Per la libertà di movimento, per i diritti di cittadinanza

Nota a C. eur. dir. uomo, Grande Camera, 23.2.2012, Hirsi Jamaa e altri c. Italia, pubblicata nella Rivista dell'associazione italiana dei costituzionalisti (A.I.C.)

I respingimenti nel Mediterraneo tra diritto del mare e diritti fondamentali

di Stefano Zirulia, avvocato del Foro di Milano e dottorando di ricerca in diritto penale presso l'Università degli Studi di Milano

1. La sentenza della Grande Camera Hirsi Jamaa e altri c. Italia

Il 6 maggio 2009 tre barche provenienti dalla Libia con a bordo circa duecento migranti venivano intercettate nelle acque internazionali a sud di Lampedusa, mentre cercavano di raggiungere clandestinamente le coste italiane. Le autorità di frontiera – Guardia Costiera e Finanza – trasferivano gli stranieri sulle proprie imbarcazioni e li riconducevano immediatamente a Tripoli, consegnandoli alle forze dell’ordine libiche.
Il 23 febbraio 2012, con la sentenza che si commenta, la Grande Camera della Corte europea dei diritti dell’uomo ha condannato l’Italia in relazione a quell’operazione di respingimento in mare (cd. push back).
I giudici di Strasburgo, dopo aver rilevato che il respingimento si era svolto sotto la giurisdizione dello Stato italiano, hanno riscontrato la violazione degli artt. 3 CEDU, 4 del Protocollo n. 4, e 13 CEDU, così accogliendo all’unanimità il ricorso presentato da alcuni dei migranti coinvolti (tredici eritrei e undici somali).
A ciascuna delle vittime è stato riconosciuto un danno non patrimoniale pari a 15.000 euro, e il Governo italiano è stato altresì condannato a intraprendere ogni azione necessaria per ottenere dalle autorità libiche la garanzia che le persone respinte non saranno sottoposte a trattamenti incompatibili con l’art. 3 CEDU.
I passaggi fondamentali della sentenza possono essere riassunti come segue.

a) la giurisdizione italiana sul respingimento in alto mare (§ 63 – 82)

L’operazione di respingimento si era svolta in alto mare – vale a dire in acque internazionali – in particolare all’interno della SAR (Search and Rescue Region) maltese.
La Corte osserva tuttavia come, nel periodo compreso tra l’imbarco sulle navi italiane e la consegna alle autorità libiche, i ricorrenti si erano trovati sotto il controllo esclusivo di un equipaggio italiano (controllo de facto), a bordo di imbarcazioni battenti la bandiera italiana (controllo de jure).
Ciò è sufficiente, sulla base dei principi di diritto internazionale, ad affermare la giurisdizione dello Stato convenuto, senza che in alcun modo rilevino – come invece prospettato dal Governo – la natura e lo scopo dell’intervento: sulla scorta di tali considerazioni la Corte giudica infondato l’argomento – posto alla base dell’eccezione governativa sul difetto di giurisdizione italiana – secondo il quale l’obbligo di prestare soccorso in mare non potrebbe, di per sé, determinare quel particolare collegamento tra Stato e persone dal quale deriva la giurisdizione del primo sulle seconde.
In conclusione – dopo aver richiamato i propri precedenti conformi in tema di applicabilità extraterritoriale dalla Convenzione (1) – la Corte afferma il principio secondo cui anche il respingimento in alto mare costituisce un’ipotesi di esercizio extraterritoriale della giurisdizione, idoneo a determinare, ai sensi dell’art. 1 della Convenzione, la responsabilità dello Stato contraente per il mancato riconoscimento dei diritti in essa sanciti.

b) violazione dell’art. 3 CEDU, che sancisce il divieto di tortura e di trattamenti inumani e degradanti (§ 83 – 158)

La Corte osserva come il respingimento italiano abbia esposto i ricorrenti ad un duplice rischio: da un lato quello di subire trattamenti inumani e degradanti direttamente per mano delle autorità libiche; dall’altro quello di essere rimpatriati, sempre ad opera dello Stato libico, in Eritrea ed in Somalia.
Ne derivano due diversi profili di contrasto tra l’operazione italiana e l’art. 3 CEDU, a ciascuno dei quali la sentenza dedica una trattazione autonoma.

