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Essere cambiamento, costruire uguaglianza: in lotta per una realtà possibile – Reportage da Rosarno

di Matteo De Checchi

Foto di Matteo De Checchi - SOS Rosarno

Drosi è una piccola frazione del comune di Rizziconi, provincia di Reggio Calabria, distante una manciata di chilometri da Rosarno. Qui incontro “Ciccio”, arzillo e combattente signore di settantanni; quando gli stringo la mano capisco quanto è importante la sua vita di lotta e dignità per gli altri, gli invisibili. Ciccio, insieme ad una trentina di abitanti di Drosi, dal 2010, anno della oramai famosa rivolta di Rosarno, porta avanti un progetto di ripopolamento del paese che è diventato, di fatto, un villaggio africano; a Drosi vivono tra i 300 e i 600 migranti (variano in base alla stagione agrumicola) completamente inseriti nel tessuto sociale, lavoratori in regola, il vero riscatto di una terra, quella della Piana di Gioia Tauro, che fatica ad accettare gli africani. Gli abitanti del paese mi raccontano che inizialmente non è stato semplice ospitare i braccianti, poi la gente si è abituata a tal punto che oggi molti migranti preferiscono restare tutto l’anno nel paesino della Piana piuttosto che tornare al Nord.
Non è un miracolo, mi spiega Ciccio, abbiamo solo messo in campo il principio della solidarietà verso i nostri fratelli africani, abbiamo puntato sulla cultura e sull’educazione alla dignità, ai diritti e al reddito. Sembrano parole scontate, ma dopo 5 giorni dentro la Jungle di San Ferdinando, mi fanno rispuntare il sorriso.

Torno a Rosarno, per la prima volta contento, ho appuntamento con Nino Quaranta, presidente di SOS Rosarno; Nino mi racconta che, insieme ad altri soci, ha creato l’associazione, attiva nel campo agricolo, per ritornare alla terra, inserire i braccianti africani in un tessuto lavorativo regolare e per finanziare, con una parte degli utili, tutti coloro che lottano per la loro terra, dai NO TAV, ai NO MOUS fino ai combattenti curdi della regione autonoma del Rojava; mi spiega che vogliono essere un esempio concreto, l’inizio di un percorso per tutti i contadini della Piana, un riscatto sociale dalla ‘Ndrangheta e dal degrado della zona.
Lo fisso per più di due ore, lo ascolto, consapevole che in poche altre occasioni, nella mia vita, incontrerò persone così.

Nel primo pomeriggio ho appuntamento con Ousmane Tiam, senegalese, mediatore culturale di Emergency; insieme visitiamo alcuni dei più grandi casolari rurali abbandonati e occupati dai braccianti agricoli africani. Percorriamo una lunga strada sterrata nel paesino di Taurianova, piove e il fango si è impadronito di ogni lembo di terra. In lontananza scorgo un rudere con intorno una miriade di tende costruite con legno e plastica, in mezzo un fuoco con una cinquantina di persone, principalmente maliani e burkinabè. Mi avvicino, ma capisco subito di non essere gradito; in un mix tra italiano, francese ed inglese mi spiegano che si sono stancati di vedere giornalisti fare scoop sulla loro pelle, si aspettavano un cambiamento delle loro condizioni di vita che però, paradossalmente, sono peggiorate. Nel rudere le condizioni igienico sanitarie sono pessime, manca acqua potabile e corrente elettrica. Qui mi rendo conto di essere in una jungle all’interno di un’altra jungle.
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Il lavoro di Ousmane è incredibile: parla con ognuno di loro, cerca di convincerli a lottare e far valere i loro diritti; si avvicina Tiabake, maliano, l’abitante più vecchio del casolare, mi racconta che hanno cercato di autorganizzarsi come una “Big Family”, ad ognuno un compito: recuperare l’acqua, il cibo, cucinare, controllare la casa. Tiabake però è stanco, lavora qualche giornata al mese e fatica a mangiare una volta al giorno. Mi spiega che fino a qualche anno fa il territorio della Piana dava molto più lavoro agli africani che arrivavano dal Nord Italia, dalla rivolta del 2010 la situazione è drasticamente cambiata, si lavora poco e spesso i migranti vengono aggrediti violentemente dalla gente del posto.

Comincia a piovere più forte, Ousmane mi fa cenno di tornare alla macchina; ripartiamo, prende il cellulare, sgrana gli occhi e mi fa vedere la foto della figlia, una ragazzina con le classiche treccine africane. Guardo lo specchietto retrovisore e saluto con lo sguardo i fratelli e le sorelle migranti che ho incontrato in questi giorni, tutti e tutte coloro che lottano quotidianamente al limite della stanchezza e dell’esasperazione.
Un altro mondo è veramente possibile!

Fotografie e video di Matteo De Checchi

Matteo De Checchi

Insegnante, attivo nella città di Bolzano con Bozen solidale e lo Spazio Autogestito 77. Autore di reportage sui ghetti del sud Italia.
Membro della redazione di Melting Pot Europa.