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Darsi del noi dentro la frontiera. Intervista ad Alessandro Leogrande

Francesco Ferri, Siderlandia

Oggetto di controllo e di governo da parte dei dispositivi politici, giuridici, militari, discorsivi e umanitari; campo di resistenza dei migranti che, a vario titolo, la attraversano: la frontiera, terribile e affascinante, è un elemento chiave per la comprensione delle contraddizioni e delle possibilità del mondo contemporaneo.

L’utilità politica dell’ultima opera di Alessandro Leogrande, intitolata La frontiera, è riscontrabile a più livelli, tra di loro intrecciati. Il libro è una cassetta degli attrezzi per chiunque voglia comprendere la posta in gioco rappresentata delle parole esodo e migrante, ed è alla ricerca di strumenti che consentano di problematizzare i linguaggi utilizzati, le relazioni che sorgono tra chi fugge e le società che accolgono, contro le varie forme più o meno consapevoli di macro e micro potere che, a vario, esercitiamo.

La frontiera è anche un interessante esperimento di decolonizzazione dei saperi e delle prassi dominanti all’interno delle narrazioni migranti, e un antidoto contro la riproposizione, anche nelle retoriche umanitarie e interculturali, degli schemi narrativi che ripropongono luoghi comuni, gabbie etniche discorsive, spoliticizzazione dei contesti di provenienza. La frontiera è un’occasione per immergersi in biografie intense e appassionanti, epiche migrazioni individuali e collettive, per afferrare e provare a comprendere le passioni, i desideri e i bisogni di chi, in fuga da un altrove solo all’apparenza totalizzante e indistinto, abita le nostre città e attraversa le nostre vite.

Abbiamo dialogato con Alessandro Leogrande, a partire dal suo ultimo libro, dedicato al tema della frontiera, riflettendo sulla portata storica e sulla posta in gioco all’interno di quel complesso e affascinante universo simbolico e materiale che c’è dentro ogni migrazione.

La frontiera è al centro delle cronache, senza soluzione di continuità. Ciò nonostante, una serie di elementi misteriosi accompagno l’immaginario legato al superamento di un confine. Come nasce la necessità di raccontare ciò che si muove prima, durante e dopo l’attraversamento di una frontiera?

Nasce da vari motivi: sono compresenti motivazioni biografiche, politiche, di militanza. Il punto di partenza è situato nell’idea che la frontiera, e il suo attraversamento, siano, anche dal punto di vista linguistico, un elemento centrale del nostro dibattito pubblico, e uno dei temi principali della nostra contemporaneità, costituito dall’esodo di centinaia di migliaia di persone. Esodo è una parola contraddittoria: ha la sua efficacia linguistica, ma va decostruita. La frontiera è costruita per decostruire l’idea onnicomprensiva di esodo, e recuperare tutti gli esodi individuali. Della parola esodo è necessario cogliere l’ampia portata, a partire dal significato biblico, come afferma Michael Walzer nel libro “Esodo e rivoluzione”.

Nella vicenda delle migrazioni c’è una componente materiale, di guerra, di confini, di sbarramenti, di mare, di morti. È compresente una dimensione fortemente soggettiva, costituita da aspettative, sogni e desideri: tutto questo ha a che fare con l’esodo, nel senso più profondo del termine. La frontiera corre nel mezzo di questi discorsi. Solitamente percepiamo come frontiera innanzitutto il Mediterraneo, con le sue faglie che si aprono davanti. I profughi e coloro che sono in esodo sono il termometro di queste faglie. Se proviamo a definire in concreto questa frontiera, incrociamo definizioni che sfuggono. È fisicamente difficile segnare questa frontiera, che attraversa il mare. Coincide con la costa settentrionale? Con quella meridionale? Nel mezzo?

Se indaghiamo, come faccio nel libro, le biografie e la vita individuale di tanti viaggiatori, ci rendiamo conto che la frontiera si dilata sia nello spazio che nel tempo. Chi è in fuga dalla Siria o dall’Eritrea, per esempio, non attraversa solo il Mediterraneo e non effettua spostamenti solo lineari. L’inafferrabilità che accompagna questa idea di frontiera va affrontata con una strategia narrativa ampia, raccontando i luoghi di frontiera, chi l’attraversa, chi aiuta, chi truffa, chi lucra, chi respinge: tutto il panorama umano di quello che è un fatto determinante del nostro tempo.

