1) Ormai è un bollettino di guerra, una guerra a “bassa intensità” combattuta nei “centri per stranieri”, come li definisce il ministero dell’interno, per il quale gli immigrati trattenuti a vario titolo sono soltanto “ospiti”, non solo nei Centri di identificazione ed espulsione (CIE), ma anche nei Centri di accoglienza per richiedenti asilo (CARA) e nei Centri di prima accoglienza e soccorso (CPSA) che stanno proliferando ovunque. In assenza un sistema nazionale di accoglienza decentrato in grado da mettere l’Italia, almeno sotto questo profilo, in linea con gli standard imposti dalle normative comunitarie. Una guerra a “bassa intensità” che trapela solo dalle agenzie di stampa locali, che scaricano generalmente tutte le responsabilità sui migranti, ansiosi soltanto di fuggire da luoghi di detenzione e confinamento che ne cancellano i diritti fondamentali e ne annientano la dignità umana. Le proteste dei migranti ormai non fanno più notizia. Le immagini dei loro corpi feriti dalle lamette in gesti estremi di protesta sono destinate a scomparire nella coscienza collettiva nel giro di poche ore. Sulle denunce presentate dopo episodi di detenzione illegale o dopo pestaggi punitivi non indaga nessuno. A differenza degli anni precedenti, questa volta sono i sindacati di polizia che tornano a farsi sentire, dopo l’accantonamento del “Documento programmatico” sui CIE, che una task force del ministero dell’interno aveva elaborato lo scorso anno, in risposta alle sollecitazioni interne che provenivano dai corpi di polizia. Non è stata certamente applicata l’unica parte del documento che appariva condivisibile, nella quale si sconsigliava l’invio nei CIE di immigrati provenienti dalle carceri, mentre le proposte che miravano a ritardare i ricoveri ospedalieri ed a creare un regime differenziato di detenzione, con gabbie di isolamento, per i soggetti maggiormente propensi alla ribellione, non sono state formalizzate ma, di fatto, sono già praticate.
Le prassi discrezionali con le quali i “centri per stranieri” continuano ad essere gestiti, intanto, non reggono più di fronte alla disperazione dei migranti che vi sono rinchiusi, i ritardi degli uffici, le omissioni delle autorità di controllo, i provvedimenti manifesto e le norme criminogene volute da Maroni e dai governi di centrodestra, talora avallate da quella che avrebbe dovuto costituire l’opposizione, stanno producendo nel tempo effetti sempre più deleteri. Al punto che ormai i CIE sono ingovernabili e funzionano con capienza ridotta, anche meno del 50 per cento delle persone che potrebbero rinchiudere. Un simbolo estremo della cattiveria voluta da Maroni nei confronti degli immigrati irregolari, ma anche un frutto delle politiche sicuritarie del centrosinistra di governo. Di certo strutture costosissime ed inefficaci anche per garantire l’effettivo allontanamento dei migranti irregolari. Solo una minima parte delle persone effettivamente riaccompagnate in frontiera passa ormai dai CIE. Come avevamo previsto quando in pochi ci opponevamo contro i pacchetti sicurezza che estendevano l’applicazione della detenzione amministrativa, e ne prolungavano prima a sei e poi a diciotto mesi la durata. E le ipotesi ancora sul tappeto, di una riduzione a sei o dodici mesi della detenzione amministrativa, contenute nel Documento programmatico e rilanciate di recente dal ministro Cancellieri, all’epoca ministro dell’interno, appaiono ormai superate a fronte della situazione esplosiva che si è creata nei CIE, anche per effetto della riduzione del personale civile degli enti gestori, conseguenza del drastico abbattimento del costo delle convenzioni.
I CIE vanno chiusi, con una disciplina profonda del sistema dell’allontanamento forzato che rispetti le normative dell’Unione Europea, che stabiliscono il carattere residuale della detenzione amministrativa, e il dettato costituzionale, in particolare l’art. 13 della Costituzione. Occorre fare presto perché dopo anni di interventi da ordine pubblico, con scudi e manganelli, la situazione nei centri è ormai ingovernabile. Tutte le possibilità di mediazione sembrano cadute anche per la riduzione del personale civile impegnato dagli enti gestori.
