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Hotspot e schemi di ricollocazione: la soluzione giusta per il Sistema Europeo Comune di Asilo?

Francesco Maiani, EU Immigration and Asylum Law and Policy

Foto: Hotspot sull'isola greca di Lèros

Tanto il Sistema Europeo Comune di Asilo (CEAS) quanto l’area Schengen di libera circolazione corrono attualmente rischi considerevoli. L’arrivo non pianificato di circa un milione di migranti nel 2015, il 90% dei quali provenienti dai principali Paesi d’origine dei rifugiati, ha esposto i loro paradossi ed ha messo in moto forze centrifughe che sembrano minacciare la loro stessa esistenza. Il rimedio proposto dalle istituzioni europee è imperniato in particolare sull’”approccio hotspot” e sui piani di ricollocazione intra-europei, su cui le istituzioni stanno puntando molto.

A conferma dell’importanza attribuita a queste misure, la Grecia è stata minacciata di espulsione da Schengen in caso di mancata attuazione della sua “tabella di marcia hotspot”. Hotspot e ricollocazione trovano ampio spazio anche nel dibattito sul futuro del CEAS: la Commissione ha già proposto di inserirli permanentemente nelle strategie di gestione delle crisi dell’Unione e sembra stia pensando di sostituire Dublino con una chiave di ripartizione permanente che porterebbe all’assegnazione pressoché automatica dei richiedenti asilo agli stati membri.
Nessuno nega che il CEAS e Schengen abbiano urgente bisogno di cure, ma vale la pena chiedersi se l’UE e i suoi stati membri abbiano scelto la terapia giusta. Prima di presentare le mie riflessioni in proposito, voglio ricordare il contesto in cui sono stati concepiti gli hotspot e i piani di ricollocamento, le loro caratteristiche essenziali e le prime impressioni sulla loro attuazione.

Il contesto

Gli arrivi osservati in tutto l’arco del 2015 si sono concentrati in Grecia – dove hanno superato gli 800.000 nel solo 2015 – e in Italia. Questi due Stati si sono trovati in prima linea e hanno dovuto affrontare la formidabile sfida logistica di organizzare la prima accoglienza e l’identificazione dei migranti. Una piena attuazione di Dublino e EURODAC avrebbe reso proibitivo il compito. I due stati avrebbero avuto la responsabilità di prendere le impronte digitali di tutte le persone entranti, registrare le loro richieste di asilo e spesso – dato che Dublino assegna di norma la responsabilità allo Stato di primo ingresso – organizzare la loro permanenza a lungo termine o il rimpatrio.

Molte di queste responsabilità sono rimaste sulla carta. Gran parte di coloro che sono sbarcati sulle coste greche, in particolare, hanno continuato verso altri Stati membri attraverso la “rotta balcanica”, senza aver presentato domanda di asilo e spesso senza essere stati identificati in Grecia. La mancata identificazione nello Stato di ingresso ha a sua volta destato preoccupazioni in termini di sicurezza e reso praticamente inapplicabile il sistema di Dublino nei confronti degli Stati “di prima linea” – nulla di nuovo per quanto riguarda la Grecia, già praticamente esclusa dall’applicazione di Dublino dalla ripristino temporaneo dei controlli alle frontiere interne alla costruzione di recinzioni di filo spinato e alla proclamazione di “tetti” nazionali sul numero di persone a cui è consentito chiedere asilo.

La situazione sta rapidamente degenerando in un aspro e caotico “tutti contro tutti”, ed a farne le spese sono i rifugiati, letteralmente lasciati fuori al freddo ai confini d’Europa, per esempio in Grecia e Croazia. L’idea stessa di politiche comuni sulla base di regole comuni, interessi comuni, libera circolazione, rispetto dei diritti dei rifugiati e solidarietà (vedi art. 77, 78 e 80 del Trattato sul funzionamento dell’Unione Europea, TFUE) è in frantumi.