Quali obiettivi ti sei posto prima della scrittura di questo libro? Come si inserisce nel dibattito in tema di narrazione delle migrazioni?

Mi sono posto una serie di questioni: qual è il libro più giusto da fare, ora? Come costruirlo? Ci sono una serie di problematiche, che hanno a che fare con l’etica, la politica e la scrittura. Avevo la sensazione che mancasse un libro totale sulla questione, che non riguardasse soltanto aspetti specifici e parziali, ma che fosse capace di attraversare più storie, ricostruendo un’immagine complessiva del fenomeno migratorio. Allo stesso tempo, c’è il tema della qualità delle narrazioni e degli interventi giornalistici, anche nel campo della controinformazione. È importante elaborare un giusto approccio davanti alle biografie soggettive, ma anche nei confronti della rielaborazione, in forma scritta, di queste storie.

Bisogna porsi il tema dell’inefficacia di molte narrazioni, che finiscono per assuefare, non contrastando la narrazione dominante ma finendo, implicitamente, per condividere gli stessi parametri del discorso dominante, pur rovesciandolo. C’è un problema metodologico, e di scrittura. Le soggettività vengono riarticolate, rimodellate, di continuo, dagli stessi soggetti che vorremmo raccontare; alla luce di ciò non è sufficiente la semplice registrazione passiva delle storie. Scrivendo La frontiera, mi sono reso conto dell’inefficacia di certe narrazioni piatte e omologanti. Alla luce di ciò, è necessario porsi alcune domande, artistiche e politiche: come riarticolare le biografie? Dove ci si posiziona? È un processo fondamentale, e un potenziale antidoto contro il costante riproporsi di luoghi comuni, anche in una certa retorica militante, sotto gli occhi di tutti.

Biografie intense e appassionanti, e contestualizzazioni storiche e politiche si rincorrono e si intrecciano in tutto il libro, delineando un metodo di narrazione politicamente determinato, che tiene insieme la necessità di raccontare storie e personaggi insieme al contesto nel quale sono immersi. Quali sono gli strumenti e i dispositivi dei quali ti sei dotato per raggiungere questi obiettivi narrativi?

Il grande romanzo, fin dall’Ottocento, si fonda sul tentativo di inanellare tra loro la Storia con le storie. Non si tratta semplicemente dell’utilizzo della Storia come scenografia di sfondo a partire dalla quale far emergere storie individuali: sarebbe puerile e meccanico. È più utile riflettere sul come la Storia devasti le storie, e sul come le storie rappresentino uno spaccato, soggettivo e individuale, della Storia. In questa maniera, la letteratura riesce ad afferrare alcuni elementi che la saggistica, da sola, non riesce a restituire. Tutto questo si inserisce nel dibattito contemporaneo intorno alla non-fiction. Come riattivare un meccanismo letterario, in una realtà così frammentata e stratificata, che tenga insieme la Storia e le storie? Ci sono dei modelli letterari di riferimento, nella terra di mezzo della letteratura di non-fiction. Penso, ad esempio, al giornalismo di Kapuscinski e della Aleksievič, caratterizzato da una dimensione metagiornalistica e narrativa. O a scrittori come Javier Cercas e Emmanuel Carrère che, riflettendo sulla fine del romanzo, sperimentano forme ibride di produzione letteraria. Discorsi di questo tipo non sono nuovi nella letteratura italiana: penso a Carlo Levi, Primo Levi, Sciascia, Ortese, Stajano, Calvino e, per certi versi, Pasolini. In un certo senso, la nostra è una letteratura che raggiunge il meglio nella non-fiction.

Nell’immaginario dominante, i cosiddetti barconi rappresentano un insieme omogeneo di persone, rispetto alle quali non percepiamo la singolarità, che sembra si materializzino, improvvisamente, nei nostri porti. Come smontare politicamente questo immaginario? È necessario recuperare l’individualità, facendo emergere, da quell’insieme indistinto, i singoli volti, i nomi e le storie, intrecciandole tra loro. Ma allo stesso tempo è ugualmente necessario recuperare il contesto, a partire dai racconti dei viaggi. Essi non sono solo un fatto epico. Ripeto, sono a loro volta una traccia dei contesti in putrefazione da cui la gente si muove.

