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Decreto legge Minniti-Orlando: dov’è la giustizia?

Photo credit: Angelo Aprile

“Ha visto la forza di quei disperati, io voglio lavorare, voglio lavorare. Voglio andare in Francia, in Europa del nord a lavorare.
Ha visto la determinazione e la purezza. La bellezza degli occhi, il candore dei denti.
[…]
E non sai davvero chi salvi, magari un avanzo di galera. Uno che ti ruberà il cellulare, che guiderà contromano ubriaco, che stuprerà una ragazza, un’infermiera che torna a casa dal turno di notte”.

Queste poche righe sono tratte da Mare al mattino, un romanzo di Margaret Mazzantini, edito nel 2011 da Einaudi. Emerge, lampante, la dicotomia tra buoni e cattivi che divide da sempre la società in accaniti sostenitori dell’accoglienza a tutti i costi e in costruttori di muri, fisici ed ideologici.

Tuttavia anche qui, come sempre nelle vicende degli uomini, vi è una via di mezzo: la giustizia. In uno Stato di diritto quale il nostro Paese, però, questa entità sembra sempre più lontana ed evanescente, soprattutto in tema di immigrazione.

Il Decreto-Legge 17 febbraio 2017, n. 13 – Disposizioni urgenti per l’accelerazione dei procedimenti in materia di protezione internazionale, nonché per il contrasto dell’immigrazione illegale, entrato in vigore il 18 Febbraio scorso, sembra infatti promettere il contrario di quello che poi nel concreto realizza.

A cominciare dal suo iter di formazione, il decreto denota una grande carenza di attenzione nei riguardi della situazione che mira a tutelare: ad un’analisi neanche troppo attenta, salta immediatamente all’occhio la superficialità di affidare ad una decretazione d’urgenza la regolamentazione di un diritto tanto importante quanto la richiesta di protezione internazionale.

Ma se questo non fosse sufficiente, ecco che viene in soccorso un ulteriore problema, stavolta logistico.
L’audizione in Commissione territoriale è adesso videoregistrata con mezzi audiovisivi e trascritta successivamente in lingua italiana con l’ausilio di sistemi automatici di riconoscimento vocale. Al richiedente è data lettura della trascrizione in una lingua a lui comprensibile o comunque tramite interprete, il quale è chiamato a verificarne la correttezza, apportando le modifiche necessarie.
A primo acchito una siffatta procedura garantisce un controllo maggiore, certo, se non si considera che nella maggior parte dei casi gli interpreti non sono qualificati a sufficienza per svolgere questo delicatissimo compito.

La prima grande falla nel sistema giunge poi puntuale, in tema di notificazioni delle decisioni della Commissione territoriale: si evince dal testo del decreto che quando il richiedente è accolto o trattenuto nei centri o nelle strutture di cui all’articolo 5, comma 2, del decreto legislativo 18 agosto 2015, n. 142 (centri di accoglienza e strutture, ndr) gli atti e i provvedimenti del procedimento per il riconoscimento della protezione internazionale sono notificati, in forma di documento informatico sottoscritto con firma digitale o di copia informatica per immagine del documento cartaceo, mediante posta elettronica certificata all’indirizzo del responsabile del centro o della struttura, il quale ne cura la consegna al destinatario, facendone sottoscrivere ricevuta.

La notificazione tramite posta elettronica certificata, soddisfa esigenze di celerità, ma intensifica notevolmente le procedure e rende molto più difficile gestire la parte dell’eventuale ricorso giurisdizionale.

Le disgrazie, come si suole dire, non arrivano mai da sole: se fino ad ora il testo del decreto è stato latore di inefficienze e carenze “formali”, la strada si fa ancora più impervia qualora il richiedente abbia la balzana idea di ricorrere contro la decisione della commissione. In quel marasma che è il ricorso all’autorità giudiziaria, sembra per un attimo intravedersi la luce in fondo al tunnel: il decreto dispone l’istituzione di sezioni specializzate in materia di immigrazione, protezione internazionale e libera circolazione dei cittadini dell’Unione europea nei tribunali. Non in tutti naturalmente anzi, in pochissimi.

Sono previsti accorpamenti per competenza territoriale e di conseguenza, ad esempio, il Tribunale di Firenze è così competente per Umbria e Toscana. Quel bagliore di speranza si manifesta per ciò che è in realtà: l’ennesimo fuoco fatuo posto che si incide sulla prossimità dell’ufficio giudiziario al richiedente, ledendo così un già labile diritto di difesa.

Colpo mortale a questo diritto è inferto dalla trattazione dei ricorsi con rito camerale, che è sì più semplice, ma riduce irrimediabilmente le garanzie del richiedente e come se non bastasse, non è più previsto un secondo grado di giudizio, un grado di appello.

Nel caso in cui venga proposto ricorso all’autorità giudiziaria, non è prevista un’udienza di comparizione delle parti, a meno che lo stesso giudice ritenga necessario ascoltare l’interessato, chiedere chiarimenti, o disporre di consulenze tecniche o assunzione di mezzi di prova; deve fissarla obbligatoriamente quando la videoregistrazione risulti non disponibile, o l’impugnazione si fondi su avvenimenti non sottoposti al vaglio della Commissione territoriale.

Il richiedente sarà ora interessato ad introdurre elementi nuovi per farsi fissare l’udienza, non senza il rischio di sembrare poco o affatto credibile. Un’escalation di disastri da ogni punto di vista. Facciamo ora un passo indietro e soffermiamoci sul passo della Mazzantini nel punto in cui dice non sai davvero chi salvi, magari un avanzo di galera. Magari. Non “sicuramente”. Ebbene, il decreto sembra partire dall’assunto che tutti i richiedenti protezione internazionale siano dei criminali incalliti e questo lo si deduce dal fatto che la partecipazione del richiedente all’udienza di convalida dell’eventuale trattenimento, viene effettuata con collegamento audiovisivo tra il centro di permanenza per i rimpatri (CPR) e l’aula dell’udienza.

Il nostro sistema penalistico prevede questa possibilità in presenza dei reati più gravi quali, per citarne alcuni, la partecipazione ad associazioni di tipo mafioso disciplinata all’articolo 416bis del codice penale; i reati di devastazione, saccheggio e strage ex art. 218 c.p.

Un operatore della Polizia di Stato assiste il ricorrente presso il CPR, ne attesta l’identità e verifica che non vi siano limitazioni all’esercizio delle facoltà lui spettanti. Il difensore è posto davanti ad una scelta: affiancare fisicamente il richiedente o comparire di fronte al giudice in aula. In entrambi i casi si perde qualcosa: nella prima circostanza viene meno il confronto diretto con il giudice, dovendosi avere un dialogo mediato dai mezzi audiovisivi predisposti.

Nella seconda ipotesi, il difensore perde la possibilità di verificare se vi siano o meno abusi da parte dell’ufficiale di Polizia, eventualità purtroppo non rara. Quelli affrontati fino ad ora sono solo alcuni aspetti del decreto, ma sembrano sufficienti ad evidenziarne le carenze strutturali e contenutistiche.

Dov’è la giustizia? Sacrificata dall’esigenza di celerità, dalla necessità di lavarsene le mani dando però l’illusione di star affrontando il problema.
Come si può pensare di contrastare l’immigrazione illegale quando è la normativa ad obbligare, in certi casi, al suo stesso raggiro?