L’ ‘approccio hotspot’ e gli schemi di ricollocazione: caratteristiche essenziali

Nel maggio 2015, la Commissione ha presentato un pacchetto di “interventi immediati” per contrastare la crisi in corso, tra cui l”approccio hotspot’ e i ‘piani di ricollocazione’. Queste due misure hanno poi ricevuto l’avallo dal Consiglio europeo – nota bene: nell’ottica di un “miglior contenimento dei crescenti flussi migratori illegali“, fra l’altro attraverso il “rafforzamento della gestione delle frontiere esterne dell’Unione”.

Nell’Agenda Europea sulle migrazioni gli hotspot sono stati presentati come un’iniziativa per “aiutare” gli stati in prima linea “a identificare, registrare e rilevare rapidamente le impronte digitali dei migranti in arrivo” – o addirittura come “sostegno globale e mirato da parte delle agenzie comunitarie agli Stati in prima linea”. Secondo la definizione ufficiale della Commissione (.pdf), un “hotspot” è una sezione di frontiera esterna caratterizzata da “pressione migratoria specifica e sproporzionata” causata da flussi migratori misti. L’ “approccio hotspot” implica che le agenzie dell’UE intervengano in quella zona in modo coordinato tramite “Squadre di Sostegno per la Gestione delle Migrazioni”, basandosi sostanzialmente sul personale e le attrezzature messe a disposizione dagli altri Stati membri.

A seconda delle situazioni, valutate caso per caso, gli Stati potranno essere assistiti nell’identificazione, registrazione e trasferimento dei migranti fermati alla frontiera (FRONTEX); nella registrazione delle domande di asilo e nella ricollocazione degli aventi diritto (EASO); nel perseguimento dei reati (Europol e Eurojust). Da questo “supporto globale e mirato” sono escluse l’accoglienza dei richiedenti e l’esame delle domande di asilo. Anche i rimpatri rimarranno essenzialmente nelle mani (e sul bilancio) dello Stato ospitante, nonostante l’esistenza di forme relativamente limitate di sostegno finanziario ed operativo da parte dell’UE. Lo Stato ospitante deve infine presentare una “tabella di marcia” che definisce le “misure complementari” da adottare per gestire la situazione (ad esempio, il rafforzamento strutture di accoglienza).

Nel complesso, nonostante la retorica dell'”assistenza”, gli hotspot sono chiaramente progettati in modo da rendere effettive tutte le responsabilità che gli Stati “in prima linea” dovrebbero in teoria assumersi in base alla legislazione europe vigente: identificare i migranti, fornire prima accoglienza, identificare e rimpatriare coloro che non fanno richiesta di asilo, ed avviare chi invece fa domanda verso le procedure di asilo dello Stato resposabile – di norma, lo Stato “in prima linea” stesso.

Qui entrano in gioco i piani di ricollocazione temporanea. Previsti dalle due Decisioni del 14 e del 22 settembre 2015 come misure di emergenza fondate sull’art.78 (3) del TFUE, i piani di ricollocazione rappresentano una deroga a Dublino: fino a settembre 2017, la responsabilità per un certo numero di richieste (66.400 per la Grecia e 39.500 per l’Italia) dovrebbe essere trasferita ad altri Stati membri. In conformità con l’obiettivo del programma – ristabilire una “normalità” riguardo ai regolamenti EURODAC e Dublino negli Stati in prima linea – i richiedenti possono essere trasferiti solo dopo aver fatto domanda di asilo in quel determinato Stato ed aver depositato le impronte digitali, e solo dopo che la responsabilità dell’Italia o della Grecia secondo il Regolamento Dublino sia stata accertata (v. gli artt. 3 (1) e 5 (5) delle Decisioni di Ricollocazione).

