Per la libertà di movimento, per i diritti di cittadinanza

da La Repubblica del 6 ottobre 2005

I dannati dei confini in fuga verso la vita

di Tahar Ben Jelloun

In “Il labirinto della solitudine”, Octavio Paz parla di quegli uomini declassati, quei dimenticati da Dio che non sono mai invitati al “festino dell´Occidente” e restano dietro la porta nell´attesa che si apra per infiltrarsi come l´aria o l´acqua che scappa dal cielo. All´epoca Octavio Paz si riferiva agli immigranti latinoamericani che cercavano di entrare illegalmente negli Stati Uniti d´America. Oggi sono degli Africani che rischiano tutto per entrare in Europa. La loro vita è talmente deprezzata che se la portano dentro come un carico di cui possono sbarazzarsi giocandosi il tutto per tutto. Non gli importa molto di morire gettandosi contro una barriera di filo spinato o ricevendo dei proiettili.

Almeno avranno fatto l´impossibile per rendere sopportabile il loro destino: dopo aver attraversato il Sahara e tutto il Marocco, sono arrivati fino alla punta estrema dell´Africa del Nord, bianca e così vicina all´Europa. Alcuni passano qualche mese a Tangeri, vivendo in condizioni disastrose, aspettando la notte e l´ora per imbarcarsi dopo aver dato tutto ai traghettatori, veri schiavisti, e senza avere nessuna garanzia di arrivare in “paradiso”. Altri proseguono il cammino a piedi e arrivano a Tétouan, poi a Mdiq e infine alla frontiera tra Ceuta e il territorio marocchino. Mendicano, mangiano qualsiasi cosa e aspettano che Dio posi lo sguardo su di loro. Ma il cielo è vuoto e il mare così bello e calmo, soprattutto di notte.

Un aspetto notevole è che questi uomini e donne alla deriva non sono violenti. Sono pazienti, non disturbano gli abitanti dei luoghi in cui vagano. Forse sono fatalisti e cercano di non perdere la loro dignità. A Tangeri, dove da una quindicina d´anni si concentrano nelle viuzze intorno al porto, non fanno male a nessuno. La gente dà loro da mangiare, specialmente quando li vede pregare nelle moschee.
Nella notte tra mercoledì e giovedì 29 settembre 2005, verso le tre del mattino, quella pazienza è scomparsa. Un migliaio di africani ha attaccato la griglia metallica alta sei metri che separa Ceuta dal Marocco. Si sono fabbricati alla bell´e meglio delle scale di canne e hanno scavalcato quel muro aleatorio, quella barriera che impedisce loro di metter piede sul suolo europeo, una terra marocchina diventata europea perché occupata dagli Spagnoli per cinque secoli. Cinque morti e parecchi feriti. La sera prima, altri africani hanno tentato di forzare la frontiera di Melilla, altra città marocchina occupata dalla Spagna dal 1497.

Questi assalti hanno cambiato le prospettive del problema della clandestinità. Concentrando il massimo di candidati all´immigrazione clandestina, gli africani sperano di offrire a qualche decina o a qualche centinaio tra loro la possibilità di passare approfittando della confusione causata dagli assalti ripetuti. Così, malgrado la vigilanza della Guardia Civil e il ricorso alle armi per arrestare le ondate di persone, ci saranno sempre uomini e donne che riusciranno a penetrare nel territorio spagnolo e da lì non potranno essere rimpatriati perché non si saprà da che paese provengono.

Il segretario di Stato alla Sicurezza, Antonio Camacho, dice con ragione: «Se continuano così, sarà molto difficile far fronte a queste valanghe e non escludo che possano seguire altre simili situazioni indesiderate!» Questo significa che al prossimo straripamento gli agenti della Guardia Civil useranno armi più persuasive.
Le circostanze richiamano alla memoria quella nave traboccante di albanesi che cercava di accostare con la forza alle rive italiane. La reazione delle autorità italiane era stata brutale ma aveva messo fine al quel genere di assalti.
Prima di arrivare alla frontiera di Ceuta o di Melilla, questi africani hanno già vissuto il peggio: sanno di non avere più niente da perdere e se hanno una possibilità su mille di passare tra le maglie della rete cercheranno di afferrare quella possibilità. Che cosa si può fare per scoraggiarli? La morte? La loro vita sembra averla addomesticata da quando hanno lasciato il loro villaggio e hanno marciato per mesi come ombre che continuano a percorrere le sabbie del deserto anche dopo il calar del sole.

La soluzione non è nella repressione. La soluzione è in Africa, è nella politica di cooperazione con quel continente che tanto ha dato all´Europa e che è stato abbandonato alle dittature, alle guerre civili e alle carestie. Quelli che raggiungono la frontiera europea sono gli emissari di una sofferenza di cui l´Occidente ha una parte di responsabilità non trascurabile. Ma l´Africa non interessa più a molti. L´Africa vive il suo abbandono come un errore del destino. E tace. Questione di dignità.