Per la libertà di movimento, per i diritti di cittadinanza

da Il Manifesto del 23 luglio 2005

«Gli immigrati? Intrinsecamente inattendibili»

GIOVANNA BOURSIER
ANT. MASS.

LECCE

Una sentenza storica, perché quando un giudice decide a favore di 17 migranti e contro rappresentanti dello stato e della chiesa è – in questo momento e in questo paese – un giudice coraggioso. Per capirlo bastava ascoltare l’arringa conclusiva della difesa, pronunciata da Pasquale Corleto nell’aula della Seconda sezione penale del tribunale di Lecce. Uno degli assunti era: i migranti che accusano questo prete sono «di un’inattendibilità intrinseca». Intrinseca, dice proprio così l’avvocato avvolto nella sua toga, e lo spiega anche: perché sono nati già condannati, a fuggire e perciò a mentire, sempre in bilico tra la vita e la morte. Impossibile quindi dare valore alle loro testimonianze contro un uomo di chiesa che dell’accoglienza ha fatto missione di vita. Soprattutto in un contesto storico come quello che stiamo vivendo, dove chi è il nemico lo dovremmo sapere, e in cui accusare un prete cattolico di aver costretto dei musulmani a ingoiare maiale con il manganello sarebbe «un agguato contro la Curia». Prima di Corleto parla un altro avvocato, Francesca Conte, in difesa dei medici accusati di aver manipolato la verità. E anche lei, nella sua disarmante semplicità, illumina di razzismo la scena e gli attori. Perché, aggrappandosi alla toga, e guardando bene negli occhi la corte, ammonisce: «Signor giudice, la legge è uguale per tutti, ma non tutti sono uguali davanti alla legge». Una pretesa di disuguaglianza, non di semplice diversità. Una pretesa che folgora l’aula con tutto ciò che contiene: non solo gli scranni, i codici e le toghe, ma anche le divise, quelle dei carabinieri imputati, e i camici dei medici accusati di aver disonorato la loro funzione di cura e assistenza. Infine, e soprattutto, la missione di un prete, don Cesare Lodeserto, che, appena tornato da altre opere di assistenza in Moldavia, aspetta il verdetto stringendo il rosario con una mano e la fronte con l’altra. «Non tutti sono uguali davanti alla legge, perché ognuno ha la sua storia alle spalle», dice la Conte, svelandoci che le parole e i fatti mutano di dignità a seconda di chi li riferisce. Essere un immigrato senza documenti e rinchiuso in un Cpt equivale allora a non avere storia o, almeno, a non averne una degna d’essere difesa fino in fondo.

Il teorema si affina ancora nelle parole di Corleto quando chiede al giudice di sotterrare l’accusa più infamante, quella di aver umiliato gli immigrati musulmani obbligandoli a mangiare carne di maiale: sarebbe davvero «un agguato alla Curia, allo Stato, alla Puglia». Di questo stiamo parlando. Non del codice, dei diritti e dei doveri. Il processo a don Cesare diventa davvero un processo alla Chiesa e allo Stato. Va da sé che la condanna non è auspicabile. E qui siamo al capolavoro perché Corleto ci porta su un precipizio: spuntano il terrorismo, gli attentati, le guerre di religione. Non menziona nessuna di queste parole: agita fantasmi senza mai nominarli ma in loro nome chiede al giudice: «Restituiteci don Cesare, un uomo che un giorno mi portò in udienza dal papa». E incontrare il papa non è privilegio di tutti: infatti non tutti sono uguali. Così incardina nella sacralità della legge la sacralità del vangelo, e con essa quella della cittadinanza, dei passaporti e delle frontiere. Ma anche dei manganelli e dei recinti. La sacralità, persino, della fuga e della menzogna: «Era legittimo che questi uomini fuggissero ed era legittimo che mentissero: il diritto alla menzogna nasce quando l’alternativa è la vita». Per questo gli immigrati in fuga sono di «intrinseca inattendibilità». E così attribuisce sì agli immigrati il diritto alla vita, ma a una vita muta che non testimonia nulla. Una raffinatissima discriminazione: questo è stato ieri il terreno torbido dove una sentenza d’assoluzione avrebbe ristabilito, oltre che la giustizia, anche l’ordine delle cose. E su cosa, secondo chi difende Chiesa e Stato, si dovrebbe ristabilire l’ordine e la giustizia? Sulle parole. Ma non sul loro significato: sulla loro potenza. Che promana dalle divise e dalle tonache, dalle biografie e le rispettabili conoscenze.

«Le affermazioni di Corleto», replica Marcello Petrelli, che difende i migranti, «ci hanno riportato a un processo pre-socratico, dove l’attendibilità della parola dell’imputato o del denunciante dipendeva dal numero delle persone che giuravano per lui. Così abbiamo mandato a morire Socrate». Ma alla fine prete, carabinieri, medici e operatori “colpevoli”, mentre chi li difendeva ci chiedeva di barattare il diritto alla giustizia con il diritto del più forte. Da un lato uomini con diritto di parola, dall’altro uomini con il diritto di fuggire. Ma per sempre muti.