Le possibilità di difesa in sede di convalida dei provvedimenti di trattenimento e delle successive proroghe sono ridotte al minimo. Molti avvocati nominati su indicazione degli enti gestori non svolgono alcuna effettiva attività di difesa. Tutte le denunce fatte negli anni passati sugli abusi e le violenze subite dai migranti nei centri per stranieri sono state archiviate e così le persone trattenute nei centri hanno perduto ogni fiducia nella giustizia italiana e nella possibilità di vedere riconosciute le proprie ragioni. Ed hanno cominciato a farsi ragione da soli, con i loro corpi, gli unici mezzi che gli restavano per comunicare la loro disperazione, per cercare una prospettiva di futuro nella clandestinità, e si sono moltiplicate a macchia d’olio le rivolte, i tentativi di fuga, i gesti di autolesionismo.
In questo clima di generale caduta di fiducia nei confronti delle istituzioni italiane sono rimasti coinvolti anche i richiedenti asilo, ed coloro che venivano trattenuti in strutture “informali” del tutto inadeguate, in attesa di essere trasferiti in veri centri di accoglienza e di potere formalizzare la loro richiesta di protezione, un passaggio troppo spesso ritardato, che ha creato una pericolosa propensione alla clandestinità anche in coloro che avevano tutte le ragioni per ottenere il riconoscimento di uno status legale di protezione in Italia. Ed a livello europeo stanno passando nuove normative che amplieranno ancora la possibilità di detenere i richiedenti asilo, tutte le volte che le persone debbano essere identificate o vi sia un “pericolo di fuga”, da definire di volta in volta, a discrezione, ovviamente, delle autorità di polizia. Normative che, se verranno applicate negli attuali centri di detenzione, porteranno ad una conflittualità ancora più diffusa.
2)Intanto arrivano le denunce dei sindacati di polizia sulla “ingestibilità” dei centri per stranieri, siano essi CIE o CARA. E le proteste scoppiano anche nei CPSA, come nelle ultime settimane la “rivolta degli eritrei” a Lampedusa.
A Trapani, dopo mesi di fughe continue, seguite dalle consuete azioni di “ripristino della misura di trattenimento violata”, in qualche caso caratterizzate dal ricorso alle maniere forti, l’ultimo tentativo di fuga è avvenuto nella notte del 21 luglio. Secondo la stampa locale ci sarebbero stati cinque feriti, tre militari dell’Esercito e due militari della Guardia di finanza. Sarebbero rimasti soltanto “contusi un paio di extracomunitari” che probabilmente nessuno ha refertato. Tre “clandestini” sarebbero riusciti a fuggire. Le ricerche degli “evasi”, sempre secondo il linguaggio della stampa locale, finora, non avrebbero dato alcun risultato. Questa la cronaca. “Si sono volatilizzati per la campagna circostante. L’allarme è scattato intorno all’una. Nel tentativo di guadagnare la via di fuga un gruppo di immigrati è entrato a contatto con le forze dell’ordine che presidiano il centro di contrada Milo, dove allo stato attuale sono ospitati un centinaio di extracomunitari. Momenti di tensione, poi la situazione è ritornata, lentamente, alla normalità, grazie all’intervento, in forze, di polizia e carabinieri. I rivoltosi sono stati isolati. I feriti accompagnati al pronto soccorso del «Sant’Antonio Abate». Qui, dopo aver ricevuto le cure del caso, sono stati dimessi. Ancora una volta il centro di Milo si è confermato una polveriera pronta ad esplodere da un momento all’altro, come più volte denunciato dalle organizzazioni sindacali di polizia”. Ed in effetti i sindacati di polizia avevano già protestato all’apertura del CIE di Milo, nel luglio del 2011, nel pieno dell’Emergenza nord africa, denunciando la inidoneità della struttura a fungere da centro di detenzione, essendo stata originariamente pensata come centro di accoglienza, e soprattutto la carenza di organici. Ragione per la quale, ancora negli ultimi mesi, il numero dei migranti trattenuti a Milo, in gran parte provenienti dal carcere, dopo avere scontato per intero una pena, o rimessi in libertà per altre ragioni, era sempre rimasto attorno a cento, meno della metà della capienza massima del CIE. Ma anche nel corso dell’ultima visita effettuata da una delegazione di parlamentari ed associazioni il 27 giugno scorso cresceva l’insofferenza verso l’applicazione di una doppia pena, in quanto coloro che provenivano dal carcere si trovavano a subire mesi e mesi di ulteriore restrizione della libertà personale non per il reato eventualmente commesso, ma solo perché lo stato italiano non riusciva ad eseguire tempestivamente le misure di allontanamento forzato, per la mancata collaborazione nei riconoscimenti personali da parte delle autorità consolari dei paesi di provenienza.