Sono inoltre ammissibili solo i richiedenti “in evidente bisogno di protezione internazionale”, cioè appartenenti ad una nazionalità per la quale la percentuale di riconoscimento della protezione internazionale sia pari o superiore al 75% in media europea (Art. 3 (2) sulle Decisioni di Ricollocazione). In perfetta continuità con lo spirito di Dublino, le persone da ricollocare non hanno il diritto di scegliere lo Stato di destinazione o di rifiutare la ricollocazione tout court.

Il legame della politica con l’”approccio hotspot” è reso evidente negli articoli 7 e 8 delle Decisioni di Ricollocazione: il trasferimento deve essere accompagnato da un maggiore “sostegno operativo”, ma può essere sospeso qualora lo Stato beneficiario non rispetti la sua “tabella di marcia hotspot”.

Prime esperienze e lezioni (non?) imparate

È troppo presto per trarre conclusioni definitive, ma al momento si può affermare senza esitazione che gli hotspot e le ricollocazioni non hanno prodotto risultati tangibili. La creazione degli hotspot è in ritardo sia in Italia che in Grecia e, secondo le parole del Commissario in carica, i piani di ricollocazione “non funzionano” . Per avere un’idea delle cifre: al 18 gennaio sono state trasferite solo 322 persone (.pdf) e, come ha rilevato nel mese di novembre il Presidente della Commissione, “se si continuerà di questo passo, raggiungeremo l’obiettivo solo nel 2101” .

Le cause di tali ritardi sembrano essere molteplici. Italia e Grecia sono state più o meno apertamente accusate, anche dall’UNHCR (.pdf), di continuare a tergiversare sugli hotspot. Di fronte a tali rimproveri, viene da chiedersi se sia oggettivamente possibile per la Grecia, o per qualsiasi altro Stato europeo di dimensioni e ricchezza comparabili, organizzare procedure di identificazione e di accoglienza a fronte di arrivi massicci come quelli del 2015.

Sia come sia, un aspetto meno discusso della situazione è che, a loro volta, gli altri Stati membri non stanno fornendo l’assistenza necessaria per fare funzionare il combinato hotspots/ricollocamenti: gli appelli delle agenzie europee al distaccamento di personale da impiegare negli hotspots (circa 775 agenti per FRONTEX entro la fine del mese di gennaio 2016 e circa 370 per EASO entro il terzo trimestre del 2017) non hanno finora avuto gran seguito (.pdf), ed i vari Stati membri hanno sinora messo a disposizione un numero insufficiente di “posti” di ricollocamento, mettendo inoltre unilateralmente numerose condizioni (.pdf).

La ricollocazione è stata a quanto pare rallentata da due ulteriori fattori: la mancanza di entusiasmo da parte delle persone in cerca di protezione e, in Italia, la carenza di candidati papabili, dal momento che le persone che sbarcano qui appartengono in misura crescente alle nazionalità “sbagliate”.

Come si vede, il (provvisorio?) fallimento di hotspots e ricollocamento è dovuto ad un complesso di fattori, ciascuno dei quali meriterebbe seria considerazione prima di intraprendere nuove azioni. Puntare il dito contro presunti colpevoli sembra però essere una strategia molto più allettante per i responsabili politici. Così ci viene detto che il problema sono i soliti governi mediterranei che non fanno i “compiti a casa” e che, una volta che l’Europa avrà buttato fuori la Grecia, tutto nell’area Schengen tornerà alla normalità.

In effetti, l’unico motivo razionale per l’umiliazione pubblica inflitta alla Grecia sembra essere quello di preparare il terreno per l’applicazione dell’articolo 26 del Codice Frontiere Schengen dando così copertura legale alla chiusura dei confini per più di sei mesi desiderata da vari Stati membri. Per il resto, non è chiaro come ci si possa aspettare che la Grecia “fermi” legalmente un flusso composto in gran parte da profughi – vien da sperare, non con “la marina”; né è chiaro come ci si possa aspettare che la Grecia assuma tutta intera la responsabilità dell’identificazione, dell’accoglienza e della gestione di più di 850.000 persone in un anno; né è chiaro, infine, a cosa potrebbe servire sospendere la Grecia dall’area Schengen, visto che non ha alcuna frontiera terrestre in comune con gli altri Stati membri di Schengen e che i profughi non viaggiano in aereo.

