Per la libertà di movimento, per i diritti di cittadinanza

da Il Manifesto del 28 agosto 2004

Dall’hotel Africa al marciapiede di Tiziana Barrucci

Roma – «Non hai la carta rossa? Ci dispiace, ma non possiamo fare nulla per te. Tu non puoi entrare». Non trasmette esattamente quello che si chiama un messaggio di accoglienza il cartello appeso allo spesso cancello di metallo del centro di accoglienza di via Tiburtina, angolo via Cupa, a Roma. A rendere il luogo ancora più austero e la tensione molto alta contribuiscono le due guardie piantonate all’entrata: uniforme nera con su una scritta «Soc. di Sicurezza prevenzione, Spqr» – sigla, quest’ultima, che rappresenta il logo del comune della capitale. Stanno attente che nessuno si avvicini all’entrata e che soprattutto gli eritrei e gli etiopi che da giorni dormono sul marciapiede di fronte non provino a entrare. Il centro di via Cupa è uno di quelli messi a disposizione dal Campidoglio per gli uomini e le donne costrette ad abbandonare il 18 agosto scorso il grande capannone accanto alla stazione Tiburtina, noto a tanti come hotel Africa e chiamato da chi vi viveva Kerba. Un luogo che accoglieva centinaia di richiedenti asilo in attesa di essere ascoltati dalla commissione, ma anche molte persone che non avevano un posto per dormire. Dopo lo sgombero, quel posto è stato chiuso e i vecchi abitanti sono stati dispersi in strutture sparse per la capitale o fuori. Tranne la comunità sudanese, che non fidandosi delle promesse, non ha accettato di spostarsi e oggi occupa un piccolo magazzino accanto al grande capannone in attesa di un luogo più consono.

Da prima del 18 il comune ha sempre chiamato l’operazione «trasferimento», contrapponendo così un’accezione positiva alla parola usata di «sgombero». Una sfumatura che doveva racchiudere in sé molte cose. In primis le parole del sindaco Walter Veltroni che voleva una «valorizzazione delle forme di autogestione sperimentate a Tiburtina». E di conseguenza «cooperazione» con le associazioni impegnate a fianco degli immigrati e con le stesse comunità. Ma se all’inizio la collaborazione c’è stata, ora si può dire che lo spostamento di più di 400 persone da quel capannone non è andato secondo le promesse. «Ci vuole del tempo – spiega Luca Odevain, vice capo gabinetto del sindaco, che rassicura sulle intenzioni sincere della giunta pur dovendo ammettere che «si può anche sbagliare, l’importante è ascoltare e modificare gli errori». In ogni caso da ieri è in funzione un ufficio di segretariato sociale che risolverà le questioni più difficili.

Eppure fino ad ora la situazione resta quasi sospesa. Se da un lato il Campidoglio cerca di mantenere gli impegni presi in termini di numeri – «nessun abitante di Tiburtina resterà senza un posto dove stare», ha sempre assicurato il gabinetto del sindaco – la fretta con la quale, dopo mesi di trattative, l’intera operazione è stata messa in moto sta creando molta, forse troppa, confusione. E i primi a pagarne le conseguenze sono proprio gli abitanti dell’ex hotel Africa. Anche se c’è chi è andata benino: quelli che il 18 agosto per sorte o per scelta sono stati portati fuori Roma o in strutture piccole nella capitale non si lamentano, ma i due centri più grandi – di via Marliano e via Cupa, che ospitano oggi circa 250 persone – hanno molti problemi. Senza contare i disagi di chi pur abitando a via Tiburtina la mattina dello sgombero non era nella sua stanza e chi per i motivi più vari non è rientrato nelle liste del doppio censimento. Ora fatica a trovare gli effetti personali lasciati nel capannone e non sa più dove dormire. E poi c’è la gestione dei nuovi luoghi: a tutti gli eritrei ed etiopi che il 18 avevano accettato di lasciare la loro casa era stato assicurata piena libertà di movimento, la possibilità di cucinare e di gestire i nuovi spazi. Ma non è andata così. A via Cupa, per esempio, gli orari di permanenza per gli ospiti riproducono la rigidità dei tradizionali centri d’accoglienza: ogni giorno alle nove di mattina tutti devono lasciare l’edificio dove non possono tornare che alle 13 e comunque non più tardi di mezzanotte. L’unico pasto viene distribuito di sera da una ditta di catering. E la tanto sperata autogestione è un miraggio lontano.

C’è chi poi non sa dove andare. Ogni notte tra le venti e le trenta persone affollano il marciapiede di via Cupa: tutti giurano di aver vissuto per mesi a Tiburtina e di non avere più una casa. Come Zamir, eritreo di 20 anni da 1 in Italia: «sono stato a Tiburtina nove mesi, ma sono stato sfortunato, le due notti in cui hanno stilato le liste degli abitanti io non ero presente. Eppure speravo che l’Italia non fosse come l’Africa…». «Che vivesse o no a Tiburtina, anche chi arriva oggi ha diritto a essere accolto – commenta Rolando Galluzzi, vice presidente del terzo municipio, quello che ospita i due centri – riteniamo che tutti abbiano diritto ad una sistemazione dignitosa».

Dal canto suo il comitato Tiburtina, che ha partecipato alla trattativa per lo sgombero, pur consapevole della necessità di mantenere un approccio di dialogo con l’istituzione mette in risalto i buchi neri della vicenda. «Senza dubbio il percorso virtuoso annunciato non si è realizzato. Ma noi aspettiamo», sintetizza Paolo Di Vetta.