Anche nel CIE/CARA ( si tratta infatti di un centro “polifunzionale” come definito dal ministero dell’interno) di Caltanissetta Pian del Lago, uno dei primi centri aperti in Italia nell’estate del 1998, dopo l’approvazione della legge Turco-Napolitano che introduceva i centri di permanenza temporanea (CTP) , si sono registrate fughe e ribellioni che per mesi la stampa ha ignorato, o che nessuno ha voluto fare filtrare all’esterno, fino agli ultimi comunicati dei sindacati di polizia che denunciano la mancanza di sicurezza all’interno del centro, sia per gli operatori, che, in subordine, per gli immigrati che vi sono detenuti, nel CIE, o alloggiati nel CARA. Struttura nella quale, a differenza dei CIE, si può uscire la mattina per rientrare la sera, e nella quale vengono confinate persone in attesa dell’esito della procedura di asilo. Confinate ma anche trattenute, perché prima della identificazione e del rilascio del cedolino non possono neppure uscire dal centro di accoglienza, ed una volta ammessi alla procedura non possono allontanarsi anche per lunghi mesi, perché prima della definizione favorevole delle procedure di asilo non possono ottenere documenti utili per esercitare in pieno la loro libertà di circolazione. E per chi riceve un diniego, circa la metà dei casi, la situazione è ancora più disperante perché la vita rimane appesa ad un ricorso e ad una sentenza del tribunale, con il rischio, in caso di conferma del diniego, di essere sottoposti alle stesse misure di allontanamento forzato comunemente riservate agli immigrati irregolari. Ed causa dei ritardi delle commissioni territoriali sono centinaia di potenziali richiedenti asilo che sono costretti a bivaccare all’esterno del centro polifunzionale di Pian del Lago, in attesa di essere accolti e quindi ammessi alla procedura di protezione internazionale. C’è chi fugge e c’è chi si mette in coda per giorni per entrare.
Il collasso del sistema di accoglienza in Italia, anche di fronte ad un numero di arrivi ancora basso, comunque molto ridotto rispetto agli anni dal 2008 al 2011, i ritardi delle commissioni territoriali e l’inasprirsi delle procedure di accompagnamento forzato in frontiera hanno portato alle stelle la tensione anche nei centri di accoglienza per richiedenti asilo (CDA e CARA), perché per molti la identificazione, con il rilievo delle impronte digitali, per gli effetti perversi del Regolamento Eurodac e del Regolamento Dublino 2, n.343 del 2003 tuttora vigente, equivale ad una condanna a restare in Italia, una condanna ad un destino di emarginazione e di sfruttamento. Al punto che le proteste sfociano spesso in rivolte, magari per l’ennesima coda per la fornitura dei pasti, e sono storia quotidiana anche in quei luoghi che dovrebbero essere di accoglienza e di protezione. Sempre più frequenti le proteste con blocchi stradali davanti ai CARA di Mineo ( Catania) e al CDA/CARA di Caltanissetta.
In una recente nota del SIULP di Caltanissetta si legge “Una volta al C.I.E. e una volta al C.D.A, oramai quello che succede al Centro Governativo di Pian del Lago ha dell’inverosimile… il mattinale del Centro di Identificazione ed Espulsione, somiglia sempre più… ad un bollettino di guerra… che riporta, solo danni e feriti , fughe e sommosse!” E in una lettera del SIAP al Questore di Caltanissetta, dopo il tentativo di fuga del 12 luglio scorso, si legge: “E’ chiaro che il dispositivo di vigilanza, così come congegnato, non è in grado di contenere eventuali rivolte presso quel centro così come non lo era nel 2009 quando quello stesso centro fu devastato ed incendiato (oggi il dispositivo di vigilanza è identico a quello di allora…)”. La nota continua con un tono che allarma davvero: “Nell’occasione sono rimasti feriti alcuni poliziotti che con i miseri mezzi messi a disposizione e privi di dispositivi di protezione individuale (equipaggiamento antisommossa da tempo richiesto e mai assegnato) hanno cercato in tutti i modi di contenere la rivolta al fine di salvaguardare l’incolumità pubblica all’interno e all’esterno del centro. Durante i disordini sono stati individuati ed arrestati due cittadini algerini particolarmente violenti che oggi vengono riammessi all’interno di quello stesso centro in attesa di processo!!!” Secondo quanto ritiene questo sindacato di polizia “Ovviamente i predetti arrestati sono rientrati vittoriosi tra i loro concittadini, probabilmente pronti a riorganizzare la successiva rivolta, perché tanto hanno capito che in Italia è possibile picchiare i poliziotti senza grandi conseguenze”. La lettera si conclude con un appello “Siamo certi signor Questore che l’incolumità dei suoi uomini le stia a cuore, e per questo Le chiediamo con forza di intervenire presso le competenti sedi locali e romane al fine di scongiurare la tragedia annunciata che ormai aspettiamo e che si abbatterà sulla nostra realtà nissena se chi di competenza non porrà rimedio!!!”
