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Drowned

Intervista all'artista Seba Kurtis

Quando hai deciso di lasciare l’Argentina?
Nel 2001, dopo il crack bancario, lo abbiamo deciso assieme io e mio padre. Mi sono trasferito in Spagna da solo, lavoravo illegalmente, poi uno alla volta la mia famiglia mi ha raggiunto in Europa.

Cosa ricordi di quel periodo?
Nei tardi anni ’90 c’era una corruzione dilagante, presidente era Carlos Saúl Menem. Ogni giorno c’era una protesta e si scendeva in strada, eravamo quasi tutti gruppi indipendenti, mai partiti politici, un riferimento per molti di noi erano le Madri di Plaza de Mayo.
Le banche hanno fatto un accordo con il governo per congelare i soldi della gente quindi, in un certo senso, ci siamo sentiti legittimati ad andare a prenderceli nelle banche. El Corallito, lo chiamavamo, ovviamente i ricchi e le corporation avevano messo i loro soldi al sicuro già da tempo.
La corruzione ha creato un flusso migratorio di massa, soprattutto dei giovani, verso l’Europa.

Come ha reagito il governo, quali sono stati i dispositivi repressivi messi in campo?
Abbiamo una storia recente di dittatura, questo fa si che spesso la violenza dei militari rimanga impunita, questo è un documentario che descrive bene qual’era il clima:

La gente “normale” è scesa in strada, con le pentole di casa e hanno obbligato il Presidente a dimettersi, era l’anarchia e per due giorni abbiamo vissuto senza un Presidente.

Prima di raccontarmi del tuo arrivo in Europa, vuoi dirmi alcuni autori o titoli di libri che circolavano nel movimento in quegli anni?
Per me Eduardo Galeano è stato importante.

Qual’era la situazione per un argentino senza documenti in Spagna nel 2001?
Una merda! Ho iniziato a lavorare nei cantieri assieme a compagni provenienti specialmente dall’Africa sub-sahariana e dalla Colombia, erano tutte imprese in sub appaltato che cercavano gente come noi, senza documenti per poterli pagare metà del salario di un muratore con le carte in regola e alle volte neppure lo facevano.
Quando andavi a lamentarti ti cacciavano dicendo che avrebbero chiamato la polizia. Quando gli impresari delle imprese non riuscivano a placare gli animi arrivavano i raid della polizia e qualcuno veniva deportato.
Era un business come un altro e tutti erano un po’ complici. Da lì è nata l’idea di “Drowned” (trad. Annegato), ascoltavo le storie di ragazzi come me arrivati dal Senegal e dalla Nigeria che avevano perso parenti stretti, amici, famigliari, inghiottiti dall’oceano.

Vuoi parlarmi di questo lavoro? Qual’è stato il processo?
Ho iniziato il progetto in Arizona quando stavano costruendo il grande muro che separa il confine con il Messico, poi sono andato in Egitto e in Libia a ritrarre le persone che cercavano di raggiungere l’Europa, quindi è stato normale attraversare il mare e arrivare nelle isole Canarie.
Drowned” vuole rappresentare chi non ce l’ha fatta, è stato per questo motivo che ho deciso di annegare nell’oceano i negativi prima di svilupparli, erano ritratte persone, paesaggi, i luoghi d’arrivo e di partenza dei barconi.
Quello che vedete è il video che ho realizzato mentre annego i negativi nel mare.

Drowned from seba kurtis on Vimeo.

Quando sono rientrato in Inghilterra e ho sviluppato i negativi in un laboratorio, non sapevo che cosa poteva esser successo, l’acqua salata aveva corroso le immagini, alcune stranamente più di altre, le emulsioni chimiche erano alterate, in un certo senso la rappresentazione fisica della trasformazione che investe le persone che traversano il Canale di Sicilia come lo stretto di Gibilterra.
C’era molto di più in quello che è andato perduto, in quello che il mare si è portato via che in quello che è rimasto.

