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di Simona Taliani

I cronisti e la bambina: atto II (Dalla Grecia con amore)

La vicenda di Maria, il pregiudizio verso i rom e il sistema internazionale di adozione dei minori

I cronisti e la bambina:(1)
Atto II (Dalla Grecia con amore)

Storia mediatica di “Maria”

A cinque anni di distanza dalla “storia mediatica di Serena Cruz” – il bel video documentario dal titolo appunto I cronisti e la bambina, prodotto dal Master in giornalismo dell’Università di Torino e per il quale gli autori (Bianca Mazzinghi, Leopoldo Papi, Laura Preite ed Emanuele Satolli) hanno ricevuto il premio del Consiglio Nazionale “Minori, l’informazione prima e dopo la Carta di Treviso” – , al centro della scena mediatica ancora una bambina piccola.
Questa volta rom e bianca (albina, si scoprirà dopo), “Maria” è diventata per una intera settimana l’ossimoro fondatore dei sospetti, dei pregiudizi e dei razzismi mai rimossi di una società intera, transnazionale e transfrontaliera.
Non si vuole qui troppo frettolosamente tracciare continuità tra la prima vicenda (che ha scosso profondamente le coscienze degli italiani nel 1989, e oltre) e l’ultima (rimbalzata velocemente su una vetrina massmediatica mondiale). Non lo consentono i fatti e (credo) non lo permetterebbero le famiglie, né le bambine. Sono tragedie queste che chiedono venga riconosciuta all’ineluttabile un’unicità, una non-ripetitività.

Tra tutte una differenza mediatica evidente: se nel caso piemontese si riconobbe l’illegalità dell’atto di riconoscimento da parte del padre adottivo italiano ma non ci fu mai un sospetto di abuso della minore, perché era a tutti evidente che Serena era stata portata in Italia da gente per bene e per il suo bene (come dice lei stessa, recentemente, in un’intervista: papà Giubergia l’aveva portata via dall’inferno di Manila)(2) . Non così è stato nel caso della piccola “Maria”: non abbiamo speso parole di benevolenza per questa coppia rom con troppi figli … Ci siamo risvegliati tutti lombrosiani, cercando tra le rughe di espressione, nei nasi aquilini, sulla pelle scura profili di gente non-per-bene(3). Per noi, “Maria” non può che essere passata da un inferno all’altro.
Miseria su miseria.
“Maria” non tornerà di certo dalle persone che l’hanno cresciuta, ora in carcere, né – c’è di che dubitarne – dai suoi genitori biologici, anche loro sospettati di reato, per vendita di minore: 250 euro il peso della colpa tremenda della madre (forse il costo di un viaggio di ritorno con un ‘resto’ per garantire qualche cosa agli altri figli rimasti a casa: sulla scia dell’emozione, a ciascuno il suo immaginario).
Più verosimile pensare che “Maria” andrà a nutrire la lunga lista dei bambini adottabili legalmente. Poco importa del legame con i fratelli e le sorelleadottive. Poco importa se qualche frammento di verità era emerso nei racconti dei genitori (l’età per esempio della bambina, il luogo dove era stata incontrata la madre biologica e dove era avvenuto il passaggio)(4) o se “Maria”, come riferiva il Presidente della ONG greca Smile of the child presso cui è stata ospitata, era all’inizio spaventata e sola (si troverà pronto un modello psicologico prêt-à-porter da utilizzare per dire che i bambini abusati fanno comunque fatica a staccarsi dai loro genitori abusanti).
Qualunque reazione abbia avuto “Maria” nelle fasi di separazione e allontanamento da quelli che pensava fossero i suoi genitori, fratelli, cugini, nonni …, per le Istituzioni tutto è già classificabile nel vocabolario di una sofferenza che nasce in un contesto di maltrattamento e sfruttamento. Dunque, recidiamo legami.

Le due vicende – quella di Maria e quella di Serena – nella loro incommensurabilità, svelano entrambe una realtà scomoda ma ineludibile: i bambini circolavano e circolano nelle comunità sia a prescindere dalle normative in vigore sull’adozione internazionale sia, ciò che è peggio, dentro di esse. I bambini circolano per mille ragioni e cambiano nome, genitori, fratelli e sorelle, affetti, attaccamenti, legami, abitudini, lingue…
Scriveva nel 2003 Jean-Vital de Monléon (Naitre là-bas, grandir ici. L’adoption internationale):

“Nel momento in cui l’adozione internazionale viene governata da un’unica norma, quella occidentale, attraverso la Convenzione di La Haye, l’adozione tradizionale avrà ancora un suo posto?”.