b.1) Quanto al rischio di subire maltrattamenti in Libia, la Corte ribadisce il consolidato principio (2) secondo cui dall’art. 3 CEDU discende il divieto di eseguire estradizioni, espulsioni o altre misure di allontanamento allorché vi siano fondati motivi (substantial grounds) di ritenere che, nel paese di destinazione, lo straniero si troverebbe esposto ad un rischio effettivo (real risk) di subire torture o trattamenti inumani e degradanti.
All’epoca dei fatti – si legge nella motivazione – gli stranieri illegalmente presenti in Libia, compresi i potenziali richiedenti asilo, venivano sistematicamente arrestati e detenuti in condizioni igienico-sanitarie inumane, cui spesso si affiancavano torture. Anche al di fuori dei centri di detenzione i migranti irregolari vivevano ai margini della società, in condizioni di estrema vulnerabilità e di esposizione al rischio permanente di subire atti di razzismo e xenofobia.
Siffatto contesto era ben noto nella Comunità internazionale, e comunque facilmente verificabile alla luce di numerosi autorevoli reports – a cura del Comitato contro la Tortura, di Human Rights Watch e di Amnesty International – nonché sulla base delle dichiarazioni dell’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati: sicché, conclude la Corte, l’Italia sapeva, o avrebbe dovuto sapere, che i migranti respinti correvano un rischio effettivo di subire trattamenti contrari all’art. 3 CEDU, e dunque che l’operazione di push back si poneva in frontale contrasto col diritto fondamentale sancito dalla norma convenzionale.

b.2) Un’ulteriore ed autonoma violazione dell’art. 3 CEDU deriva dal fatto che, in Libia, i ricorrenti sono stati esposti al pericolo di essere rimpatriati nei rispettivi paesi d’origine (Eritrea e Somalia).
Ciò in quanto – rileva la Corte richiamando i propri precedenti arresti sul punto (3) – l’obbligo di garantire che i destinatari di misure di allontanamento non subiscano torture, o trattamenti inumani e degradanti, abbraccia anche i cd. rimpatri indiretti, ossia le ipotesi in cui il paese ricevente disponga, a sua volta, l’espulsione dello straniero verso un paese terzo (di solito il paese di origine del migrante).
L’accertamento di tale violazione richiede, in prima battuta, di verificare se sia sostenibile (arguable) che il rimpatrio dei ricorrenti nei rispettivi paesi di origine avrebbe comportato la violazione dell’art. 3.
Nel caso di specie, la Grande Camera conclude in senso affermativo, citando i reports di UNHCR e Human Rights Watch che descrivono le torture e i maltrattamenti cui l’Eritrea sottopone i cittadini emigrati illegalmente; nonché richiamando il proprio precedente Sufi and Elmi (4) , nel quale erano emersi i gravi rischi per le persone rimpatriate in Somalia, legati alla diffusa violenza nell’area di Mogadiscio, al conflitto armato in corso, nonché alle inumane condizioni di vita all’interno dei campi profughi.
Nondimeno – prosegue la motivazione – la violazione dell’art. 3 può essere comunque esclusa nei casi in cui emerga che lo Stato parte della Convenzione, al momento dell’esecuzione della misura di allontanamento, potesse ragionevolmente confidare (could reasonably expect) nell’esistenza, presso lo Stato ricevente, di garanzie sufficienti (sufficient guarantees) per la prevenzione delle espulsioni arbitrarie.
Nel caso di specie, tuttavia, erano del tutto assenti garanzie in tal senso, dal momento che la Libia non disponeva di alcuna procedura per l’asilo politico, né riconosceva lo status di rifugiato assegnato dal locale ufficio dell’UNHCR.

c) violazione dell’art. 4 del Protocollo n. 4 alla Convenzione, ai sensi del quale sono vietate le espulsioni collettive di stranieri (§ 159 – 186)

