Per la libertà di movimento, per i diritti di cittadinanza

Da Il Manifesto del 18 settembre 2014

Gaza perde i suoi figli

Reportage di Michele Giorgio

Una nuova cata­strofe sta emer­gendo dalle mace­rie dei bom­bar­da­menti israe­liani di luglio e ago­sto su Gaza. «La nostra è una vita in pri­gione – spiega Abdel Halim Qudaih, di Khu­zaa, uno dei cen­tri abi­tanti più col­piti dagli attac­chi delle forze armate israe­liane — non c’è lavoro, non ci sono pro­spet­tive per i gio­vani, gli israe­liani ci bom­bar­dano, la nostra casa è stata distrutta a metà. Per i miei figli, tutti lau­reati, l’unica strada è la fuga da Gaza, dall’oppressione, dalla mise­ria, verso paesi che pos­sono offrire un lavoro, la dignità a noi pale­sti­nesi». Abdel Halim elenca i figli: Maa­ta­sem, Ahmad, Amir, Moham­med. Al momento di pro­nun­ciare il nome del quinto, Hamada, si com­muove. Hamada era sui quei bar­coni di migranti che nei giorni scorsi hanno pro­vato a rag­giun­gere le coste ita­liane ma sono finiti in fondo al mare. «Quei disgra­ziati, abbiamo letto, hanno cer­cato di ucci­derlo assieme a tutti gli altri (migranti), hanno spe­ro­nato la sua barca – dice Abdel Halim Qudaih, con la voce rotta dall’emozione, rife­ren­dosi agli sca­fi­sti -, non abbiamo noti­zie di Hamada da una set­ti­mana ma noi spe­riamo ancora».

Pre­gano per i loro figli tante altre fami­glie. I Masri non sanno più nulla di 15 parenti saliti sui bar­coni affon­dati. Oltre 20 sono i dispersi della fami­glia Abu Bakr. Un destino ter­ri­bile quello degli Abu Bakr. A luglio quat­tro dei loro bam­bini furono uccisi dal fuoco della marina mili­tare israe­liana sulla spiag­gia di Gaza city. Le scene di quei pic­coli corpi anne­riti por­tati via dalle ambu­lanze in un estremo e vano ten­ta­tivo di strap­parli alla morte, sono rima­ste impresse per giorni nella mente di milioni di per­sone in tutto il mondo. Ma tanti, troppi, le hanno già dimen­ti­cate, come quelle delle decine di fami­glie di Gaza deci­mate dai bom­bar­da­menti andati avanti per 50 giorni. La Gaza sim­bolo dell’oppressione del popolo pale­sti­nese ora viene guar­data come un ter­ri­to­rio col­pito da un ter­re­moto e non da un mar­tel­la­mento a tap­peto di arti­glie­ria e avia­zione, spe­cie nelle sue zone orien­tali tra­sfor­mate in cumuli di macerie.

A pro­po­sito. L’Anp di Abu Mazen, Israele e l’Onu hanno rag­giunto un accordo per la “rico­stru­zione di Gaza”. Vie­tato il coin­vol­gi­mento di Hamas, pena l’interruzione del “flusso di aiuti”, anche se il movi­mento isla­mico era e resta il governo di fatto nella Stri­scia. Alle Nazioni Unite spet­terà moni­to­rare che l’ingresso dei mate­riali da costru­zione, in modo che non siano usati per “fini mili­tari”. In realtà è un accordo tem­po­ra­neo che per­met­terà l’ingresso a un numero di auto­carri tre volte più alto di quello attuale, però ancora insuf­fi­ciente a garan­tire una rico­stru­zione rapida. Anche a que­sto ritmo ci vor­ranno anni per ridare una casa a circa 100 mila pale­sti­nesi. Lo hanno capito gli abi­tanti di Shu­jayea – il quar­tiere orien­tale di Gaza city distrutto per un 50% dall’esercito israe­liano — che si sono rifiu­tati di rice­vere decine di “case mobili” (2 stanze, gabi­netto e cuci­notto) rega­late dagli Emi­rati. Motivo? Temono di rima­nerci den­tro per anni, come accade ai ter­re­mo­tati in molte parti del mondo. Ma que­sta non è una emer­genza uma­ni­ta­ria, è la con­se­guenza di una offen­siva mili­tare deva­stante e a Sha­jayea come in tutta Gaza con­ti­nuano a chie­dere solu­zioni poli­ti­che vere, la libertà e la fine del blocco israe­liano. Le case mobili andranno tutte a Khuzaa.

