Per la libertà di movimento, per i diritti di cittadinanza

Dal campo di Idomeni al Brennero

Il Csa Arcadia e il Collettivo Starfish di ritorno da Idomeni

Foto: Bianca Martini

“Qui bisogna schierarsi, appassionarsi. Essere per, essere contro.” (Jean- Claude Izzo)

Idomeni è il fumo dei fuochi accesi per scaldarsi, una distesa disordinata di tende e i bambini che ti corrono incontro. È impossibile sfuggire a quest’immagine perché è esattamente quello che vedi appena metti piede nel campo.

Foto: Valeria Tinti
Foto: Valeria Tinti

Quella che però è rimasta più impressa nei nostri occhi è un’altra: eravamo arrivati da mezzora e una donna aveva appena partorito in una delle prime tende in cui ci siamo imbattuti. Il padre portava in trionfo il figlio neonato, circondato da altri uomini esultanti, ce l’ha messo davanti dicendoci ‘Macedonia’ e ha continuato la strada verso la polizia e il confine chiuso dalle reti e dal filo spinato.

Una donna aveva appena partorito in una tenda e gli operatori di Medici Senza Frontiere, che cercavano di portarla in ambulanza, erano bloccati da una folta schiera di giornalisti che non gli lasciava possibilità di movimento, tutto per una foto della madre. Perché potessero raggiungere il mezzo di soccorso abbiamo dovuto imporci con i nostri corpi tra gli insulti dei giornalisti e giustificazioni inaccettabili come ‘ho il permesso del marito’, quando era chiaro che né la madre né le donne con lei erano d’accordo.
Le migranti nel campo si spostano spesso in gruppo, assieme ai figli, anche se la maggior parte di loro resta nelle tende: ‘Dobbiamo cucinare e stare con i bambini’ ci dicono.

Quelle sole o con i figli non lasciano mai la tenda nemmeno per andare dal medico, per non lasciare i piccoli o per paura di perdere il proprio posto. I volontari internazionali dell’Info Point ci spiegano che spesso si avvicinano ad altre famiglie dove è presente un uomo e si creano piccole comunità che si sostengono a vicenda. Non è strano, infatti, vedere agglomerati di tende girate le une verso le altre o collegate da altri tendoni, dove sedute attorno al fuoco ci sono più donne che uomini.

Foto: Giulia Piselli
Foto: Giulia Piselli

La vita all’interno del campo è scandita da interminabili file, per il cibo, per avere assistenza medica, per usare i servizi che non sono divisi tra maschi e femmine tranne che per le docce che sono comunque le une accanto alle altre, motivo che spinge spesso le donne a non farne uso per niente. Anche percepire gli aiuti portati dai volontari per le migranti presenta una difficoltà maggiore: considerano, infatti, un vestito in base a quanto questo è coprente, per questo molti vengono scartati e scegliere e trovare un capo adeguato è complicato.

Gli attivisti presenti hanno una vaga idea di quella che è la situazione delle donne e la prendono più che altro come un dato di fatto, raccogliere informazioni è stato pertanto più complicato del previsto, stimato che molte di loro non parlano inglese o restano chiuse nelle tende, il confronto diretto è stato limitato, anche a causa del poco tempo a disposizione.

Eppure i loro volti sono sempre sorridenti e disponibili al dialogo, seppure con le difficoltà linguistiche del caso, e la speranza è ancora viva negli occhi di molte e molti di loro. Ci è stato detto che abbiamo contribuito ad alimentarla. Dal primo giorno è stato chiaro che i migranti erano convinti li avremo portati al di là del confine, in Macedonia, e oltre. ‘Italian?’ ‘Yes!’ ‘To Macedonia tomorrow? Together!’

15.000 persone, tra siriani, afghani, iracheni, pakistani. In molti di loro la speranza c’è ancora, che l’abbiamo portata noi oppure no, in altri è sparita completamente, e c’è chi si è rassegnato a morire lì, perché anche spostandosi finirebbe solo in un altro campo e di certo indietro sotto le bombe non ci vuole tornare.

Foto: Luca Tornatore
Foto: Luca Tornatore

È facile farsi commuovere dai bambini, dai loro disegni della guerra, delle case che non hanno più, quanto è facile sorridere quando sul cielo sopra il campo spunta un arcobaleno. Idomeni non è l’unico campo. Ce ne sono tanti altri, e non è l’unico muro. E 15.000 persone sono tante ma sono solo una parte di tutte quelle che cercano un posto sicuro dove stare, un posto migliore dove vivere.

Noi che siamo qui abbiamo la responsabilità di agire, di andare oltre le emozioni che abbiamo provato, dobbiamo continuare a ribadire che questa situazione insostenibile non è accettabile e che un’altra Europa è possibile e sta ad ognuno di noi costruirla.

Ignorare il flusso migratorio e la situazione dei campi, considerarli un dato di fatto o peggio inneggiare ad odio e intolleranza, continuando con una politica di chiusura dei confini non farà che acuire il problema creando stati di sempre maggiore disumanità. Il flusso non si arresterà fintanto che ci saranno guerre e povertà e le persone in fuga continueranno a spostarsi cercando nuove rotte o nuovi modi di superare le barriere che gli si frapporranno davanti. Far sì che il loro viaggio sia sicuro sta a noi, essere umani ancora una volta è nostro dovere.

Per questo motivo la campagna #overthefortress non si ferma con la carovana ad Idomeni e l’iniziativa del 3 Aprile al Brennero al confine tra Italia e Austria è solo il secondo passo. Ieri 1.500 persone hanno attraversato quel confine rifiutando qualsiasi dispositivo di controllo e determinati hanno continuato anche di fronte allo sbarramento delle forze dell’ordine austriache che, incuranti delle mani alzate dei manifestanti, hanno usato spray urticante e manganelli ferendo alcuni attivisti.
Non permetteremo la creazione di alcuna barriera qui e in nessun altro luogo. Continueremo a reclamare un’Europa senza confini che permetta ad ognuno libertà di movimento, e la libera ricerca di una vita migliore.

Csa Arcadia e Collettivo Starfish, Schio (VI)