In via preliminare la Corte chiarisce – prendendo per la prima volta posizione sul punto – che il divieto di espulsioni collettive trova applicazione anche nel caso in cui la misura di allontanamento sia adottata al di fuori del territorio nazionale, dunque anche in alto mare.
La pronuncia richiama quindi il principio in base al quale l’espulsione deve considerarsi collettiva – e quindi illegittima ai sensi dell’art. 4 Prot. 4 – quando venga adottata senza valutare in concreto la posizione di ciascuno degli stranieri interessati (5).
Coerentemente – prosegue la motivazione – l’espulsione non può considerarsi collettiva per il solo fatto che più stranieri siano raggiunti da provvedimenti di rimpatrio dal contenuto analogo, a condizione che a ciascuno degli interessati sia stata offerta la possibilità di avanzare argomenti contro il proprio allontanamento dinanzi alle autorità competenti.
Queste premesse consentono alla Corte di affermare la responsabilità dell’Italia anche per la violazione della norma in esame. Nel corso delle operazioni di trasferimento in Libia, infatti, non vi è stata alcun tipo di valutazione delle posizioni individuali dei ricorrenti, né, tantomeno, gli stessi sono stati ascoltati dalle autorità italiane: conclusioni, queste, cui la pronuncia perviene osservando che migranti intercettati non sono stati nemmeno identificati, ed inoltre il personale di bordo non era addestrato a condurre interviste, né assistito da interpreti o esperti legali.

d) violazione dell’art. 13 CEDU in relazione ai precitati artt. 3 CEDU e 4 Prot. 4, ossia del diritto un rimedio effettivo dinanzi alle autorità nazionali avverso comportamenti pregiudizievoli per i diritti fondamentali sanciti dagli artt. 3 e 4 Prot. 4 (§ 187 – 207)

A bordo delle navi italiane non era prevista alcuna procedura finalizzata all’identificazione dei soggetti intercettati, né alla valutazione delle loro circostanze personali. Le autorità hanno inoltre lasciato credere agli stranieri che la destinazione del viaggio fosse l’Italia, e non li hanno informati in merito alle procedure da intraprendere nell’ottica di evitare il respingimento.
Sulla scorta di tali evidenze, la Corte afferma che i ricorrenti non hanno avuto accesso ad alcun rimedio interno effettivo, attraverso il quale lamentare l’incompatibilità del trasferimento in Libia con gli artt. 3 CEDU e 4 Prot. 4 (6).
Quanto ai caratteri che il rimedio deve presentare per essere considerato effettivo ai sensi dell’art. 13, la pronuncia sottolinea la necessità che lo stesso contempli un effetto sospensivo dell’esecuzione di misure che minacciano di violare i diritti fondamentali sanciti dagli art. 3 CEDU e 4 Prot. 4 .
Tale considerazione consente di superare l’eccezione di mancato esaurimento delle vie di ricorso interne sollevata dal Governo, secondo il quale i ricorrenti – quantomeno quelli cui l’UNHCR aveva riconosciuto lo status di rifugiati, e che come tali disponevano di un valido titolo di ingresso in Italia – avrebbero potuto adire ex post le competenti autorità italiane, lamentando in sede civile e penale la violazione dei diritti convenzionali ed ottenendo così un risarcimento del danno: siffatta via di ricorso – osserva la Corte – risulta per definizione carente del requisito di effettività – in quanto disponibile ex post e dunque priva di effetto sospensivo – e pertanto non può fondare un’eccezione di irricevibilità ex art. 35 CEDU.

