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Donne rifugiate, la violenza ha molte facce

Alessandro Lanni, Carta di Roma - 9 dicembre 2017

L’immagine è di Jason Tanner

Malgrado le ormai numerose notizie, inchieste, reportage, lo stato e le reali necessità delle donne vittime di violenze in fuga dai loro paesi e che chiedono asilo sono ancora poco visibili in Italia. La situazione nei campi in Libia è ormai testimoniata anche da agenzie internazionali come l’Ohchr: abusi perpetrati dai trafficanti nei campi, nei viaggi dal Sudan o attraverso il Niger, in particolare ai danni di donne che viaggiano da sole.

Quando poi riescono ad attraversare il mare e a raggiungere l’Italia, spesso le vittime di violenze sessuali e basate sul genere non escono da quest’inferno ma lo continuano in altre forme. Lo sfruttamento sessuale delle ragazze nigeriane sulle strade italiane è conosciuto da una trentina d’anni ormai e il recente video-reportage del Guardian On the road girato al confine tra Marche e Abruzzo non fa che confermare il fenomeno.

La violenza, una costante e una variabile

Quel che fa fatica a entrare nell’opinione pubblica italiana è quanto la violenza sulle rifugiate sia al tempo stesso una costante e una variabile, ovvero una violenza continua che cambia forma durante la fuga.

Per la maggior parte delle donne che dall‘Africa s’incamminano verso l’Europa il viaggio si rivelerà una via crucis. Spesso scappano da violenze che subiscono nel loro paese, poi subiscono violenze nelle traversate, nei centri di detenzione in Libia, sulle imbarcazioni che le portano in Italia. E pure appena sbarcate, molto vengono costrette a prostituirsi fin dai primi passi sul suolo italiano.

«Le rifugiate sono le più colpite dalla violenza contro le donne rispetto a qualsiasi altra popolazione femminile nel mondo» ha scritto la ricercatrice Silvia Sansonetti in un importante studio sull’integrazione delle donne rifugiate realizzato per il Parlamento europeo nel 2016.

Quest’aspetto delle molteplici violenze subite dalle rifugiate durante tutto il loro viaggio, dalla partenza all’arrivo, non è mai messo sufficientemente in evidenza.

I dati dell’Unhcr dicono che nel 2017 le donne rappresentano solo il 12,6% degli arrivi via mare in Europa (l’11,2 per l’Italia). Ma questa percentuale sale tra le donne che chiedono asilo.
Molte donne rimangono nel loro paese (ancora) non perché non siano vittime di violenze ma perché non hanno alternative. Responsabilità dei figli, scarsa disponibilità economica o restrizioni per il viaggio, sono – ancora per molte catene – che legano alla casa natia.

E allora? I numeri in aumento di donne richiedenti asilo negli ultimi anni – in particolare da paesi che storicamente hanno avuto un flusso quasi totalmente maschile – possono essere letti come un segnale di peggioramento delle condizioni nei paesi di origine, e delle loro gravi ripercussioni sulle donne.

Come significativo, anche in termini numerici, è oggi il caso delle nigeriane, che da anni sono la comunità più ampia di richiedenti asilo in Italia. Nel 2016 sono state 7670 le richieste d’asilo di nigeriane nel nostro paese (2005 quelle delle eritree).

Significativo perché si può dire che rappresentino il bersaglio perfetto di molte delle violenze che subiscono le donne migranti e rifugiate. Spesso vittime di abusi in patria, secondo le stime dell’Oim, circa l’80% delle donne nigeriane arrivate in Italia nel 2016 sono state verosimilmente vittime di trafficking per lo sfruttamento sessuale nel nostro paese o in altri paesi europei, e di violenze e stupri nei campi di raccolta in Libia e durante l’attraversamento del Mediterraneo. L’Europa e l’Italia potrebbero rappresentare un porto sicuro. Potrebbero.

La definizione di rifugiato e il salto di qualità nell’assistenza

«La loro [delle donne] esperienza di persecuzione rimane ridotta a conseguenza di vulnerabilità individuale connotata dal genere, per lo più meritevole di protezione umanitaria, mentre si trascurano le ragioni della persecuzione stessa né si riconosce il valore politico della ribellione delle donne sottesa a ogni forma di persecuzione da loro subita». Lo ha scritto di recente la giurista Ilaria Boiano. Il rifiuto a obbedire a leggi discriminatorie, secondo la Boiano, è ancora molto spesso interpretato dalle commissioni come un comportamento della singola donna, senza motivazioni politiche o ideologiche.

Tuttavia, ormai anche grazie alle linee guide stilate dall’Unhcr anni fa, l’interpretazione della definizione di “rifugiato” contenuta nella Convenzione del 1951 include in maniera crescente la violenza sulle donne come elemento per la protezione internazionale.

Quel che è necessario fare ora è passare dal riconoscimento che molte delle donne che arrivano in Italia attraverso il Mediterraneo sono vittime di violenza all’identificazione dei vari tipi di violenza di cui è costellato il viaggio delle donne migranti. È necessario passare da una grana più grossa a una più fine della conoscenza e quindi delle azioni da mettere in campo.

Non è facile capire quali sono le esigenze di una donna appena arrivata da quello che è quantomeno un faticosissimo viaggio attraverso il deserto prima e il mare dopo. Sicuramente è necessaria un’assistenza medica specialistica, di assistenza psicologica e legale, come comprendere che i bisogni di chi viene da paesi dove si è vittima, per esempio, di mutilazioni genitali femminili, o da chi è vittima di stupri o di persecuzioni religiose.

Oggi manca ancora la catena di trasmissione tra sistema dell’asilo e servizi di assistenza delle donne rifugiate. Passata attraverso il filtro delle commissioni territoriali, vistosi riconosciuta la protezione internazionale, che fine fa la ragazza nigeriana o eritrea? L’Italia è in grado di mettere in moto i servizi di assistenza e di accoglienza necessari? Ancora solo in parte purtroppo.