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Europe or die. Sopra i muri di Belgrado

di Claudia Terragni, aprile 2016

Belgrado, marzo 2016

Non sai bene perché parti. Senti che è il momento ma non sai motivarlo. Te lo chiedi, quando ti siedi sul marciapiede fuori dall’Ikea di Padova, sotto il manifesto di “Happen, il tappeto a pelo lungo 80×80”: ma dove pensi di andare? Sai che la destinazione è un campo profughi a Belgrado, hai visto foto, letto articoli di giornale, parlato con qualche volontario che ci è già stato. Passerà a prenderti a breve un pullmino da 9 pronto per affrontare la nottata di viaggio. Sei certo che lo zaino contiene almeno le cose indispensabili: passaporto, qualche soldo, spazzolino da denti… perfetto, sei preparato. No?

Stai per partire con “One Bridge to Idomeni”, un’associazione di Verona nata la scorsa primavera in risposta all’emergenza di Idomeni, il campo profughi non governativo greco venutosi a costruire dopo la chiusura delle frontiere macedoni. Dalla tenda con cui i primi cinque volontari sono partiti per la Grecia, il progetto si è sviluppato e le spedizioni si sono moltiplicate, fino alla fondazione di una onlus vera e propria che si sta diffondendo sempre più rapidamente. L’obbiettivo è costruire un ponte di aiuto e conoscenza, un punto di scambio biunivoco, un flusso di volontari indirizzato verso i campi governativi di Atene e Salonicco nell’estate 2016, e ora anche verso Belgrado.
Oggi anche tu stai per salire su un pulmino bianco che cavalca questa ondata di donazioni e testimonianze.

Belgrado, marzo 2016
Belgrado, marzo 2016

In Serbia ci sono attualmente circa 7.400 rifugiati tra ufficiali e non. I numeri sono in aumento e la maggior parte di loro punta a continuare il viaggio verso altri paesi europei, ma dal momento che i confini di Ungheria e Croazia sono abbastanza impossibili da attraversare, sono spesso costretti a rimanere in Serbia a lungo. A gennaio il responsabile delle operazioni europee di Oxfam, Marco Savio, denuncia il rifiuto del governo serbo di lasciare intervenire le organizzazioni umanitarie fuori dai siti di accoglienza statali. Questo porterebbe ad “incoraggiare” le persone a stare dove sono. Come se ci volessero stare.
Ora per fortuna le ONG come “OBTI” hanno più spazio di azione.

L’associazione opera in due dei centri di Belgrado: Obrenovac e le baracche della stazione centrale. Obrenovac è un campo governativo ufficiale gestito dal governo, che ospita circa 570 profughi. I volontari di solito non sono autorizzati a entrare tranne che per servizi di ristorazione. Il secondo è un campo non governativo situato dietro la stazione ferroviaria, che è dove ha lavorato il gruppo con cui sono partita.

Arrivati alle barracks della stazione la prima cosa che ti colpisce è la puzza. Apri il portellone del furgoncino e un odore di sporco, fogna e rifiuti ti inonda. “Dio mio che schifo”. Ma sei troppo frastornato dall’allegra notte di viaggio per pensarci e comunque c’è un sacco di lavoro da fare e non hai molto tempo per lasciarti impressionare. Da subito iniziamo a servire le colazioni. Quasi l’intera alimentazione dei migranti si basa sui pasti forniti da associazioni come “OBTI” o “Hot Food Idomeni” che riceve aiuto dall’associazione veronese sotto forma di volontari per la sua cucina.

Belgrado, marzo 2016
Belgrado, marzo 2016

La fila è lunghissima: i capannoni e le baracche abbandonate ospitano più di 1500 persone, anche se i numeri sono estremamente variabili. Controlli che nessuno superi o si infili nel mezzo della coda sorpassando gli altri. Hai un po’ di tempo per guardare i migranti. Sono sporchi. I capelli unti, i vestiti mezzi rotti, i piedi luridi. Tutti ti guardano e alcuni scambiano due parole con te. Spesso ti squadrano dalla testa ai piedi e il “goodmorning” suona più come una proposta di matrimonio che come un saluto. La maggior parte di loro è costituita da Afghani e Pakistani, in gran parte musulmani. Alcuni non alzano lo sguardo da terra, chiusi sotto al cappuccio della felpa e con gli auricolari ben piantati nelle orecchie. Altri ridono e scherzano come se fossero in coda per entrare al luna park.

Appena hai un momento dai un’occhiata dentro ai capannoni dove vivono.
Due anni fa sono stata ad Auschwitz. Ho provato lo stesso pugno nello stomaco. Preciso, duro, inesorabile, spietato. “Illusa! Pensavi di essere pronta a partire eh?
Non è irrilevante la somiglianza con le baracche di Birkenau. A parte il fatto che ovviamente quelle del campo polacco sono vuote. Nessuna tenda rotta, materasso impregnato di sporco e nessun ragazzo intento ad accendere piccoli fuochi con le traversine tossiche dei vecchi binari. Non ci sono casi di scabbia a Birkenau.