Dai cumuli di mace­rie scap­pano i migranti di Gaza. Si fa fatica a defi­nirli migranti i pale­sti­nesi della Stri­scia che a migliaia, pas­sando per l’Egitto, pro­vano ad andare in Europa seguendo flussi migra­tori più con­so­li­dati dall’Egitto e dalla Libia. Pagano tra i 3 e i 4 mila dol­lari, 500 dei quali ser­vono per ungere gli agenti della sicu­rezza egi­ziana che devono garan­tire l’arrivo senza pro­blemi ad Ales­san­dria e altre loca­lità sulla costa Medi­ter­ra­nea. A Khan Yunis, c’è anche un “uffi­cio mobile” (nel senso che ogni giorno è in posto un diverso) di un traf­fi­cante locale di esseri umani. Si passa per i tun­nel sot­ter­ra­nei con il Sinai rico­struiti di recente, o anche in super­fice, se si ottiene il visto, per il valico di Rafah. Infine si tenta di arri­vare in Europa, assieme a siriani ed egi­ziani. E’ un feno­meno nuovo per la gente di Gaza, ma desti­nato a cre­scere, pre­ve­dono tutti. «Non scap­pano solo i più emar­gi­nati – ci dice Sami Ajrami, un gior­na­li­sta – in realtà chi è dispo­sto ad affron­tare il mare spesso ha una lau­rea e alle spalle una fami­glia che ha cer­cato di costruir­gli un futuro. Sono pale­sti­nesi gio­vani, ma non solo, che sognano una vita diversa da quella che hanno sem­pre fatto, che scap­pano da una pri­gione, che non dimen­ti­cano la loro terra ma che ten­tano di cam­biare la loro esi­stenza». A Gaza nes­suno con­danna que­ste per­sone, tanti altri pen­sano di imi­tarle, di ten­tare la fuga verso l’Europa. Non manca però chi fa notare che fug­gire fa il “gioco” dell’occupante israe­liano. Distru­zioni, morti, feriti e man­canza di pro­spet­tive – dicono i più cri­tici — spin­gono i pale­sti­nesi ad abban­do­nare e, di fatto, a rinun­ciare a lot­tare per un futuro diverso per tutta la gente di Gaza e non solo per poche migliaia.

Scap­pano anche donne e bam­bini, intere fami­glie. Tra i pochi super­stiti certi del nau­fra­gio costato la vita a cen­ti­naia di per­sone ci sono pro­prio due donne, una delle quali si chiama Nour Farad, assieme a una bimba e un bimbo. Tutti erano rico­ve­rati all’ospedale di Palermo e stanno bene. Per gli altri le spe­ranze di ritro­varli in vita sono pochis­sime. Non si fa illu­sioni Samir Abu Toa­meh di Bani Suheila. «Non so più nulla di mio figlio Ibra­him – dice ormai ras­se­gnato – so che dif­fi­cil­mente riu­scirò a rive­derlo. Dove avevo mai la testa quando ho con­sen­tito la sua par­tenza? Non dovevo per­met­terlo ma sognavo per lui un’altra vita. Non abbiamo nulla, nes­suno dei miei figli qui a Gaza lavora. Un figlio è andato a Dubai e rie­sce a mala­pena a soste­nersi. Que­sta non è vita, è solo sof­fe­renza». Samir parla e intorno a lui vediamo solo case distrutte, mace­rie, soli­tu­dine, l’abbandono di un mondo che vuole dimen­ti­care Gaza, ancora una volta.