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Frutta sporca. La Calabria tra schiavitù e nuove forme di lotta

Un report dall'evento "Rosarno città aperta"

A Rosarno non si torna per il mare e tantomeno per visitare l’antico centro storico, fulcro di una delle più antiche polis della Magna Grecia.
La città pullula di vecchietti seduti fuori dai bar intenti a chiacchierare e controllare ogni minimo dettaglio di una vita lenta e monotona. Le strade però rivivono con lo sfrecciare delle biciclette dei braccianti africani, unico mezzo di trasporto che consente loro di spostarsi tra le jungle, i ghetti invisibili, e i paesi della Piana ricordando, in un certo qual modo, i contadini veneti che, prima di essere spediti in una folle guerra, giravano le campagne con biciclette nere tra paesaggi umidi e nebbiosi.
Ritorno a Rosarno a due settimane dal mio primo reportage, quando avevo camminato tra disperazione e povertà estrema. Questa volta MEDU, Medici per i Diritti Umani, e SOS Rosarno organizzano due giorni di musica tra la tendopoli e il centro del paese per far in modo, mi raccontano, che la musica diventi finalmente un ponte tra le culture, per unire idealmente i rosarnesi con gli africani, per ridare dignità, anche solo per un weekend, a chi vive nella totale invisibilità. Decido di partecipare per riprendermi un po’ di umanità.
“Rosarno città aperta” è il nome dell’evento che è servito, tra le altre cose, a denunciare le violenze contro i braccianti agricoli provenienti dall’Africa. Violenza spesso sottaciuta e dimenticata perché coinvolti i “Negretti”, come si dice da queste parti, notoriamente attaccabrighe irresponsabili. Le ultime aggressioni sono del dicembre 2015, tre ragazzi stanno tornando verso la tendopoli di San Ferdinando, rigorosamente in bicicletta, la luce del sole ha appena lasciato il posto all’implacabile oscurità di una zona industriale spettrale e semi abbandonata, si ferma una macchina, esce una persona che comincia a sprangare gli africani; loro scappano, feriti e spaventati. È solo l’ultimo di una serie di episodi uniti tra loro da un fil rouge alla prima “rivolta di Rosarno“, nel 2010, quando i braccianti erano stati colpiti da diversi colpi sparati da una pistola ad aria compressa. Violenza gratuita che aveva scatenato le ideologie più retrive e xenofobe, una caccia al nero che, solo per caso, non aveva provocato il morto. Lo Stato, in quel frangente, rispose con una vergognosa deportazione di tutti gli stranieri della Piana dirottandoli fisicamente verso Nord e lasciandoli in balia del loro destino; oggi, invece, lo Stato latita e si limita, nella migliore delle ipotesi, a rifinanziare con quattro soldi una nuova tendopoli. Non una parola sulle violenze.
Rosarno è il paradigma di quello che sta succedendo a livello nazionale e, in qualche modo, racchiude le grandi problematiche legate allo spostamento di interi popoli. È visibile una “guerra tra poveri” generata da politiche migratorie demenziali e legate esclusivamente al recupero di qualche voto che, di fatto, ha creato una totale marginalizzazione, il tutto in una terra ad altissima densità mafiosa e dove il sistema capitalista ha imposto prezzi ridicoli di un frutto, l’arancia, che fino a qualche decennio fa era un vanto per la Piana.
Le arance raccolte dai braccianti sfruttati vengono vendute dalla grande distribuzione ad un prezzo da fame portando sul lastrico, di conseguenza, anche gli agricoltori calabresi. È un circolo vizioso dove la colpa è sempre “degli altri” ma poi a lottare, sul campo, restano in pochi.
E Rosarno è solo la punta dell’iceberg. Almeno nell’ultimo decennio, l’emigrazione Nord-Sud, basata sul lavoro dei campi, ha comportato la formazione di ghetti, più o meno inseriti nel contesto urbano, nell’intero Meridione d’Italia. La frutta e la verdura che siamo abituati a comperare è passata tra le mani dei braccianti magrebini della Valle del Sele, dei contadini africani che vivono nelle jungle lucane o pugliesi, dei senegalesi che si spezzano la schiena sotto il caldo sole siciliano. Lavoro in nero, sottopagato, zero diritti e zero dignità, condizioni abitative al limite, totale mancanza di servizi minimi, caporalato e mafia. Una bomba ad orologeria pronta ad esplodere in qualsiasi momento.
Il Sud oggi è anche questo, un insieme di piantagioni che nulla ha da invidiare ai bianchi campi di cotone dell’America dove lavoravano gli schiavi di colore almeno fino alla metà dell’Ottocento.
A Rosarno quel bianco può essere l’arancione delle clementine o il verde dei kiwi, poco cambia! Restano loro, i nuovi schiavi, che ci stanno consegnando una nuova lotta a cui mirare, un nuovo Mondo da costruire.

Matteo De Checchi

Insegnante, attivo nella città di Bolzano con Bozen solidale e lo Spazio Autogestito 77. Autore di reportage sui ghetti del sud Italia.
Membro della redazione di Melting Pot Europa.