che si spostano per disperazione – la giovane donna in cerca di libertà economica sopravvissuta a violenze sessuali durante il viaggio attraverso il deserto inospitale, l’adolescente mandato all’estero su un’imbarcazione di fortuna perché è l’unico capace di mantenere una famiglia impoverita, Raisa Abdul Azim e la sua famiglia in cerca di un futuro dignitoso –- per questi migranti dovremmo trovare un nuovo termine o finalmente un nuovo sistema di protezione. Ma per il momento dobbiamo trovare la determinazione di conformare le nostre azioni alle parole della Dichiarazione per i diritti dell’Uomo: “Tutti gli esseri umani sono nati liberi e uguali in dignità e diritti.”

Pia Oberoi è consulente sulle migrazioni e i diritti umani all’ufficio dell’Alto Commissariato per i Diritti Umani delle Nazioni Unite. Questo articolo è stato scritto da lei personalmente, i punti di vista qui espressi non riflettono necessariamente quelli delle Nazioni Unite.
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