Ancora più preoccupante l’ultima lettera rivolta il 22 luglio scorso al Prefetto di Caltanissetta dal SIP-CGIL, una lettera che va riportata per intero perché apre squarci inquietanti sui rapporti tra forze di polizia e migranti trattenuti all’interno del CIE di Pian del Lago, rapporti caratterizzati da procedure di contenimento da “ordine pubblico”, lo stesso magari che si adotta per “fronteggiare” le manifestazioni di protesta contro la realizzazione di un impianto altamente nocivo per la salute dei cittadini ( come il MUOS di Niscemi). Di certo con largo impiego di caschi, scudi e manganelli. E’ del tutto legittimo che gli operatori di polizia possano svolgere il proprio lavoro senza rischiare l’incolumità personale, rimane da chiedersi se le maggiori dotazioni “da ordine pubblico” possano restituire maggiore sicurezza, agli stessi operatori, ai cittadini, e magari anche ai migranti.
CALTANISSETTA – Egr. Sig Prefetto, negli ultimi mesi i tentativi di fuga al CIE di Pian del Lago sono diventati la “regola quotidiana”. E’ ormai certo che gli stranieri ivi trattenuti, dopo il tramonto, saliranno sui tetti dei padiglioni e, in 40/50 alla volta, si arrampicheranno su più punti della recinzione alta una decina di metri e la scavalcheranno, mentre altri stranieri tireranno pietre e oggetti contundenti all’indirizzo dei poliziotti, dei carabinieri e dei militari dell’Esercito in servizio di vigilanza. Le forze di polizia, prive dei dovuti equipaggiamenti di OP, cercano di contenere la fuga in tutti i modi ma il prezzo da pagare sarà il ferimento di alcuni di essi, in ultimo un ispettore ha riportato lesioni a un ginocchio a causa delle quali rimarrà fuori servizio per qualche mese, (le forze dell’ordine sperano di non riportare ferite più gravi sic!), il danneggiamento di automezzi e della struttura. Questa situazione “surreale” è un problema che ormai da troppo tempo grava in via esclusiva sulle Forze di Polizia territoriali e, in particolare, dei poliziotti della Questura di Caltanissetta, sottoposti a turni di lavoro massacranti che li distolgono da altre importanti attività istituzionali. Come si sa, gli stranieri irregolari trattenuti al CIE in attesa d’identificazione e della successiva espulsione, non sono in stato di detenzione e quando tentano la fuga, non sono tratti in arresto, ma nuovamente reinseriti all’interno del CIE ove ritenteranno la fuga ogni notte. Questa situazione crea frustrazione e malcontento tra gli appartenenti alle FF. PP. che non hanno nessuno strumento per garantire l’ordine pubblico, anzi sono mandati allo sbaraglio e sono scherniti e dileggiati dagli stessi extracomunitari per i quali richiediamo sempre e comunque rispetto dei loro diritti e della loro dignità umana. Sarebbe auspicabile prevedere misure preventive per non rendere agevole la fuga degli stranieri dal CIE per es.: privarli di apparecchi telefonici (con i quali contattano chi agevolerà la loro fuga) e di scarpette di ginnastica (con le quali si arrampicano lungo la recinzione e fuggono agevolmente). Si dovrebbero prevedere dei lavori strutturali all’interno del CIE che impediscano agli stranieri di tirare addosso alle FF.PP. ogni genere di materiale contundente e prevedere tra le esistenti sbarre di recinzione del CIE una rete fitta termosaldata al fine di impedire il passaggio di materiale contundente. Al problema delle condizioni di sicurezza del CIE si aggiunge quello dei circa 500 stranieri richiedenti asilo politico ospitati al CARA. Altra situazione esplosiva è quella che ha visto circa 200 richiedenti asilo politico bloccare la strada che costeggia il Centro Governativo di Pian del Lago, per protestare contro il blocco dei lavori della Sezione nissena della Commissione Territoriale per il riconoscimento dello Status di Rifugiato. Lo stallo dei lavori della commissione impedirà di fatto ad altri stranieri (che attualmente sostano all’esterno del predetto Centro) di farvi accesso per ottenere lo status di rifugiato politico. In questo periodo la Questura di Caltanissetta, oltre a dover contrastare quotidianamente l’immigrazione clandestina, la crescente criminalità comune e di tipo mafioso, deve fronteggiare l’emergenza dei gruppi “No Muos” di Niscemi che presidiano da mesi la base U.S. Navy di contrada Ulmo. Per quanto sopra esposto la scrivente O.S., oltre ad essere solidale con i tutti i poliziotti che svolgono questo compito gravoso, chiede alla S.V. un intervento urgente presso il Ministero dell’Interno, per garantire sufficientemente l’ordine pubblico nella nostra provincia ed in particolare nella nostra città. In definitiva il Silp CGIL chiede mezzi, risorse economiche e il potenziamento dell’organico della Questura di Caltanissetta, per soddisfare il bisogno di sicurezza di tutti i cittadini.
