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Di chi è l’Europa?

Dentro e oltre le mobilitazioni del 25 marzo, per un'Europa aperta, solidale e meticcia #overthefortress

L’idea che l’Europa sia davanti ad un bivio è un’immagine ormai consolidata nel dibattito pubblico. Due strade divergenti – l’una che conduce alla disgregazione dell’UE, l’altra che indica la necessità di un rilancio del processo di integrazione tra gli stati membri – segnerebbero le uniche due possibilità che l’Europa ha davanti. Nonostante queste due opzioni siano rappresentate come radicalmente alternative tra loro e siano sostenute da attori politici in competizione – populisti nazionalisti da una parte, establishment neoliberale dall’altra – sono presenti, sottotraccia, rilevanti elementi di convergenza.

Innanzi tutto, la rappresentazione del bivio – evocata con forza da entrambi gli schieramenti – tende a consolidare l’idea secondo la quale non è ipotizzabile un processo di radicale trasformazione delle regole di funzionamento dell’Europa. Gli uni, le classi dirigenti neoliberali, sostengono che bisogna difendere questa Europa come argine al dilagare dei populismi reazionari. Gli altri, le formazioni politiche che invocano il ritorno alla sovranità nazionale, partono dal presupposto che non sia possibile immaginare e costruire un’Europa che funzioni diversamente.

Per quanto riguarda l’establishment, questa tendenza non stupisce. L’idea secondo la quale there is no alternative è uno degli assi portanti dell’ideologia neoliberale. Stupisce apparentemente di più che anche alcune forze politiche che si richiamano a valori o ad un’estetica di sinistra sostengano l’opzione che condurrebbe ad una messa in discussione dell’Europa politica, in ragione di un rilancio degli stati nazionali.

In ogni caso, le due opzioni politiche nascondono un’idea convergente e inquietante: le accomuna una certa concezione proprietaria dell’Europa. Entrambe non tengono conto di uno degli elementi più rilevanti nella storia recente dello spazio europeo: il movimento dei migranti che arrivano, viaggiano e vivono in Europa.

Un cambiamento irreversibile

Che il dibattito sul futuro dell’Europa non tenga conto del significato politico e sociale delle migrazioni che attraversano il continente è cartina tornasole dello stato di crisi delle elites politiche e del dibattito pubblico. Da questo punto di vista, l’indicazione di Sayad secondo il quale «pensare l’immigrazione significa pensare lo Stato ed è lo Stato che pensa se stesso pensando l’immigrazione» può essere traslata sul piano europeo. Quale idea d’Europa è riscontrabile nei desideri, nei bisogni, nei linguaggi e nelle pratiche dei migranti? Come raccogliere la sfida politica che gli arrivi, i transiti, gli sconfinamenti incessantemente pongono alla vecchia Europa?

La prospettiva indicata dal movimento dei migranti ci può permettere, innanzi tutto, di comprendere qual è la situazione attuale della spazio europeo, oltre le tinte fosche evocate delle contrapposte ideologie. Da questo punto di vista, l’immigrazione – elemento centrale dei nostri tempi – sta già trasformando, qui ed ora, la società europea. Si tratta di modifiche molto più profonde e strutturali rispetto alle percezioni che abbiamo: hanno una densità storica rilevantissima. Sono trasformazione che hanno a che fare con la demografia, con l’economia, la cultura, i luoghi di lavoro e di vita, e così via. Investono tutti i livelli della vita sociale e politica europea. E non è un processo del domani: la vecchia Europa sta già cambiando – in maniera irreversibile – attraversata e abitata da donne e uomini proveniente da contesti diversi.

L’insediamento permanente di individui, famiglie e comunità migranti pone innanzi tutto una sfida concettuale: è necessario abbandonare un certo nazionalismo metodologico, che molto spesso fa da cornice – evidente o sottotraccia – alle nostre ricerche e alle proposte sui destini dell’Europa e degli stati membri. Viceversa, non c’è analisi del presente o di prospettiva sul futuro dell’Europa senza una piena consapevolezza dello spazio europeo come terreno minimo a partire dal comprendere la realtà e costruire reti solidali.

Destini incrociati

Se, ancora con Sayad, possiamo affermare che «l’immigrazione disturba perché obbliga a smascherare lo Stato, a smascherare il modo in cui pensa e si pensa, come rileva il suo modo specifico di pensare l’immigrazione», le opzioni politiche che invocano la disgregazione dello spazio europeo in favore di un nuovo protagonismo degli stati nazionali si rivelano – ancor più evidenza quando si accompagnano a simbologie e slogan iscrivibili nella storia delle sinistre – di una sorprendente e pericolosa superficialità.