2. I profili di novità della sentenza Hirsi nel panorama della giurisprudenza di Strasburgo (7)

Numerosi e di grande interesse sono i profili di novità che caratterizzano la pronuncia in esame, come conferma il fatto che le sia stato assegnato il livello massimo di rilevanza (importance level n. 1) (8), e come del resto era da attendersi a seguito dell’assegnazione della causa alla Grande Camera (9).
Si tratta, anzitutto, del primo intervento della Corte di Strasburgo avente ad oggetto la legittimità di un respingimento in alto mare: il carattere di novità della pronuncia si apprezza dunque, ancor prima del piano giuridico, già a livello del fatto preso in esame.
Il ricorso dal quale è scaturita la sentenza Hirsi, infatti, rappresenta il primo – e finora, a quanto consta, l’unico – atto di denuncia presentato alla Corte EDU dalle vittime di un’operazione di push back.
Il dato potrebbe sorprendere se si considera – come verrà meglio illustrato nel paragrafo seguente – che le prassi di respingimento in mare non sono nient’affatto nuove, né di raro utilizzo, nel panorama degli strumenti di contrasto all’immigrazione clandestina attuati da Stati membri del Consiglio d’Europa nel bacino del Mediterraneo.
È tuttavia verosimile che proprio l’allontanamento senza passare dalla terraferma, in uno con l’assenza di legali e interpreti a bordo delle navi impegnate nelle operazioni in alto mare, impediscano ai migranti di stabilire, e mantenere, un contatto con quelle figure – in primis associazioni e avvocati – che potrebbero perorare la loro causa dinanzi alle autorità competenti, ivi compresa la Corte EDU: tale considerazione potrebbe spiegare il carattere isolato della sentenza che si commenta.
Del resto, una delle eccezioni preliminari sollevate dallo Stato italiano nel caso in esame riguardava proprio l’asserita mancanza di collegamento tra difensori e ricorrenti, alla luce della quale si chiedeva alla Corte – invocando il precedente Hassun e altri c. Italia (10) – di cancellare la causa dal ruolo: l’argomento viene tuttavia giudicato infondato dalla sentenza, in base alla considerazione che i rappresentanti dei ricorrenti avevano costantemente fornito, nel corso dell’intera procedura, informazioni concernenti l’evolversi della situazione dei loro assistiti, dal che si poteva dedurre l’esistenza, e la perduranza, di un collegamento effettivo con gli stessi.
Pur in assenza di precedenti specifici in materia, i principali passaggi logico-giuridici della pronuncia in esame sono espressione di principi da tempo consolidati nella giurisprudenza di Strasburgo.
Nel corso degli anni, infatti, la Corte EDU si è a più riprese pronunciata in merito alla legittimità dei provvedimenti di estradizione ed espulsione emessi dagli Stati membri del Consiglio d’Europa, individuando – specie a partire dagli artt. 2 (diritto alla vita), 3 (divieto di tortura e di trattamenti inumani e degradanti) ed 8 (diritto alla vita privata e familiare) della Convenzione – una serie di limiti al potere sovrano di rimuovere i soggetti stranieri dal proprio territorio (11) .
L’elemento caratterizzante della sentenza Hirsi è l’aver applicato tali limiti – in particolare, come già visto esaminando la sentenza (12), quelli discendenti dall’art. 3 – ad una misura di allontanamento di diversa natura, vale a dire il respingimento in alto mare.
Ciò è stato possibile alla luce dei principi – anch’essi costituenti jus receptum nella giurisprudenza di Strasburgo – in materia di applicabilità ratione loci dell’art. 3: la sentenza, infatti, si è avvalsa dei propri precedenti relativi alla nozione di giurisdizione ai sensi dell’art. 1 CEDU (13).
La pronuncia in esame, peraltro, presenta contenuti innovativi anche in punto di diritto: in particolare la Corte si è trovata a doversi pronunciare, per la prima volta, in merito all’applicabilità dell’art. 4 del Protocollo 4 – che testualmente proibisce le espulsioni collettive – al diverso caso dei respingimenti collettivi.