3) I comunicati delle forze di polizia sulla situazione nei CIE di Trapani Milo e di Caltanissetta Pian del Lago intervengono in un momento di avvicendamento dei vertici del ministero dell’interno dopo la gravissima espulsione di una donna kazacha moglie di un dissidente e della sua bambina, su richiesta delle autorità del Kazachistan che per giorni hanno potuto disporre della polizia italiana secondo le finalità e con i metodi di uno stato dittatoriale e non come sarebbe stato doveroso nel rispetto della sovranità nazionale e dello stato di diritto. Gli stessi vertici del ministero dell’interno, lo scorso anno, avevano già raccolto le lamentele dei sindacati di polizia in merito alla situazione nei “Centri per stranieri” ed avevano avviato attività ispettive in tutta Italia.
Poco prima della caduta del governo dei “tecnici” veniva elaborato un “Documento programmatico sui Centri di Identificazione ed espulsione” predisposto da una “task-force” incaricata dal ministro dell’interno, “ che si è recata presso i Centri presenti su tutto il territorio nazionale al fine di raccogliere ogni informazione utile allo svolgimento dell’analisi e alla elaborazione del Documento. Il ministro Cancellieri nel mese di giugno del 2012 aveva affidato al Sottosegretario Ruperto il compito di coordinare la “commissione”, composta dai massimi vertici del ministero dell’interno, proprio negli stessi mesi in cui una serie di visite effettuate nel corso della campagna “LasciateCIEntrare” avevano fatto emergere gravi lacune strutturali, come quelle che avevano imposto la chiusura dei CIE di Trapani ( il vecchio Serraino Vulpitta) e di Lamezia Terme, inadempienze contrattuali degli enti gestori, come nel caso sul quale sta indagando la Procura di Bologna, ed una serie di abusi, oggetto di diversi esposti all’autorità giudiziaria di Trapani, rimasti fino ad oggi senza esito. E altri esposti con conseguente avvio di indagini giudiziarie erano stati presentati a Gradisca d’Isonzo, ma nessuno è riuscito ad intervenire in tempo, al punto che la situazione oggi è ancora più deteriorata che in passato, come documentato da una recente visita di associazioni e parlamentari. I continui trasferimenti di migranti irregolari da un capo all’altro della penisola aggravano questa situazione, sono trasferimenti forzati che non consentono alcuna attività di mediazione o una effettiva difesa legale.
Il “Documento programmatico sui Centri per stranieri” del 2012 partiva già da una premessa errata, ricollegando alle “manifestazioni e rivoluzioni” della “Primavera Araba” l’aumento della presenza degli immigrati nei CIE, mentre invece appare a tutti evidente, anche alla luce dei rapporti di organizzazioni come MEDU ( Medici per i diritti dell’Uomo), come la maggior parte degli immigrati trattenuti nei centri siano provenienti dal circuito carcerario, o siano immigrati presenti da anni in Italia, che si sono trovati nella condizione di irregolarità a seguito della perdita del posto di lavoro. D’altra parte si prendeva atto che i centri “operano con capienza ridotta a causa del danneggiamento dei locali”, senza riferire però che alcune strutture sono parzialmente vuote per carenze di personale e per problemi insorti con gli enti gestori a seguito del forte ribasso dei corrispettivi previsti dalle convenzioni, come nel caso del CIE di Milo a Trapani.