Ora vivi con tua moglie Clair e i tuoi tre bambini a Manchester nel Regno Unito, si può dire che il tuo status sociale è cambiato rispetto al tuo arrivo in Europa sulle coste spagnole. Perché il tema dell’immigrazione è ancora così fortemente presente nel tuo lavoro e nel tuo territorio di indagine?
E’ stato un periodo di cambiamento, sarebbe facile dimenticarsene, grazie alla fotografia ho trovato il modo di esprimere questa esperienza e di dare un senso a quanto è accaduto a me e quanto sta ancora accadendo oggi. Non l’ho mai vista come un’esperienza negativa, per la mia famiglia è stato un modo per sopravvivere e trovare una condizione migliore. Ma quando vedo cosa accade in Medio Oriente, nel Maghreb e nell’Africa sub-sahariana non posso fare a meno di ricordare. Non so come farò a smettere di lavorare sul tema dello spostamento delle popolazioni da un continente all’altro, in realtà fa già parte di quello che sono.

Vorrei chiederti di spiegare qual è il tuo approccio con il medium fotografico?
Dal principio ho cercato di tirarmi fuori dalla tradizione del reportage fotogiornalistico, era troppo grafico per me, non mi interessano le foto scioccanti. Mi piace di più l’idea di trovare un altro modo per entrare in connessione con le persone, questo è il primo e il più importante dei miei obiettivi, fare in modo che qualcuno che esce da una mia mostra poi possa parlarne, trasmettere un’esperienza, non mi interessa traumatizzare nessuno. Ho iniziato anche a manipolare le immagini con degli interventi, elementi di rappresentazione come l’acqua su “Drowned“.

Annegare il negativo nella stessa spiaggia dove avvenivano gli sbarchi, ho poi fatto una ricerca sui sistemi di sorveglianza che vengono impiegati nelle frontiere, tempi d’esposizione dilatati che riproducono metaforicamente il tempo in cui viene trattenuto il respiro all’interno dei camion e dei container a Calais. Per non essere scoperti si avvolgono la testa dentro ai sacchetti di nylon, di quelli che si usano per la spesa, fino a morirne asfissiati. Oppure i macchinari in grado di intercettare il battito cardiaco, i raggi X.

Vorrei sottolineare che in ogni mio progetto instauro un rapporto con le persone che ritraggo, alcuni sono diventati dei cari amici, altri nel frattempo sono morti, in ogni caso non mi piace lo scatto rubato e poi via.
Anche il collage è un elemento importante del mio lavoro, ho imparato la composizione attraverso il collage, ti fa sentire più libero di manipolare le immagini usare le mani piuttosto che il processo meccanico della fotocamera.

Vuoi parlarmi dei tuoi ultimi progetti?
Il Museo della Fotografia della Normandia (Francia) mi ha invitato a fare una residenza, nel quadro di questa nuova esperienza ho iniziato a collaborare con molte associazioni e mi sto relazionando con gli immigrati che vivono nei “foyers“. Fargli visita, passare del tempo assieme, ascoltare le loro storie è il processo che sto mettendo in pratica per realizzare una grossa mostra che farò in Normandia nel mese di settembre.
In questo momento un tema sul quale sto lavorando sono alcuni test invasivi che stanno facendo sui bambini per determinare l’età biologica di un essere umano, visito dei campi spontanei, dei villaggi come quello di Cherbourgh dove ogni tanto le baracche vengono distrutte o date a fuoco da gruppi di estrema destra.

Fabrizio Urettini

Links utili:
www.sebakurtis.com

Fabrizio Urettini

Sono attivista e art director. Nel 2016 ho fondato Talking Hands, studio artistico permanente che permette alle persone delle comunità di rifugiati di disegnare, creare e vendere prodotti di moda e design.
Talking Hands valorizza la diversità, la comunità, la formazione, il design sostenibile e le pratiche commerciali etiche.