Per la libertà di movimento, per i diritti di cittadinanza

Frank non ce la fa più!

Frank, ghanese di 36 anni, libraio di Padova, vittima di un “ordinario” episodio di razzismo in una regione, il Veneto, dove l’intolleranza è ormai di casa

Raccontare il Nord Est d’Italia è come immergersi nel classico goto de bianco, l’ombra veneta per eccellenza. Il Veneto è proprio questo, un bicchiere di vino raffermo che può, allo stesso tempo, dissetare e dare una certa ebrezza o provocare un mal di stomaco impertinente.
La pianura veneta è oggi un’interminabile susseguirsi di fabbriche, piccole zone industriali, qualche campo di terra (a dire la verità sempre meno, l’agricoltura della regione è oramai al collasso), villette nuove o ristrutturate, villone di ex ricchi costruite nel boom economico dagli anni Ottanta in poi quando la casa iniziò a diventare lo status simbol per eccellenza, e tangenziali a tante corsie che collegano le caotiche città padane.
Da sempre terra di bonaccioni, del voemose ben, ma solo ed esclusivamente tra di noi, i paroni a casa nostra, il Veneto bianco e democristiano ha abbracciato sin da subito il celodurismo bossiano degli anni Novanta (purtroppo restano tristemente famosi i raduni leghisti a Venezia) all’urlo “Fuori i terroni” con campagne xenofobe articolate tra una fantozziana richiesta d’indipendenza da “Roma ladrona” per la creazione dello stato padano ad alcuni gruppuscoli di “Ronde Padane” armati di fischietto e casacca mimetica.
Ma il vademecum leghista del buon padano non entrò in pianura per caso o come una novità del momento, la terra era già stata coltivata da una serie di movimenti indipendentisti, sorti in particolare nella provincia di Padova e di Venezia, che giocavano a fare la guerra con carrarmati di cartone e biglie da spiaggia. Nel giro di pochi decenni si è passati da richieste di indipendenza a favore della Serenissima Repubblica di Venezia (sic!), a richieste di indipendenza per la Padania libera, ad una secessione regionale, ad una macroregione autonoma con il Friuli e il Trentino (pieni de schei, quindi ben accetti) per arrivare, e qui siamo ai giorni nostri, ad un disincantato amore per il leader leghista che non perde occasione per rifocillarsi in tutte le sagre venete con felpe a dir poco disgustose e che si richiama all’improbabile motto fascista “Italia agli italiani”.
Insomma, se con la geografia i veneti (non tutti, per fortuna) hanno sempre fatto fatica, si sono invece sempre dimostrati i primi della classe in materie quali l’educazione civica, nel senso stretto del termine educere, “tirar fuori”, ovviamente da casa nostra, prima i terroni, poi gli albanesi, poi i rumeni, gli zingari, i “Negri” e, da qualche anno a questa parte, una categoria di nuovi rompiballe, i “profughi”.
Ora, non voglio parlare troppo male di una terra che amo e dove ho passato metà della mia vita, esistono anche una serie di realtà antirazziste che con coraggio lottano quotidianamente in strada ma, il povero Frank Afrifa, ghanese, in Italia da più di vent’anni, è capitato in un paesino della campagna veneta, Arre, che incarna da vicino i solidi ideali veneti costruiti negli ultimi quarant’anni.
Frank è un libraio, sposato, con due bellissimi bambini, ogni mattina prende l’autobus blu e percorre quaranta minuti di campagna per aprire la sua piccola libreria in centro a Padova, una libreria universitaria vecchio stile dove il profumo della carta ti avvolge ancora prima di aprire la porta. Non è il Ghana, certo, ma alla fine Frank sta bene, si è laureato e sta realizzando, non senza difficoltà, le sue passioni.
Giovedì scorso Frank prende il solito autobus, guarda dal finestrino il sole tramontare, arriva ad Arre, scende e inforca la bicicletta pronto per tornarsene a casa; nel tragitto passa davanti ad un bar del paese, fuori siedono alcune persone, una donna comincia ad urlargli “Sciò, tornatene a casa tua”, lo ripete diverse volte. Frank continua a pedalare, poi si ferma e pensa “No, questa volta no!”. Gira la bicicletta e va incontro alla donna, chiede spiegazioni, non ha il diritto di mandarlo da nessuna parte. Nel frattempo arriva un uomo che, dando manforte alla donna, scaraventa Frank giù dalla bicicletta, lo spinge con violenza contro un’auto e continua ad insultarlo pesantemente.
Frank a quel punto decide di stare zitto, chiama l’ambulanza, si fa medicare e riceverà diversi giorni di prognosi; ha subìto l’aggressione perché “scambiato” per un profugo del vicino Centro di accoglienza del comune di Bagnoli. 
Solo qualche quotidiano locale riprende la notizia, si parla di “equivoco”, di lite, scaramuccia. 
Frank è stato fortunato, oggi queste cose le può raccontare, a differenza di Emmanuel Chidi Nnadi, il 36enne nigeriano brutalmente ucciso nel centro di Fermo, il 5 luglio scorso, da Amedeo Mancini, ultras dell’estrema destra; la dinamica delle due aggressioni risulta infatti molto simile come il comportamento dei tanti giornalisti prezzolati che, dall’alto della loro codardia, evitano scientemente di nominare la parola razzismo.
Frank è uno dei primissimi casi, se non il primo, di razzismo contro un italiano scambiato per un profugo con la pelle nera, un esempio lampante di decenni di Paroni a casa nostra. Schei, sottocultura, mal informazione, razzismo e ataviche paure hanno generato un Veneto sempre più violento e discriminatorio eredità non così lontana dei basa banchi cattolici che, una volta usciti dalla messa domenicale, usavano la cintura contro moglie e figli in nome del dio che avevano pregato fino a qualche minuto prima. 
Chi ha aggredito Frank si è sentito legittimato a farlo grazie ad una serie di pericolosi discorsi razzisti di politici locali e nazionali che, parlando alla pancia della gente, speculano per racimolare qualche manciata di voti. Loro sono i veri mandanti di queste aggressioni di stampo razzista.
Detto questo, una parte delle persone che vive nel Nord Est è “sana” e pensante. E allora, proprio questa parte di società ha il dovere di interrogarsi profondamente sui significati e le pratiche dell’accoglienza, di riconoscere e arginare razzismi e intolleranze e di lavorare su quei collanti sociali che, sempre più spesso, sembrano essere saltati.
Restiamo umani!

Matteo De Checchi

Insegnante, attivo nella città di Bolzano con Bozen solidale e lo Spazio Autogestito 77. Autore di reportage sui ghetti del sud Italia.
Membro della redazione di Melting Pot Europa.