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Dall’Italia alla Spagna. Cibo di plastica e marocchine ribelli

di Antonello Mangano, terrelibere.org

Mére célibataire è un’elegante espressione usata in Marocco per indicare le donne che hanno avuto figli fuori dal matrimonio. Per loro, l’emigrazione è una scelta quasi obbligata. Alcune vanno dalla zona dell’Atlante fino ad Agadir. Altre cambiano continente e arrivano in Spagna.

Lo racconta il libro “Oro Rosso” di Stefania Prandi, una ricostruzione di quanto accade nei distretti delle serre in Italia, Spagna, Marocco.
Le donne con situazioni familiari difficili o prole a carico sono il motore della produzione agricola di quelle zone, da Huelva a Vittoria. Sono il carburante perfetto per l’agricoltura industriale.

Né avanti né indietro

Queste donne non sono vulnerabili sul piano dei documenti, ma su quello della loro stessa vita. Le lavoratrici dell’Est, infatti, sono comunitarie; le marocchine arrivano in Spagna in piena legalità con il contracto en origen, uno strumento che somiglia ai nostri “flussi stagionali”.

Nonostante abbiano i documenti, sono comunque legate da catene invisibili. Non possono tornare indietro (spesso hanno sofferto di un forte stigma sociale nei loro paesi) e non hanno grandi prospettive di andare avanti (sono condizionate dalle scelte per i figli). Tipicamente, la loro prospettiva è lavorare – anche in condizioni da incubo – per dare un futuro migliore alla generazione successiva.

Campagne di Vittoria, provincia di Ragusa
Campagne di Vittoria, provincia di Ragusa

Questo condiziona pesantemente le scelte: a Vittoria molte rumene potrebbero fare le badanti, ma in questo modo dovrebbero separarsi dalla prole. In campagna rischiano di convivere con padroni che vogliono abusarle, ma possono stare accanto ai figli.
Il ricatto diventa così uno strumento per comprimere il costo del lavoro e la base di quella che chiamiamo nuova schiavitù, fatta non di fruste e catene, ma di mancanza di alternative.

In Spagna, marocchine e rumene, donne che immaginiamo agli antipodi, hanno tante cose in comune: non solo la precarietà della situazione familiare, ma anche il semi – analfabetismo, la provenienza da zone rurali poverissime (le montagne dell’Atlante o la provincia di Botosani), oltre all’impossibilità di imparare la lingua del paese ospitante a causa della segregazione nelle serre.
Ma se i lavoratori sono l’ultimo anello della catena, chi comanda il gioco?

Distretti in competizione

Un’arancia calabrese deve costare meno di una brasiliana. Un pomodoro marocchino deve essere venduto a Parigi, uno siciliano a Berlino. I contadini sono in guerra: devono produrre in qualunque stagione, la maggiore quantità possibile. E al minor prezzo possibile.

Tutti accusano gli altri di giocare sporco. Gli europei? Sono sovvenzionati. I marocchini e i brasiliani usano pesticidi vietati. Gli italiani sfruttano i migranti. Nessuno, però, mette in discussione il gioco stesso.

Una cosa semplice come produrre il cibo e mangiarlo diventa un complesso gioco globale. Arance da succo, pomodori da bancone, zucchine fuori stagione sono ormai commodities, beni sostituibili che il consumatore sceglie in base al minor prezzo. Uno vale l’altro. Hanno lo stesso colore, sapore, odore e forma. Persino la composizione zuccherina è regolata dai disciplinari dei supermercati.
Un gregge tra le campagne di Ragusa

Un gregge tra le campagne del ragusano

Se l’agricoltura è una guerra, il campo di battaglia è appunto il basso costo di fragole, pomodori, arance. Gli strumenti sono due: il primo è la produttività, perché con la chimica non esistono né stagioni né terreni a riposo. Il secondo è lo sfruttamento della forza lavoro. Nel Sud Europa, migranti dell’Est, arabi e subsahariani vivono in condizioni disumane. Sono il mezzo per conquistare consumatori inglesi, tedeschi, francesi. Anche loro impoveriti, anche loro alla ricerca di prodotti a poco prezzo nei discount.

In mezzo ci sono i contadini. Hanno età avanzata, volti scavati, pelle cotta dal sole. Parlano siciliano, spagnolo e dialetto marocchino. Ma dicono le stesse cose. Cosa possiamo fare di diverso? Anche noi siamo sfruttati. Lo stesso concetto è espresso a Huelva o Ragusa.

Dal minuto 16 in poi un produttore di Huelva si lamenta dei costi, dei prezzi e ammette che molti usano manodopera irregolare. È quello che si sente dire in tutto il Sud Europa.

Fataliste?

A un certo punto, però, il gioco si è inceppato. Proprio a partire dalle donne arabe, per molti sinonimo di sottomissione. Nei mesi scorsi ha avuto ampia circolazione un’inchiesta di Stefania Prandi e Pascale Mueller. È stata pubblicata su vari media tra cui BuzzFeed e Correctiv, in inglese, tedesco e spagnolo. Le giornaliste hanno denunciato che decine di donne subiscono sfruttamento sessuale, fino a veri e propri stupri da parte dei padroni, nei campi di fragole e pomodori in Spagna, Italia e Marocco. Sono i paesi che vendono ortofrutta in tutta Europa, in particolare Francia, Germania e Regno Unito.

Il movimento femminista spagnolo ha compreso la gravità della situazione: il tema di donne sfruttate e abusate per la loro vulnerabilità riguarda tutte. Il primo giugno 2018 una serie di presidi e manifestazioni hanno avuto come sfondo Madrid, Cordoba e Huelva.