Il rapporto riferiva, non si comprende bene in base a quali stime, che il tempo medio di permanenza nei CIE nel 2012 “ è stato di 38 giorni a fronte di un 50,6 (per cento) di espulsi dopo il trattenimento”, ma lo stesso ministero riconosceva il dato “non completamente indicativo della situazione reale”, anche se si sarebbe dovuta trarre già allora da parte della commissione l’ovvia constatazione della inutilità della detenzione amministrativa fino a 18 mesi, imposta da Maroni quando la Lega dettava al governo la politica dell’immigrazione. Una proposta a tale riguardo, contenuta nello studio del ministero, corrispondeva a quanto già anticipato in precedenza dal ministro dell’interno Cancellieri, la riduzione della durata massima della detenzione amministrativa a dodici mesi, una proposta che, come osservato anche in un documento dell’ASGI di alcuni mesi fa, non modifica certo la situazione insostenibile dei CIE italiani, e non corrisponde neppure alla attuazione della Direttiva comunitaria sui rimpatri del 2008. Infatti il sistema automatico delle proroghe comporta il mantenimento all’interno dei CIE di persone per le quali è ormai evidente che non ci sono più probabilità di rimpatrio, e dunque la detenzione amministrativa assume il carattere di una sanzione meramente afflittiva senza essere più finalizzata all’esecuzione effettiva delle misure di allontanamento forzato (espulsione prefettizia e respingimento disposto dal Questore).
L’aspetto più preoccupante dell’intero rapporto, più per le intenzioni sottese, corrispondenti peraltro a prassi di polizia già attuate, che alla formulazione di proposte precise, era la parte che riguardava la “differenziazione” dei regimi di trattenimento alla quale si dovrebbe procedere per fare fronte alla “eterogeneità” degli status giuridici delle persone trattenute nei centri di detenzione, ovviamente “nel rispetto delle garanzie costituzionali e compatibilmente con l’organizzazione e le caratteristiche strutturali dei Centri”. Si proponeva quindi che per gli immigrati “ex detenuti” venissero anticipate le pratiche di identificazione in carcere, auspicando “una fattiva collaborazione” tra il ministero dell’interno e quello della giustizia, in modo da agevolare il riconoscimento da parte delle autorità diplomatiche e consolari subito dopo l’arresto e prima dell’udienza di convalida e soprattutto allo scopo di “ collaborare con l’Amministrazione penitenziaria e le Questure competenti affinché gruppi di stranieri della (presunta) medesima nazionalità siano trasferiti in carceri limitrofi ai Centri situati nelle vicinanze delle rispettive rappresentanze diplomatiche”. Una prassi che già la polizia pratica autonomamente, come si è verificato proprio nel centro di Milo a Trapani nel caso dei tunisini che poi vengono riconosciuti, una volta condotti in aeroporto, dal console tunisino che ha sede a Palermo. Spesso però a non essere riconosciuti sono proprio coloro che provengono dal circuito carcerario, che fanno quindi ritorno al CIE, mentre vengono rimpatriati lavoratori rimasti privi di permesso di soggiorno e ragazzi appena sbarcati. Una prassi che presenta evidenti contenuti discriminatori e che impedisce un esercizio effettivo dei diritti di difesa, interrompendo, anche nei casi nei quali esistano, i rapporti tra gli avvocati e gli immigrati da loro assistiti, trasferiti spesso, all’improvviso ed in segreto, in località distanti migliaia di chilometri dai luoghi nei quali sono stati arrestati o detenuti e nei quali hanno avuto l’assistenza di un avvocato.
Altro aspetto preoccupante del rapporto ministeriale, che si lega alle proteste dei sindacati di polizia, reiterate ancora in questi giorni, riguardava la “Tutela della pacifica convivenza all’interno dei Centri”. Secondo il Documento programmatico del ministero dell’interno “ non infrequenti risultano gli episodi di sedizione e rivolta che si registrano all’interno dei Centri” con “ condotte violente ed antisociali da parte di alcuni ospiti, che spesso sfociano in danneggiamenti severi delle strutture, con conseguente perdita di ricettività delle stesse o, a volte, necessità di chiusure temporanee per provvedere al ripristino”. Si riproponevano anche in questo caso misure già sperimentate, nei CIE di Modena e Bologna, come il trasferimento in altre strutture di trattenimento, oppure “ la creazione, all’interno di ogni CIE, di moduli idonei ad ospitare persone dall’indole non pacifica”. Già il linguaggio non lascia dubbi sulle intenzioni, e sulle prassi già sperimentate in questi anni. Si prevedono trattamenti detentivi di rigore, personalizzati, per quegli immigrati che le autorità di polizia definiscono “dall’indole non pacifica”, una ulteriore dilatazione della discrezionalità amministrativa sottratta ad un effettivo controllo del giudice, che appare in contrasto con le stesse fondamenta della nostra Costituzione ( in particolare gli articoli 3, 10, 13 e 24).
