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È il 2012 e Steve ha 27 anni. Vive in Gambia, e lavora in un prestigioso albergo nel quale ha appena ricevuto un promozione. Le cose sembrerebbero andare per il verso giusto, se non fosse che quel mercoledì, giorno libero per lui, arriva la notizia. Sono i suoi amici a comunicargliela: girano voci che lui sia omosessuale. “Rumors” che suonano come una condanna a morte, e in effetti lo sono quasi.

Siamo seduti al tavolo della mensa in cui mangiano i richiedenti asilo come lui, quando mi racconta la sua storia. È un ragazzo grande e grosso con la passione per il calcio, e due occhi grandi e scuri nei quali è possibile leggere contemporaneamente gioia e tristezza.
Dicevano che ero gay – racconta – e son dovuto scappare”. Essendo il Gambia una lingua di terra interamente circondata dal Senegal, non poteva che essere quest’ultimo il suo primo approdo.
In Gambia non ci sono problemi, nemmeno la religione lo è. Cristiani e musulmani convivono serenamente. Solo Yahya Jammeh, il presidente, lo è. Lui è il nostro unico problema”.
In carica dal 1994, quando assunse il potere con un golpe militare, Jammeh decide della vita dei suoi cittadini in maniera arbitraria e tramite persecuzioni personalistiche e cruente che hanno in tantissimi casi la stessa ragione: omosessualità. Un’accusa tanto assurda in quanto tale, quanto facilmente sostenibile per sua natura, spesso peraltro totalmente infondata come nel caso del ragazzo.
Steve scappa quindi in Senegal, dove resta circa sei mesi durante i quali matura l’idea di trasferirsi in Algeria, per ricominciare lì la sua vita. Lascia a casa la sua famiglia di origine, ma il padre, affetto da problemi di cuore, morirà in questi primi mesi di assenza del figlio.
La vita, però, non va sempre come la si programma e, alla fine, le condizioni sono tali per cui Steve lascia il Senegal per attraversare il Mali, il Niger e arrivare in Libia, a Sabha. Scappato alla prigione gambiana, si ritrova nella prigione a cielo aperto del deserto libico, uno dei principali punti di concentrazione delle numerose carovane di disperati che attraversano il Sahara per raggiungere gli stati mediterranei dell’Africa.
Non potevo scappare – racconta adesso con un quasi sorriso – o mi avrebbero sparato e ucciso. Lavoravo nei campi tutto il giorno, senza una paga, ma ricevendo solo del cibo due volte al giorno”. Ha passato così circa due anni, durante i quali le giornate sono state scandite unicamente dai ritmi assurdi di un lavoro in condizioni disumane, minacciato costantemente da aguzzini senza scrupoli, in una terra profondamente razzista nei confronti dei neri provenienti dalla fascia sub sahariana e in cui il crollo del regime di Gheddafi non ha certo aperto la strada a un miglioramento.
Ma sono gli stessi organizzatori del campo di lavori forzati a offrirgli, involontariamente, l’occasione di fuggire. Steve viene infatti trasferito dopo un po’ di tempo a Tripoli per continuare a lavorare come schiavo, ed è in una strada di questa città che finalmente, un giorno, sente un dialetto familiare. È wolof, la lingua parlata da molti senegalesi e gambiani. È sufficiente a convincerlo a farlo entrare in contatto con queste persone, che si offrono di aiutarlo. Gli danno appuntamento e passano a prenderlo. Steve salirà finalmente su uno di quei barchini della fortuna senza nemmeno sapere dove sia diretto. Ma quando non si ha più nulla da perdere, lasciare la via vecchia per la nuova non appare più tanto azzardato.
Passa su quella barca un giorno e una notte, per essere poi caricato a bordo di una enorme nave militare che batte bandiera norvegese. “Pensavo stessimo andando in Norvegia – racconta – non avevo idea di dove esattamente mi trovassi. Ma quando ho visto la scritta CAGLIARI ho capito. Ricordavo che il Cagliari era una squadra della Serie A italiana dai tempi in cui vivevo in Gambia e potevo seguire il calcio, ma arrivato qui ho scoperto che era passato in Serie B”. Sorride mentre racconta questo piccolo dettaglio.
Ma l’epilogo della storia che ha come scenario l’Africa, è in realtà solo il prologo della nuova vita che avrà come sfondo l’Italia.
Dopo tutto questo tempo ha anche ripreso i contatti con la madre, rimasta vedova in Gambia. Le invia e riceve notizie tramite amici che le sono vicini e che sente via internet. Ha ancora contatti indiretti con lei, che sottolineano come anche dopo anni di assenza ci si senta poco sicuri in quella minuscola lingua di terra incastonata fra il Senegal e l’Oceano Atlantico.
Per il resto racconta di essere contento di vivere qui, spera di poter creare nel belpaese le condizioni per una vita definitiva, sempre che ottenga lo status di rifugiato.
Con una delicatezza che sembra sempre in contrasto col suo fisico corpulento, mi ringrazia, come fossi stata io a fargli un favore ascoltandolo. Ma è esattamente il contrario.

07/01/2016
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Per approfondire la situazione politica del Gambia si consiglia la lettura di questa importante sentenza:

Riconoscimento della protezione sussidiaria in favore di un cittadino del Gambia: il suo Paese è sotto un regime dittatoriale