In seguito all’inchiesta, raccontano le giornaliste, “politici e pubblici ministeri hanno chiesto che venissero aperte delle indagini per fare chiarezza sulla situazione delle braccianti. Grazie all’inchiesta e all’eco che ha avuto, diverse braccianti della zona di Huelva, straniere e spagnole, hanno sporto denuncia e 400 braccianti marocchine sono scese in piazza spontaneamente a manifestare appoggiate dal SAT, Sindicato andaluz de trabajadores. In diverse città spagnole, ci sono state manifestazioni di solidarietà con le ‘temporeras‘”.

Serre nella provincia di Ragusa
Serre nella provincia di Ragusa

Nove lavoratrici hanno presentato denuncia sugli abusi sessuali presso la Guardia Civil. Secondo il SAT, le donne marocchine sono state minacciate di rimpatrio anticipato rispetto al contratto che avevano stipulato. Melting Pot riporta che a centinaia sono state invitate a salire sugli autobus diretti in Africa. In pratica una ritorsione, ma anche un modo per impedire che fossero sentite come testimoni. Un rappresentante del SAT ha presentato denuncia presso il Tribunale di Huelva, accusando i padroni di sequestro delle donne.

Ma il territorio, nel complesso, si è chiuso a riccio. Non solo gli imprenditori e qualche funzionario statale, come prevedibile, ma persino alcune associazioni pro migranti e un sindacato hanno avuto una reazione negativa. Alcune aziende locali, insieme all’UGT, hanno minacciato di denunciare le autrici dell’inchiesta, specificando che sul fenomeno “non ci sono denunce”. La stessa cosa che si sente ripetere a Vittoria.

Autobus dalla Sicilia alla Romania
Autobus dalla Sicilia alla Romania

L’accusa, infatti, è sempre la stessa, dall’Andalusia alla Sicilia. Mancano le prove e si danneggia l’economia del territorio. “Quest’anno ci hanno portato nei campi le puttane marocchine. Basta che le tocchi e ti denunciano”, avrebbe detto confidenzialmente un imprenditore della zona ai giornalisti del giornale “El Español”, che ha ritenuto comunque di riportare la frase.

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Huelva si trova a pochi passi da Palos, il paese da cui salpò Cristoforo Colombo. Ma sembra di essere a Vittoria, vicino alla celebre casa sul mare di Montalbano. Anche qui una enorme distesa di serre usa il lavoro dei migranti: prima i tunisini, poi i lavoratori dell’Est. Nel 2014, un’inchiesta dell’Espresso denunciava che allo sfruttamento lavorativo si accompagnava quello sessuale ai danni delle rumene.

Tra le reazioni all’articolo, c’era anche quella di un imprenditore locale: “Invito Mangano, per dovere di cronaca, laddove desideri farlo, a visitare la mia di azienda, così che possa rendersi conto dell’errore madornale in cui è incorso”, riportava “La Sicilia” del 4 ottobre 2014.

Quattro anni più tardi, lo stesso imprenditore dovrà dimettersi da consigliere comunale del Pd perché accusato di aver massacrato di botte un suo dipendente rumeno. Il motivo? Lo aveva accusato del furto di una bombola del gas. Le accuse ai danni dell’imprenditore-consigliere, ovviamente, sono tutte da verificare.

Filiera

Nel 2012, sempre a Vittoria, l’imprenditore Maurizio Ciaculli ha scoperto una confezione di melanzane, probabilmente spagnole, sul bancone di un supermercato. Erano impacchettate col suo marchio, ma non erano prodotte dalla sua azienda. Meravigliato, ha denunciato la frode. Soltanto nel febbraio 2017 si è tenuta la prima udienza. Il procedimento è ancora lungo e lontano dalla conclusione. Ma le minacce sono arrivate subito. Un’auto bruciata, biglietti intimidatori e un gatto morto davanti casa. Proprio in questi giorni
Ciaculli ha ottenuto un risarcimento da parte dello Stato, lo stesso concesso alle vittime del racket.

Una industria nelle campagne del Sud della Sicilia
Una industria nelle campagne del Sud della Sicilia

Il supermercato siciliano aveva il marchio Lidl. È lo stesso che – secondo l’inchiesta di Prandi e Mueller – venderebbe in Germania le fragole di Huelva.
Buzzfeed avrebbe ricostruito un percorso “verosimile” delle fragole: dalle aziende spagnole dove le donne dicono di essere state abusate agli scaffali dei supermarket tedeschi a marchio Lidl. La catena, attraverso un portavoce, ha risposto dicendo che tutti i loro fornitori hanno la certificazione Global GAP, firmano un codice di condotta e sono sottoposti a ispezioni regolari.
Lidl, inoltre, “si fa carico della responsabilità sociale e ambientale in tutta la filiera”. Inoltre prende le distanze da ogni violazione dei diritti umani e del lavoro. Quando avrà informazioni adeguate, è pronta ad agire.

Si tratta della consueta risposta che tutte le aziende forniscono in questi casi. Al momento, ancora nulla di specifico sulla prevenzione degli abusi sessuali e dello sfruttamento.

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Il tema della filiera è quello più importante, ma allo stesso tempo quasi inesplorato. Ciò che accade a valle (Huelva, Vittoria, Agadir) dipende dalle politiche commerciali della grande distribuzione. O, meglio, è questa con la sua spinta al basso costo rende immutabile il contesto. Un contesto che mescola elementi della post-modernità (semi selezionati con la genetica, soluzioni chimiche che nutrono le piante, piante coltivate fuori suolo) a tratti arcaici (stupri, segregazione, analfabetismo e violenza).

Ma tra questi elementi non c’è nessuna contraddizione: sono funzionali all’obiettivo di una produzione costante, intensiva, low cost. Un’industria del cibo di plastica senza riguardi per i diritti delle persone.