È sufficiente, infatti, soffermarsi brevemente sulle vicende storiche che hanno portato alla formazione degli stati nazionali, e seguire il violento solco tracciato dalle loro parabole, per scorgere l’indissolubile legame tra nascita e vita degli stati, costruzione di confini, trasferimenti coatti di popolazioni, ossessione per il controllo della vite umane e finanche pulizia etnica. Uno stato è, in definitiva, la traccia di un confine e il dispiegarsi dei dispositivi che definiscono e limitano il suo attraversamento.

Viceversa, anche l’astratto europeismo delle classi dominanti è un feticcio ideologico. È quanto mai evidente – inciso nei corpi dei migranti in cammino nei territori europei – che questa rappresentazione di un’Europa senza confini abbia a che fare con la realtà soltanto per quanto riguarda il movimento di capitali e di merce. Per quanto concerne, invece, le esperienze di vita dei migranti, l’Europa attuale è sinonimo di confinamento, trattenimento, capillare controllo sulla mobilità e sui desideri, con l’esplicita dichiarazione di guerra ai cd. movimenti secondari e l’estrema selezionabilità dei flussi in ingresso come assi portanti della nuova legislazione europea in fase di discussione.

Quali strumenti abbiamo per intervenire, in maniera potenzialmente efficace, nelle trasformazioni in corso, oltre le passioni tristi della testimonianza e del disfattismo? Abbiamo – come movimenti e reti solidali – innanzi tutto il compito di assumere la prospettiva europea come l’unico campo di tensione all’interno del quale è utile dispiegare le nostre energie, i nostri desideri e il nostro attivismo, anche quando attraversiamo conflitti che hanno apparentemente connotati nazionali o territoriali. Anche da questo punto di vista le vicende politiche delineate dai comportamenti dei migranti ci indicano una chiara prospettiva politica.

Nelle scienze sociali, infatti, si usa spesso parlare di implicita politicità situata nelle biografie e nelle pratiche dei migranti. È un profilo indubbiamente vero: con la loro stessa esistenza, donne e uomini provenienti da altri territori pongono rilevanti elementi di novità e delineano opportunità per le società di destinazione. C’è, allo stesso tempo, una storia di lotte e conflitti – un’articolata geografia della resistenza, una politicità esplicita – che è anch’essa un elemento determinante dei nostri tempi. Se con uno sguardo teniamo insieme quello che accade in Grecia e lungo la rotta balcanica, e lo sovrapponiamo alle vicende che attraversano Calais, Ventimiglia e ogni territorio di confinamento – possiamo cogliere la portata politica delle controcondotte migranti, come potenziale elemento costituente dell’Europa che verrà.

Il cantiere è aperto

Non si tratta, evidentemente, soltanto delle lotte del domani. Oltre e contro la propaganda delle elites neoliberali e populiste, l’Europa è già in movimento. Il triste chiacchiericcio delle classi dominanti – e la brutale violenza delle loro politiche – segnano il nostro tempo, e delineano un progetto complessivo di governo della vita migrante. Allo stesso tempo, il campo di tensione è già aperto: non c’è recinzione, confinamento, trattenimento, che non sia attraversato da pratiche soggettive – individuali o collettive – di rifiuto, resistenza e rivolta. Da questa prospettiva non si retrocede: l’Europa sta già cambiando, attraversata dal transito incessante e dalle condotte di vita di donne e uomini migranti. Si tratta di trasformazioni che hanno evidentemente bisogno di una forte discontinuità nella razionalità che le governa. È tutto qui situato il compito politico che abbiamo davanti: dispiegare una controrazionalità aperta, solidale, molteplice.

Le storie dei migranti e la storia delle migrazioni ci indicano, in ultima analisi, che il regime dei confini non assume mai caratteri definitivi: i comportamenti soggettivi e i movimenti solidali possono tracciare vie di fuga dalle passioni tristi del presente, per affermare – in un potente controcanto plurale, eterogeneo e meticcio – che l’Europa è di tutt*.

Francesco Ferri

Sono nato a Taranto e vivo a Roma. Mi occupo di diritto d'asilo, politiche migratorie e strategie di resistenza sia come attivista sia professionalmente. Ho partecipato a movimenti solidali e a ricerche collettive in Italia e in altri paesi europei. Sono migration advisor per l’ONG ActionAid Italia.