È evidente che la risposta è no. Che la monopolizzazione dell’adozione da parte di un solo sistema sociale (quello occidentale) ha già imposto un’unica direzione di circolazione (su basse classista, per lo più), pervertendo altri sistemi, misconoscendo altre possibilità, fin anche arrivando ad incentivare prassi di monetizzazione (e dunque di mercificazione) dei bambini, non necessariamente presenti in origine nelle società cosiddette non occidentali. Proprio ciò che la Convenzione voleva impedire.
I bambini adottabili sono dunque un chiaro prodotto dei nostri apparati statali.
Sappiamo già tutto del destino amaro di “Maria”, questa bambina che è passata dalle braccia di una madre bulgara (rom), raccoglitrice di olive – una delle tante lavoratrici immigrate stagionali, obbligate a stare dentro delle economie di miseria e sfruttamento –, ad altre robuste braccia, che la tengono ben stretta nella foto più e più volte mostrata: di una madre greca (rom), che su quella bambina traeva un profitto (l’assegno di mantenimento, come la cronaca ha denunciato). Ma sappiamo così poco del destino degli altri figli dello Stato, di questi prodotti delle Democrazie occidentali e di un Occidente opulento che preferisce occuparsi generosamente dei bambini piuttosto che cambiare le condizioni di vita dei loro genitori.

Chi scaglia la prima pietra? (O chi ruba chi e a chi?)

Al di là di quello che pensiamo dell’adozione – e delle sue forme all’occidentale, che prescrivono di separare definitivamente ed in modo il più delle volte irrevocabile coloro che donano da coloro che ricevono: Susanne Lallemand, un’antropologa francese, è categorica a riguardo quando scrive che questa forma occidentale è una “rarità storica” e anche un’“aberrazione” – la storia massmediatica di “Maria” ci impone di riflettere. L’urlo dei cronisti, complice di Istituzioni statali e associazioni umanitarie, impone di riflettere: chi si appropria di figli non suoi?
Nella pubblicazione di L’industria della carità. Da storie e testimonianze inedite il volto nascosto della beneficienza, Valentina Furlanetto, giornalista de Il Sole 24 Ore, propone una risposta intitolando il capitolo sulle adozione internazionali:
“Il supermarket dei bambini”.
Secondo quali criteri si classificano i bambini come ‘adottabili’? Quale atto legislativo li rende tali(5)?

VIETNAM – I funzionari dei centri di accoglienza della provincia di Quang Binh si addentravano sin nelle profondità delle campagne rurali presso la comunità ruc per convincere le famiglie a lasciare i propri figli in queste strutture dove avrebbero potuto ricevere vitto alloggio e una buona educazione. Salvo poi profittare del basso livello di alfabetizzazione delle popolazioni locali per far firmare documenti in cui si rinunciava inconsapevolmente alla patria potestà, rendendo così il passaggio di responsabilità da temporaneo a irreversibile. Gli avvenimenti vennero denunciati soltanto nel 2008 dall’antropologo Peter Bille Larsen (Larsen, 2008; Gaff, 2010).

NEPAL – Nelle zone rurali del Paese si creano simili condizioni, producendo una gran quantità di bambini che si riversano negli orfanotrofi di Kathmandu per esser dati in adozione, come denuncia il documentario Paper Orphans girato dall’organizzazione belga Action For Child Rights. Lo scandalo ha avuto risalto anche sulla stampa locale, dove si denuncia come sia ormai “un business che va a gonfie vele. I bambini sono spesso dati in adozione senza il consenso dei genitori” (Furlanetto, 2013, p. 209).

UCRAINA – Il Paese, che non ha ratificato la Convenzione dell’Aja del 1993, è stata al centro di rumorosi scandali in merito alle modalità con cui si è cercato per anni di ottenere il massimo profitto dalle famiglie adottive nel momento in cui raggiungevano il Paese d’origine del bambino per portarlo a casa con loro. Un traffico che ha fatto scalpore non tanto per la veridicità dello stato legale dei bambini, che erano realmente orfani, quanto per la collaborazione apparentemente molto stretta instauratasi fra il Ministero degli Affari Esteri ucraino e i principali indagati per questi illeciti, al punto che nel 2002 la responsabile della Commissione Adozione Internazionali in Italia (CAI), Melita Cavallo, interruppe le adozioni con l’Ucraina. Nel 2005 il tribunale ucraino ordinò di svolgere delle ricerche per comprendere a quali obiettivi reali rispondesse l’uscita dal Paese dei bambini attraverso vie poco lecite.

ETIOPIA – Primo Paese africano di adozione a livello mondiale con una media di cinquanta casi al giorno verificati dal Mowcya (il Ministero che si occupa di verificare la condizione del minore e che è responsabile per esso), nell’agosto 2011 si è visto al centro di un grosso scandalo. È stato infatti diramato dal governo etiope un avviso di chiusura di circa quattordici orfanotrofi di cui non era chiara la natura, e che pare allontanassero i bambini dalle famiglie per inserirli poi nei percorsi di adozione internazionale e ricavarne guadagni personali.