Durante la lettura del libro, accanto al continuo movimento praticano dai migranti, si percepisce un costante movimento del tuo punto di vista, alla ricerca di un giusto posizionamento e di una giusta prospettiva. Quali strumenti hai utilizzato, alla ricerca della posizione più idonea per narrare queste esperienze migratorie drammatiche e appassionati?

Come hai notato tu stesso, c’è un evidente portato soggettivo nelle storie che racconto. E’ compresente, allo stesso tempo, una soggettività nello sguardo che raccoglie queste storie: è un dato ineliminabile. La prospettiva con la quale racconto le storie è ben rappresentata dal quadro di Caravaggio, Il martirio di San Matteo, che cito alla fine del libro. Caravaggio è situato nel quadro, è impotente, a pochi metri dalla scena che vi si svolge. Non potendo arrestare il verificarsi del male, lo rielabora artisticamente, ma allo stesso tempo è consapevole che questa non è un antidoto “politico” alla propria impotenza politica. Sa perfettamente che non basta, ma decide di dilatare, sulla tela, questo iato vertiginoso.

La frontiera non è una raccolta di interviste, e neanche un libro di storytelling. È un libro che, nell’articolazione tra contesto e individuo, racconta dell’incontro tra due soggetti, tra chi racconta la storia e chi la ascolta e la rielabora. Questo incontro è difficile, articolato, complesso, spesso brusco. È costituito anche da frasi non dette e da un livello non verbale di comunicazione, che va percepito e restituito nella sua fluidità.

Ho avuto fin da subito la percezione che fosse anche un libro autobiografico. Questo vien fuori, credo, soprattutto dalla necessità di comunicare al lettore il backstage dell’inchiesta letteraria. Il backstage è costituito dalla tua storia, dal tuo continuo interrogarti sulle domande che poni. C’è un’evitabile parzialità individuale, che penso sia corretto far emergere.

La frontiera è pensata anche come un’autobiografia di gruppo, costituita da donne e uomini che hanno attraversato, negli ultimi vent’anni, le tematiche al centro del libro, da una parte e dell’altra della frontiera. Molte delle domande che mi pongo, sul come raccogliere le biografie, sono elaborate all’interno di un noi inconsapevole, che ha attraversato queste questioni all’interno delle scuole di italiano, nella militanza politica, nel giornalismo. Questo noi prende il volto e le sembianze di tanti personaggi che attraversano il libro.

Molte pagine de La frontiera sono dedicate all’Eritrea. Molti personaggi che si incrociano durante la lettura del libro sono in fuga dal regime eritreo. In quali termini le vicende storiche e l’attuale configurazione politica dell’Eritrea, e le biografie dei migranti eritrei in fuga parlano alla politica italiana?

Le vicende legate all’Eritrea sono state per me una continua scoperta. Sono partito da un elemento di drammatica concretezza: la strage del 3 ottobre 2013. Mi sono posto la domanda, poco indagata dal giornalismo e dal dibattito pubblico italiano: perché, su 368 morti, 360 sono eritrei? Perché la questione Eritrea non è posta come tale? Perché migliaia di persone sono in fuga? Le questioni legate al contesto eritreo sono espulse nel dibattito pubblico, nonostante la percentuale di persone eritree che attraversano il Mediterraneo centrale sia elevatissima.

In tema di Eritrea si innescano una serie di rimozioni. Innanzi tutto, il corno d’Africa è un’ex colonia italiana. Non c’è un rapporto diretto tra il colonialismo italiano e ciò che avviene oggi, ma le vicende laceranti e devastanti legate alla decolonizzazione e al passato coloniale italiano sono sostanzialmente rimosse, in aggiunta all’assenza di analisi storiche e politiche sulla situazione attuale di questi luoghi.