4)Non si comprende come risulti impossibile dare esecuzione alle misure di trattenimento e di allontanamento forzato senza violare i capisaldi della Costituzione democratica. Nel Documento programmatico del ministero oltre ad ipotizzare forme ulteriori di restrizioni della libertà personale per via amministrativa, si invocavano “norme di rango primario” cioè nuove leggi “per configurare una specifica aggravante per i reati commessi all’interno dei CIE, caratterizzati da condotta violenta”, in modo da conferire al Prefetto, al Questore o ad altre autorità amministrative, “il potere di intervenire in caso di episodi, attuali o potenziali, di insurrezione o di grave danneggiamento, disponendo, in via cautelativa, con provvedimento motivato, di carattere amministrativo, sottoposto al controllo di legittimità del giudice di pace, il trattenimento degli autori, per brevi periodi di tempo, in aree differenziate della struttura, quando sulla base di riscontri oggettivi, il provvedimento stesso risulti ragionevolmente idoneo a prevenire il danneggiamento delle strutture e a garantire la sicurezza degli ospiti, ovvero a scongiurare la reiterazione degli atti compiuti”. Insomma ci mancano solo le celle di isolamento ed i ferri alle pareti. Il trattenimento nelle sezioni speciali rimane però sotto il controllo del giudice di pace, organo giurisdizionale di cui evidentemente ormai ci si può fidare, anche perché molto spesso appone un timbro su un modello prestampato senza neppure ascoltare le ragioni delle persone trattenute. Come è avvenuto in modo eclatante nel CIE di Ponte Galeria nel caso della convalida del trattenimento della donna kazaca poi rimpatriata con la sua bambina in un paese che i rapporti dell’ACNUR ( www.refworld.org) individuano come luogo nel quale si realizzano sistematiche violazioni dei diritti umani, in particolare del divieto di tortura ed altri trattamenti inumani o degradanti sancito dall’art. 3 della Convenzione Europea a salvaguardia dei diritti dell’Uomo, e ribadito nel nostro ordinamento dall’art. 19 del testo unico n.286 del 1998. Ma ormai le democrazie occidentali piegano il capo alle dittature russe, ucraina e kazaca, come si è verificato con l’arresto del dissidente kazaco in Francia, una ignominia per un paese dalle tradizioni democratiche come la Francia, un fatto di inaudita gravità, soprattutto se sarà seguito dalla estradizione, per la quale è rimasto a tifare il solito Gasparri. Ma l’assenza di regole nelle prassi di polizia non caratterizza solo questi casi più eclatanti, è la quotidianità.
Tra le proposte del Documento programmatico del Ministero dell’interno si ribadiva l’esigenza che le procedure di convalida del trattenimento si svolgessero all’interno dei centri di detenzione, “evitando così alle questure un sovraccarico di compiti per l’accompagnamento degli stranieri presso le aule giudiziarie”, sulla scorta di una prassi amministrativa già collaudata, che nel tempo è stata anche censurata dalla giurisprudenza e dai Consigli dell’ordine degli avvocati perché non veniva garantito un esercizio effettivo dei diritti di difesa, richiamato espressamente dalla direttiva comunitaria 2008/115/CE sui rimpatri e dall’art.13 della Convenzione Europea a salvaguardia dei diritti dell’Uomo, oltre che dalla nostra Costituzione (art.24). E ancora oggi si verifica, almeno a Trapani, la celebrazione di udienze di convalida nelle quali l’immigrato non è presente, con l’allegazione fornita dai rappresentanti della questura che si sarebbe rifiutato di presenziare, mentre come è emerso da alcune visite effettuate in diverse sezioni del Cie di Milo e dalle testimonianze di avvocati indipendenti, non era stato neppure avvertito da parte delle autorità di polizia. L’assenza di una prospettiva reale di difesa aumenta oggettivamente la tensione e senza la mediazione dei consulenti legali e degli operatori civili, non solo dell’ente gestore, la vita quotidiana nei CIE si trasforma in una prova di forza continua tra i migranti e le forze dell’ordine .
L’avvicendamento ancora in corso ai vertici del ministero dell’interno non lascia intravedere quale sorte avranno le proposte contenute nel Documento programmatico sui centri per stranieri elaborato dalla task force nominata dal ministro Cancellieri nel 2012. Sembra però che le ipotesi migliorative, come la rottura del circuito Carcere-CIE, siano state accantonate, mentre il regime differenziato di trattenimento con riferimento alle attività concesse, i trattamenti punitivi- sul piano anche fisico- degli immigrati che si ribellano o tentano la fuga, le limitazioni della comunicazione con l’esterno e l’uso di sezioni speciali di isolamento all’interno dei CIE, siano diventate ormai prassi quotidiana. E probabilmente a questa risposta, sempre e solo in termini di ordine pubblico, che si deve la spirale di violenza che si aggrava ogni giorno di più all’interno dei centri per stranieri. Si avverte quindi come indifferibile una interruzione di queste prassi di polizia anche prima di una riforma della normativa in materia di respingimento, espulsioni e trattenimento amministrativo ( articoli 10,13 e 14 del testo unico n.286 del 1998 in materia).