Ma anche adesso non hai tempo di lasciarti turbare: finita la distribuzione si vola nella cucina di “Hot Food Idomeni” a una decina di minuti di auto e anche lì le cose da fare non mancano di certo.

Questa organizzazione è un gruppo non politico nato a Idomeni come “OBTI”, con lo scopo di supportare i profughi offrendo pasti caldi ogni giorno. Nel campo greco servivano quotidianamente 4.500 pasti caldi, collaborando e coordinandosi con “Medici Senza Frontiere”, “UNHCR” e “Drop in the Ocean”. Anche loro seguono il fluire delle emergenze sulla rotta balcanica e ora il loro supporto si è trasferito anche a Belgrado, dove si cucinano pranzi e cene in possenti quantità, per 1500 bocche da sfamare.

Come volontario ti ritrovi in men che non si dica a pelare zenzero e sbucciare cipolle, circondato da altri giovani provenienti da tutto il mondo (Spagna, Regno Unito, Svizzera, Germania, persino Australia e Cina!). I ritmi sono frenetici e non c’è un secondo da perdere, le persona sguizzano di qua e di là portando pentoloni enormi e cassette di mele. Paradossale la straordinaria pace che si respira in questo posto: nonostante la disumana mole di lavoro nessuno è stressato o irritato. Tutti sono sereni, sei accolto con sorrisi a 32 denti, con un calore e una gioia incredibili. C’è uno scambio di energia mozzafiato, un vortice di sguardi luminosi, pacche sulle spalle e piatti da lavare.

Belgrado, marzo 2016
Belgrado, marzo 2016

Solo in ostello, sotto una doccia calda, inizi a realizzare le informazioni che fino a quel momento solo il tuo corpo aveva assimilato. Poco alla volta anche la mente inizia a elaborare le immagini, i volti, gli odori, le percezioni e le impressioni raccolte durante la giornata. Ci rimani per un po’, sotto la doccia, zitto. Il getto d’acqua scorre ma il grumo di capelli nello scarico non le permette di scendere giù. Come la tua testa e le tue stupide domande irrisolvibili, che da poche gocce diventano all’improvviso una cascata, che il tuo piccolo scarico non è pronto ad affrontare. Non riescono a scendere, aumentano, crescono, crescono e non sgocciolano, ti annegano la testa. Non ti capaciti che sia reale tutto questo.

Nel campo ci sono persone col naso storto da quando gli hanno sfasciato la faccia durante il tentativo di attraversare il confine con l’Ungheria. C’è un volontario che è diventato una sorta di personal trainer dei profughi: li allena a passare dall’altra parte. Sembra una barzelletta, ma se non corri più veloci dei cani che la guardia di frontiera ti sguinzaglia dietro, non fai una bella fine.

Europe or die” hanno scritto in molti sui muri delle baracche, quando abbiamo portato vernice e pennelli per dipingere le pareti del campo. Europa o morte.
E ci muoiono davvero.

C’è gente laureata, gente che ti mette a disagio perché parla inglese mille volte meglio di te. Ci sono uomini adulti, ragazzini e bambini. Poche famiglie, quelle preferiscono i campi governativi dove qualche servizio è garantito, almeno in teoria.

Domenica sono arrivati due pargoletti di non più di 10 anni. Stavano costruendo una trappola per i piccioni con un pezzo di legno e del filo spinato, nelle loro scarpe numero 42. C‘è un gruppo di ragazzi sordo muti che riesce a comunicare meglio di molti altri, che disegna la mano che fa un gesto nella lingua dei segni: “amore”. Un uomo di almeno quarant’anni scrive “I love you mum” su quel maledetto intonaco fatiscente. Sente il bisogno di dire alla sua mamma che le vuole bene e forse può farlo solo scrivendolo su un muro in rovina che sarà buttato giù da una ruspa tra poche settimane, a chilometri di distanza da casa in una terra straniera e inospitale, perché forse alla frontiera gli hanno rubato il cellulare oltre che documenti e dignità. Può fare affidamento solo su sé stesso da troppo, rischiando tutto, e forse ora gli manca non avere paura, potersi addormentare senza il terrore che scoppi l’ennesima rissa notturna, come quando da piccolo poteva assopirsi beato nel grembo di mamma che lo cullava sussurrandogli una dolce ninnananna pashtun. Il mondo è crudele, figlio mio.

Quelle che ora ricoprono il campo della stazione di Belgrado sono le scritte più rumorose che abbia mai letto. Urlano speranza, urlano dolore, squarciano quelle luride pareti infamanti ed esplodono in grida di battaglia. Sbraitano della determinazione di chi invoca il diritto di cercare una vita migliore .

Il giorno in cui siamo partiti per Belgrado era il mio compleanno. Un ragazzo mi ha offerto metà della brioche al formaggio che aveva appena ricevuto per colazione. Non avrei potuto ricevere un regalo migliore.

Claudia Terragni
https://amelespiegate.wordpress.com