A parte La frontiera ci sono pochissimi libri che raccontano l’Eritrea contemporanea. In Francia, ad esempio, non succederebbe mai nei confronti delle ex colonie. L’Eritrea contemporanea è una dittatura staliniana, edificata in pochissimi anni da un fronte di liberazione popolare che negli anni settanta aveva le sue retrovie in Italia, e che aveva rapporti con il Pci e con la sinistra rivoluzionaria. Una volta preso il potere, una ristretta elite stretta intorno al nuovo dittatore, Isaias Afewerki, ha fatto fuori i propri stessi compagni di lotta. Come agire all’interno di questa rimozione? Ritorna, anche qui, la necessità di far emergere delle storie. Ho scoperto alcune storie di esuli, nelle quali vari piani storici, costituiti dal passato italiano, dalla decolonizzazione fallita, e dalla situazione politica odierna si sovrappongono costantemente, provocando dei corto circuiti biografici.

Una figura come quella di Gabriel Tzeggai attraversa una parte importante del mio libro. Nato e cresciuto in una famiglia dell’elite intellettuale di Asmara, ha vissuto nella società coloniale dell’occupazione etiopica in Eritrea, e si è formato leggendo, da studente, gli stessi libri che si leggevano sull’altra sponda del Mediterraneo, sviluppando la propria adesione politica al fronte popolare. Dopo quattordici anni di guerriglia, e la liberazione del paese, Gabriel capisce che i suoi stessi compagni stanno edificando una dittatura sempre più totalitaria.

Tanti fantasmi del passato emergono in alcune delle storie che racconto. Per esempio, la testimonianza di un uomo, vittima di tortura nei gulag eritrei, mi ha consentito di scoprire che i campi di concentramento attuali sorgono esattamente negli stessi posti in cui sorgevano i campi di concentramento del colonialismo italiano. Quando Benjamin parla della necessità di spazzolare la storia contropelo, faceva riferimento – in fondo – alla necessità di mettere in moto qualcosa del genere. Bisogna far emergere quei corto circuiti storici in cui il potere, e la sua violenza sulle nude vite, emergono con estrema nitidezza. Alle spalle della situazione attuale eritrea, e di gran parte dei paesi di provenienza dei migranti, c’è il fallimento del sogno della decolonizzazione. Questo fallimento è in relazione con il neocolonialismo e, con riferimento all’Eritrea, anche con il neocolonialismo italiano, che fa accordi con il regime. È evidente anche il fallimento dei tentativi rivoluzionari, che ha riprodotto le forme dei passati oppressori: è un tema che mi lacera e affascina da sempre. Come può essere arrestato il ripetersi della storia? In che modo può evitarsi che gli oppressi di ieri, una volta andati al potere, mutuino le stesse forme di comando dei precedenti oppressori? È un tema che trascende i viaggi e l’esodo, ovviamente. In ogni caso, la rimozione del passato coloniale italiano in Eritrea, e dell’attuale configurazione politica eritrea è totale. La lotta contro questa rimozione, e nei confronti di tutte le rimozioni coloniali e dei fallimenti postcoloniali, è immediatamente politica: nella definizione dei contesti storici politici, presenti e passati, si gioca una battaglia politica decisiva dalla quale discendono le politiche europee, anche con riferimento alle percentuali dei migranti ai quali è concessa la protezione internazionale.

Una parte importante del libro è segnata dalle vicende di Shorsh, un uomo curdo iracheno a cui sei legato da un rapporto decennale, alla stesso tempo discontinuo e intenso. In che termini la relazione con lui, e con la sua storia, ha influenzato la tua percezione del fenomeno migratorio e la scrittura della tua opera?

Rispetto all’indice di massima, scritto due anni prima dell’uscita del libro, alcune idee centrali, lì presenti, sono rimaste tali. Penso, ad esempio, all’idea di lavorare sulla strage del 3 ottobre e all’interno della questione eritrea. Anche l’idea di parlare del porto di Patrasso, della trasformazione di quel flusso e del ruolo di Alba Dorata era già presente nell’indice di massima. La storia di Shorsh, invece, non era presente nel progetto iniziale. Era evidente che i viaggi odierni andassero problematizzati anche alla luce delle esperienze migratorie di dieci anni fa. Pensando a questa necessità, ho ripensato a Shorsh, all’importanza dell’incontro con lui, nonostante non ci sentissimo da anni. Ripensando alla sua storia, mi sono reso conto di quanto le sue vicende siano state importanti per me, molti anni prima. Ho pensato che fosse importante andare da lui, per chiarirsi, e allo stesso tempo per scoprire tanti aspetti nuovi della sua vita. Nella sua storia è evidente quanto siano complicate le biografie personali.