I tempi attuali non sembrano però consentire facile ottimismo per una revisione legislativa della normativa italiana in materia di immigrazione ed asilo, e negli ultimi anni il nostro legislatore è stato costretto ad intervenire solo dopo casi eclatanti di condanna delle Corti internazionali, dopo sentenze della Corte Costituzionale, oppure per dare attuazione, spesso parziale, alle direttive comunitarie, come si è verificato da ultimo con la legge n.129 del 2011 con riferimento alla direttiva sui rimpatri 2008/115/CE, una direttiva che il ministro dell’interno Maroni voleva eludere a colpi di circolare. Per questa ragione, di fronte al sostanziale vuoto politico nel quale si sta verificando una crescente separatezza ed autoreferenzialità delle forze di polizia e del ministero dell’interno più in generale, come una lettura complessiva del Documento programmatico sui Centri per stranieri e delle ultime prese di posizione dei sindacati di polizia conferma, occorre intensificare lo sforzo per la chiusura dei CIE, anche immediata, a partire dai casi in cui questi evidenzino violazioni dei diritti di difesa e trattamenti inumani o degradanti, vietati anche dalla Convenzione Europea a salvaguardia dei diritti dell’Uomo ( art.3).
Vanno garantiti i diritti di libertà dei richiedenti asilo e i soggetti più vulnerabili come i minori non accompagnati, chiudendo tutte quelle strutture di prima accoglienza definibili come centri informali, dallo status giuridico incerto, nei quali l’accoglienza si confonde specialmente con la detenzione e si trasforma spesso in stato di abbandono. Non occorre fornire nessun alibi alle prefetture ed alle questure che cercano di coinvolgere associazioni nella gestione di luoghi che sono e rimangono fuori dalla legge. Le previsioni di centri ex legge Puglia del 1995 non possono giustificare la proliferazione di strutture di accoglienza dallo stato giuridico variabile a seconda dei momenti e delle persone che vi sono rinchiuse. Vanno abbreviati davvero i tempi di esame delle domande di asilo degli immigrati trattenuti in centri chiusi, come nei CIE, per questo occorre un raddoppio delle commissioni territoriali.
Occorrerebbe poi attuare per intero la Direttiva rimpatri 2008/115/CE, introducendo incentivi come l’eliminazione del divieto di reingresso per gli immigrati che collaborano alla loro identificazione ed al successivo rimpatrio, limitando i casi di detenzione amministrativa ai quali ricorrere come ultima ratio in assenza di altre misure meno coercitive e sempre secondo criteri di adeguatezza e proporzionalità rispetto al fine del rimpatrio. Occorre attuare la Direttiva anche nella parte che esclude la detenzione amministrativa nei casi nei quali risulti ormai impossibile eseguire le misure di allontanamento forzato per la mancata collaborazione dei paesi di origine.
I Cie non sono luoghi deputati a garantire la sicurezza del territorio, come ritengono alcune forze politiche e qualche sindacato di polizia, o a sanzionare la presenza in Italia degli immigrati irregolari, ma sono finalizzati esclusivamente all’esecuzione delle misure di allontanamento forzato, come chiarisce l’art. 5 della Convenzione Europea a salvaguardia dei diritti dell’Uomo. Anche nei Cie possono finire persone che hanno violato la legge, e che hanno commesso gravi reati. Ma la detenzione amministrativa non può costituire una pena aggiuntiva rispetto a quella già scontata in carcere. La funzione riabilitativa della pena, prevista dalla Costituzione, non si può limitare solo ai cittadini e negare per gli stranieri. E comunque si deve realizzare nelle carceri e non altrove. A tutti occorre fornire ogni forma di assistenza, e praticare tutte le vie di mediazione imposte dalla legge e dalle convenzioni stipulate dagli enti gestori, altrimenti la pena detentiva e poi le misure di allontanamento forzato, incluso il trattenimento nei centri di detenzione amministrativa, finiranno per corrispondere alla legge del taglione, occhio per occhio, dente per dente, con un incremento esponenziale della violenza, dentro e fuori i CIE, con le conseguenze che sono oggi sotto gli occhi di tutti.