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da Il Manifesto del 22 giugno 2008.

54° Festival di Taormina – Vince Ibrahim Batout, egiziano indipendente

di Valentina Frate dal Cairo

Un film egiziano diretto da Ibrahim el Batout, Ein Shams (L’occhio del sole) ha vinto il 54° festival di Taormina. La giuria, presieduta da Ozpetek, ha premiato anche la performance di Tanja Ribic (Trattore, amore e rock’n’roll di Branko Djuric, Slovenia) e Il libro estivo di Seyfi Teoman (Turchia).
L’apparato di censura egiziano ha cercato di impedire con ogni mezzo la distribuzione del film vincitore, finché, nel maggio scorso, ha ceduto alle pressioni. Ma soffermarsi troppo sui burocratici misteri finirebbe per assecondare quell’erronea impressione che in Egitto, e nel Medio Orientale, non ci sia speranza che le cose migliorino o cambino dall’interno. Ein Shams, film unico nel suo genere perché mescola magistralmente finzione e documentario, incarna una nuova generazione di artisti egiziani indipendenti che, come il regista el Batout, vogliono costruire un’alternativa alla miseria e sofferenza a cui il loro destino e quello della loro società sembrano incantenarli.

Non è un caso che questo film sia stato creato da egiziani.
L’industria cinematografica del paese è la più antica e importante della regione (il primo lungometraggio egiziano, Layla, è del 1927). Questa nuova generazione, erede di una lunga tradizione artistica che passa anche per Youssef Chahine, dispone di conoscenze tecniche e narrative sofisticate. Grazie a loro oggi il cinema resiste alla commercializzazione imperante, si fa indipendente e risponde alla crisi, cominciata con la strapotenza televisiva e rafforzata dalle politiche di privatizzazione che rendono i film nazionali ancora più vulnerabili, in un mercato globale in larga misura dominato da Hollywood.

Nel 2004 Ibrahim el Batout, per quasi 20 anni cameraman di guerra, torna in Egitto. È in crisi dopo un documentario sulle fosse comuni in Iraq. Ha perso la voglia di filmare. Il suo lungo viaggio, di guerra in guerra, lo ha profondamente cambiato e si rende conto di aver maturato quello che Weber chiamerebbe il disincanto del mondo.
È da questa esperienza dolorosa dell’alterità e dell’assurdità del mondo contemporaneo che el Batout ricomincia a immaginare altro … scrive e produce Itaca, a cui segue Ein Shams. Senza budget, lontano dal star-system egiziano, fin dall’inizio el Batout conta solo su un gruppo di amici artisti, professionisti o aspiranti tali, anche più squattrinati di lui, che credono nei suoi progetti. In pochi anni el Batout diventa quello che un amico regista comune, Amr Bayoumi, definirà «il padrino del cinema indipendente». Fa già scuola e insegna agli aspiranti cineasti che tutto è possibile con poco o niente, e a volte può bastare la videocamera di un cellulare.
Con Ein Shams el Batout si era posto l’obiettivo di creare un film accessibile a tutti grazie a personnaggi che incarnano le contraddizioni, i sogni e la sofferenza di chiunque viva in una società come quella egiziana. C’è riuscito grazie alla telecamera digitale e alla voce narrante, il rawy della tradizione araba, di cui non conosceremo mai né il nome né il viso. Ein Shams è una discesa nell’infernale vita di uomini e donne involontariamente legati gli uni agli altri da una serie di avvenimenti e situazioni di cui non sembrano nemmeno essere pienamente coscienti.
Il film comincia nelle strade del Cairo dove lavora, tutte le notti, un tassista, Ramadan, padre di una bambina, Shams, un altra protagonista. Il centro del mondo si è spostato – sembra spiegarci il film fin dall’inizio – e tutte le strade questa volta portano in Iraq… Grazie al materiale documentario originale, riviviamo la disperazione e la lotta per la sopravvivenza della gente in quel paese sotto occupazione, dove non contrarre malattie è quasi impossibile. È qui una delle chiavi su cui si costruisce il film: vivere è diventato impossibile, grida sommessamente la gente comune di questa parte del mondo. Le stesse malattie, la stessa acqua e cibo inquinato, la stessa violenza di stato le ritroveremo anche in Egitto, dove si svolge il resto del film, in uno dei quartieri-città più poveri del Cairo, nelle strade dove el Batout fu ferito, 20 anni fa, mentre filmava le rivolte contro la polizia e nelle case dove gli fornirono i primi soccorsi.

Ein Shams si basa su di un immaginario condiviso al di là dei confini nazionali e culturali, e el Batout è riuscito a ricreare una coerenza logica all’interno di uno stock d’immagini e storie che potrebbero non avere niente in comune tra loro.
C’è chi sogna di partire per l’Italia, chi invece ha fatto del suo viaggio un incubo, chi scappa per sfuggire ai debiti e chi resta per gridare giustizia o semplicemente continuare una guerra di soppravvivenza.
C’è spazio per l’ipocrisia e la corruzione negli sfondi di Einshams, ma anche per l’amore, incarnato da una madre (la bravissima Hanan Youssef) che come Maria, incapace di difendere i suoi figli dal dolore, non può che vederli finire in croce. Ibrahim el Batout spiega che il destino dell’umanità è uno e unico, inutile chiudersi in fortezze che danno solo un’illusione di sicurezza. La disperazione del resto del mondo continuerà a bussare alle porte. O forse è già dentro casa.