Ho conosciuto Shorsh molti anni fa, nell’ambito di altri esodi. Shorsh (curdo iracheno scappato dalla repressione di Saddam Hussein) fu per me una finestra su un mondo molto differente rispetto al mio, che mi ha consentito di scoprire una serie di violenze radicalmente altre rispetto al mio vissuto. Il nuovo incontro, avvenuto molti anni dopo, mi ha permesso di rendermi contro di molte cose che non mi era stato possibile cogliere durante il periodo nel quale ci siamo conosciuti. È un tema centrale: oltre i dati politici e dei contesti, l’incontro è costituito da due uomini, con le loro maschere e con la loro vita reale inafferrabile, con il rovesciamento delle posizioni reciproche, che finiscono per confondersi e scambiarsi i ruoli. L’inafferrabilità della vita e delle biografie è uno dei temi centrali del libro, e la storia di Shorsh è la vicenda di un nudo uomo, che si spoglia progressivamente delle sue maschere, e di un altro uomo, se vuoi, il narratore, che davanti a lui è costretto a rimettere in discussione molte cose che aveva dato per acquisite, anche nella sua stessa vita.

Una caratteristica accomuna i protagonisti del libro: non vengono mai descritti come meri oggetti delle politiche di respingimento e di inclusione differenziale. Sono, allo stesso tempo, soggetti attivi, che riarticolano la frontiera, sfuggendo ai dispositivi di cattura, resistendo e aprendo nuove rotte di transito. Qual è la necessità politica alla base della tua scelta di tenere costantemente insieme questi due aspetti costitutivi della soggettività migrante?

Tale soggettività irriducibile è alla base della strategia letteraria adottata. Nominare le persone, trascendendo dalle categorie, alla luce della propria esperienza, permette di cogliere le modalità con le quali i soggetti in esodo ridefiniscono il proprio vissuto, sfuggendo alle classificazioni standardizzate. In tema di categorie, è di estrema attualità la costruzione della differenza tra rifugiati e cosiddetti migranti economici, evidentemente fuorviante e inesatta. Questa distinzione è stata fatta propria anche in ambito umanitario, ed è ormai al centro delle politiche europee. Al di fuori di queste categorie arbitrarie, è invece evidente la complessità delle posizioni soggettive, e la continua ridefinizione, da parte delle donne e degli uomini, della propria vita.

Molti lettori mi dicono di stare male, fisicamente male, dopo aver letto La frontiera. La frontiera è un libro che fa star male innanzitutto chi l’ha scritto, ma al suo interno emerge, allo stesso tempo, un disperato bisogno di vita, che permette di aggirare muri, barriere e codificazioni, e reinventare se stessi durante il transito. Tutto ciò rappresenta un dato ineliminabile, dal chiaro significato politico. Questa umanità stratificata e complessa, costituita da elementi biografici dalla difficile comprensione, pone con urgenza anche il tema della formazione di chi si interfaccia con questi mondi, anche con riferimento al volontariato e al mondo delle professioni. Al di là di come è strutturata l’accoglienza, in assenza di un’adeguata formazione di secondo e di terzo livello adeguata, vengono riprodotti meccanismi di potere e comportamenti infantilizzanti. Oltre questi aspetti concreti, c’è il grande tema delle politiche europee ed italiane: una somma ipocrita di politiche contraddittorie, governata dalla retorica dell’arbitraria divisione tra cosiddetti migranti economici e rifugiati, e dagli accordi nell’ambito del cosiddetto processo di Khartoum, finalizzato a stringere accordi con i paesi di provenienza e di transito, al fine di contenere l’esodo anche tramite la sottoscrizione di accordi con governi dittatoriali.

Francesco Ferri

Sono nato a Taranto e vivo a Roma. Mi occupo di diritto d'asilo, politiche migratorie e strategie di resistenza sia come attivista sia professionalmente. Ho partecipato a movimenti solidali e a ricerche collettive in Italia e in altri paesi europei. Sono migration advisor per l’ONG ActionAid Italia.