Ammesso e non concessoche la Grecia e l’Italia siano le uniche o principali responsabili del fallimento delle misure di cui si è discusso finora, puntar il dito contro di loro difficilmente porterà a qualcosa dal momento che, per loro, una piena attuazione del pacchetto “assistenziale” di hotspot e ricollocazione sarebbe, sulla base di un calcolo razionale, molto peggio rispetto a qualsiasi “sanzione” possa venire inflitta dall’UE.

Definire gli hotspot come “assistenza globale” per gli Stati in prima linea è in effetti piuttosto paradossale. Questi stati sono sì “assistiti” a livello operativo e finanziario. Tuttavia, come già detto, l’approccio hotspot lascia la maggior parte o la totalità dei costi principali (i costi dell’accoglienza, dell’esame delle domande, della detenzione e dei rimpatri) a carico del paese ospitante, che beneficia solo di un modesto sostegno finanziario da parte dell’UE. Cosa ancora più importante, gli Stati in prima linea sono in effetti “assistiti” ad assumersi tutte le loro responsabilità derivanti dalle regole Schengen e Dublino. Il pieno successo dell’approccio hotspot così come lo intende la Commissione – “prendere le impronte digitali […] di tutti i migranti” (.pdf) – avrebbe come conseguenza immediata l’aumento esponenziale delle responsabilità dei Paesi di prima linea e renderebbe reali gli enormi squilibri distributivi, finora solo virtuali, impliciti nel sistema di Dublino.

I piani di ricollocazione sono stati presumibilmente progettati per compensare questo effetto perverso in misura “significativa”. “Significativo” è però un concetto evasivo e, matematicamente parlando, c’è chiaramente qualcosa che non va. Supponiamo per ipotesi che i piani di ricollocamento vengano interamente attuati – un’ipotesi davvero ardita. Anche in tal caso, il numero di ricollocazioni non compenserebbe che in minima parte le maggiori responsabilità date dalla raccolta delle impronte digitali di tutti i migranti.

Questo vale per l’Italia (circa 40.000 trasferimenti a fronte di più di 150.000 arrivi in un anno) ed a maggior ragione per la Grecia (66.400 delocalizzazioni in due anni a fronte di più di 850.000 arrivi in un anno). La limitazione del numero dei richiedenti papabili a quelli “in evidente bisogno di protezione”, inoltre, riduce ulteriormente l’attrattività del piano per gli Stati “beneficiari”.

Da un lato, esso può ostacolare notevolmente l’attuazione dei piani di ricollocazione, come dimostra il caso di Italia (vedi sopra); dall’altro, la condizione di “evidente necessità” lascerebbe lo Stato di prima linea, presumibilmente già in difficoltà, a gestire da solo tutti i “casi difficili”, cioè quelli che probabilmente daranno origine a costose operazioni di detenzione e rimpatrio. L’insistenza del Ministro italiano degli Interni sull’assistenza europea nei trasferimenti e rimpatri prima di dare il via al piano hotspot non è affatto casuale.

Da “rimedi spicci” a soluzioni durature?

Hotspot e piani di ricollocazione sono nati come risposte politiche a breve termine, vale a dire “rimedi spicci”. Finora non sono riusciti a ottenere risultati significativi e, come abbiamo visto, incolpare gli stati in prima linea non sembra né corretto né utile.
Il problema principale è che l’UE e molti dei suoi Stati membri sembrano decisi a sostenere ad ogni costo i “rimedi spicci” già approvati, indipendentemente dal fatto che funzionino o meno. Il partito di quelli che “Dublino è morto”, un tempo scarsamente frequentato, diventa sempre più affollato. Sarebbe anche un bene, non fosse che si presume di avere già in mano la ricetta magica per sostituire Dublino: la succitata “chiave permanente di distribuzione” dei rifugiati. Trascurabile dettaglio: il modello a cui si ispira questa ricetta – la ricollocazione temporanea – finora non ha funzionato affatto.