“Magari voi state pensando che in fondo tutto questo non sia grave. In fondo questi bambini, che vengono da famiglie povere in un continente povero, sono stati adottati da persone ben disposte a dare loro non solo affetto, ma anche il meglio che l’Occidente benestante può offrire: una cameretta, la scuola, il motorino e poi una laurea, un appartamento e la possibilità di trovarsi un lavoro. Ma immaginate di diventare improvvisamente poveri, di perdere in una notte il lavoro, la casa, il conto in banca e di finire soli e in disgrazia. Immaginate di essere vittime di un terremoto. Non avete più nulla. Immaginate a quel punto che, visto che siete poveri, vi tolgano anche i vostri figli. Ecco” (Furlanetto, 2013, p. 183).

Articoli di legge e tutela della famiglia

Il caso dei rom merita poi un’attenzione particolare e richiede una sensibilità non comune(6) .
I bambini rom infatti sono spesso protagonisti, loro malgrado, di adozioni nazionali. Le condizioni di povertà, miseria, degrado e violenza in cui vivono con i loro genitori all’interno degli Stati in cui transitano o permangono – senza esercitare piena cittadinanza perché stranieri o perché italiani-non-italiani – espongono questi figli ad essere dichiarati adottabili dai Tribunali per i Minorenni. Sospettati di rubare i bambini degli altri, i genitori rom non vengono ritenuti idonei a crescere i loro stessi figli. Quando la macchina istituzionale si attiva non c’è alcuna speranza per questi genitori di veder riconosciuta la loro capacità di essere genitori sufficientemente buoni (o “buoni, basta” o “abbastanza”, come suggerirebbe il motto winnicottiano good enough): inadatti nei luoghi neutri, portano troppo o troppo poco al bambino (da mangiare, da bere, da vestire); obbligati a parlare una lingua che non è la loro, si alienano agli occhi dei loro stessi figli, che iniziano a parlare solo più l’italiano …
Quando di questi bambini rom abbiamo fatto poltiglia perché non sanno più di chi fidarsi e a chi affidarsi, come operatori socio-sanitari denunciamo che i genitori non sanno stare accanto alle difficoltà del minore, mancano di strumenti, sono poverini

La cronaca si tiene ben lontana da questi territori angusti e nessuno conosce la violenza istituzionale che si abbatte sulle famiglie rom, nel rispetto delle regole e della Legge.
La cronaca ci sembra quanto mai in ritardo e in eccesso. Comunque, fuori tempo.
Per tornare a “Maria” ci chiediamo se in Italia sia stata rispettata la Carta di Treviso in tutela dell’immagine dei minori. Il suo guardarci di sbieco, con treccine rosa pallido e mani blu, è lì a ricordarci che i nostri figli non li daremmo così in pasto alla stampa, neanche in buona fede e per il loro bene. Qualcuno si affretterà a dire che era l’unico modo per trovare i genitori biologici. Ciò che è falso. Era l’unico modo per sentirci diversi, migliori. E anche questo è falso.


Note:
(1) Il titolo è ripreso dal video dedicato al caso di Serena Cruz, la bambina filippina adottata illegalmente da una famiglia di Racconigi (Cuneo) nel 1989 e per mesi al centro del dibattito mediatico. Il video ha vinto il concorso, indetto dall’Ordine nazionale dei giornalisti, sui 20 anni della Carta di Treviso. Cfr. I cronisti e la bambina, durata 7′ 40, dove si ripercorrono le tappe principali della vicenda attraverso le voci dei protagonisti e dei giornalisti: tra gli intervistati, Serena Cruz, oggi maggiorenne, la madre adottiva Cristina Nigro, la magistrata Graziana Calcagno, il pubblico ministero che si occupò del caso, i giornalisti che raccontarono la storia. Quello di Serena non soltanto fu un drammatico caso giudiziario, ma rappresentò anche una svolta nel modo di fare informazione sui minori (ansa).
(2) Repubblica, 2004 (Archivio).
(3) Cfr. Servizio giornalistico di “Chi l’ha visto?”, puntata del 24.10.2013: l’insistenza sui video in cui la bambina balla (per essere addestrata? Come sibillinamente si ipotizza); le riprese della cameretta tenuta troppo bella e in ordine (per questo sospetta).
(4) Cfr. “Il Post”: “Da una serie di esami medici successivi, non risulta corretta nemmeno l’età della bambina dichiarata dalla coppia rom: Maria avrebbe cinque o sei anni e non quattro come precedentemente riferito dalla coppia e come riportato su un certificato di nascita rilasciato dal Comune di Atene risultato essere falso”. Si è al contrario confermato nelle ultime ore che Maria ha proprio 4 anni.
(5) Sta lavorando su questo tema Chiara Costa per la sua tesi di specialistica in Antropologia culturale ed etnologia, al cui lavoro completo rimandiamo. Questa pagina su Vietnam, Nepal, Ucraina ed Etiopia è tratta dal suo elaborato in corso di stesura.
(6) Si legga il bel lavoro di Salza, Dalla tutela al genocidio, 2010; e il rapporto di ricerca dell’Associazione 21 luglio, Mia madre era rom. http://www.21luglio.org/mia-madre-era-rom-29-10-2013-roma/