Prima che tutto lo (scarso) capitale politico a disposizione dell’UE venga investito in questo progetto, sarebbe bene tenere – per la primissima volta – un dibattito aperto e possibilmente meno emotivo sui modelli sostenibili di solidarietà e di ripartizione per il Sistema Comune Europeo di Asilo e per l’area Schengen. Un esame anche rapido di questi possibili “modelli sostenibili” meriterebbe un articolo a parte, ma si possono già identificare alcuni temi di dibattito imprescindibili.

– Primo, ri-concettualizzare l’obiettivo fondamentale dell’azione dell’UE sarebbe utile sia per il presente che per il futuro. Per non dire altro, “arginare il flusso” non è un obiettivo molto realistico: il numero di rifugiati che giunge sulle coste del vecchio continente non dipende dalla volontà dei politici europei e, una volta che sono approdati, i rifugiati non possono essere semplicemente respinti alla frontiera. “Come organizzare un’accoglienza decorosa e ordinata” – al momento drammaticamente assente – sarebbe già un obiettivo più raggiungibile, e decisamente più in linea con i valori e gli obiettivi sanciti nei Trattati.

– Secondo, va bene insistere sul fatto che ogni migrante in arrivo debba essere registrato e identificato nel punto di ingresso, ma affinché ciò possa realisticamente avvenire, l’identificazione deve essere separata dalla responsabilità di organizzare l’accoglienza, e poi la protezione o il rimpatrio di ogni migrante in arrivo. Accoppiare l’identificazione a queste responsabilità è il modo più sicuro per indurre gli stati di confine a non effettuarla, come ci dimostra l’esperienza. Inoltre, equivale ad affidare responsabilità enormi agli Stati di confine sulla base della loro posizione geografica – un principio di ripartizione agli antipodi del “principio di solidarietà e di condivisione equa di responsabilità”( articolo 80 del TFUE).

– Terzo, ovviamente bisogna mettere in atto meccanismi di solidarietà efficaci non solo per affrontare le crisi, ma anche per garantire una ripartizione equa su base permanente. La domanda è se la ricollocazione sia la risposta migliore. Dei programmi fondati su “trasferimenti” di massa tendono a presentare enormi difficoltà logistiche e giuridiche, soprattutto se messi in atto contro la volontà dei “beneficiari”. L’esperienza di questi ultimi mesi, e due decenni di esperienza con il sistema di Dublino, dovrebbero avercelo insegnato. La condivisione di denaro e delle capacità operative è molto meno problematica ed i Trattati permetterebbero un loro massiccio incremento, senza per forza escludere programmi di trasferimento mirati e volontari come rimedio a gravi squilibri. Parlando di solidarietà finanziaria, in particolare, un punto che non è stato sufficientemente discusso finora è perché le azioni compiute da alcuni Stati membri nell’interesse di tutti (come la sorveglianza delle frontiere, l’identificazione e l’accoglienza all’ingresso, l’elaborazione delle domande, il rimpatrio dei migranti irregolari, ecc.) continuino ad essere finanziate dai bilanci nazionali, causando asimmetrie grottesche, invece che dal bilancio comune dell’UE.

Se vogliamo evitare la situazione da “Piano B” descritta da Daniel Thym nel blog della rete Odysseus – chiusura unilaterale dei confini, respingimenti sommari, profughi abbandonati a sé stessi, tutto questo in base a interpretazioni estremamente discutibili del diritto dell’Unione europea – bisognerà affrontare e risolvere nodi ben più seri degli hotspot, della ricollocazione e dei “compiti a casa” della Grecia.

Francesco Maiani, University of Lausanne and the Migration Policy Centre, European University Institute