3. I respingimenti in mare come strategia di contrasto alle migrazioni clandestine

I profili di novità contenuti nella sentenza Hirsi si traducono in altrettanti nuovi limiti per le politiche di contrasto all’immigrazione clandestina attuate dagli Stati membri del Consiglio d’Europa.
Come è noto, infatti, le intercettazioni marittime rappresentano un tipico strumento per l’attuazione di tali politiche, del quale da molti anni si avvalgono alcuni Stati europei che si affacciano sul Mediterraneo (14): basti pensare alle operazioni condotte dall’Italia, prima negli anni ’90 durante la c.d. crisi albanese (15), e poi a fronte degli arrivi dal nord d’Africa (16); ai pattugliamenti delle autorità spagnole e marocchine nel Mediterraneo occidentale (17); o ancora ai respingimenti da parte della Grecia di imbarcazioni provenienti dalla Turchia (18).
Dal punto di vista del diritto del mare, i respingimenti delle imbarcazioni che trasportano i migranti clandestini rappresentano azioni di carattere misto tra il soccorso in mare e l’interdizione navale (19).
Da un lato, infatti, i tentativi di raggiungere clandestinamente le coste europee sono spesso compiuti in condizioni tali da far scattare l’obbligo di soccorso sancito dall’art. 98 CNUDM (Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare, cd. Convenzione di Montego Bay). Dall’altro lato, e parallelamente, le autorità di frontiera possono invocare il cd. diritto di visita in mare, che contempla anche il potere di interdire la navigazione e di sequestrare le imbarcazioni impegnate nel compimento di attività illecite: tra le situazioni che giustificano l’esercizio del diritto di visita vengono in rilievo, nell’ambito delle migrazioni clandestine, l’ipotesi della nave senza bandiera (art. 110, lett. d, CNUDM), nonché i programmi di interdizione navale oggetto di specifica convenzione tra gli Stati interessati.
Rinviando alla letteratura di settore per un’analisi approfondita dei rilevanti aspetti di diritto del mare (20), preme in questa sede evidenziare come, alla luce della disciplina appena richiamata, la prassi dei respingimenti in mare non costituisca un comportamento illecito in sé.
Il vero problema col quale confrontarsi va individuato, piuttosto, nella ricerca dei limiti che circoscrivono il legittimo esercizio del potere di interdizione navale, nonché dei rimedi disponibili in presenza di condotte che detti limiti travalichino.
Con particolare riferimento all’ipotesi – che qui interessa – in cui l’interdizione navale sia rivolta nei confronti di imbarcazioni che trasportano stranieri sans papiers, i limiti più importanti sono rappresentati dal principio del non-refoulement e dal divieto di espulsioni collettive, ai quali occorre pertanto rivolgere lo sguardo.

4. I limiti al potere statale di respingimento in alto mare: a) il principio del non-refoulement

In base alla nozione tradizionale, «non-refoulement is a concept which prohibits States from returning a refugee or asylum seeker to territories where there is a risk that his or her life or freedom would be threatened on account of race, religion, nationality, membership of a particular social group, or political opinion» (21).
Il principio nasce nel diritto internazionale dei rifugiati, e, in tale contesto, trova la sua espressione più nota nell’art. 33 della Convenzione di Ginevra del 1951.
Nel corso degli anni, tuttavia, il concetto di non-refoulement è stato protagonista di una progressiva espansione: da un lato il suo ambito di applicazione è andato via via dilatandosi; dall’altro, si è assistito al suo germogliare in settori dell’ordinamento internazionale diversi dal diritto dei rifugiati in senso stretto, e segnatamente nei campi dell’universal human rights law e del regional human rights law.
A ben vedere – come limpidamente illustra lo studio di Lauterpacht e Bethlehem (22), uno dei più autorevoli sul tema – i due citati aspetti dell’evoluzione del non-refoulement sono tra loro legati a filo doppio: contaminando settori diversi da quello in cui era nato, infatti, il principio in parola si è a sua volta arricchito di sfaccettature che originariamente non gli appartenevano.
Quanto appena affermato trova riscontro esaminando i rapporti tra il divieto di refoulement proprio del diritto dei rifugiati e l’analogo principio scaturente dalla giurisprudenza di Strasburgo (23).
La Convenzione EDU e i Protocolli addizionali dedicano alla materia dell’ingresso e dell’allontanamento degli stranieri soltanto due previsioni espresse (l’art. 5, lett. f, in materia di privazione della libertà personale; l’art. 4 Prot. 4 relativo al divieto di espulsioni collettive), all’interno delle quali non è contemplato il diritto d’asilo politico.
Come è noto, tuttavia, la consolidata giurisprudenza della Corte EDU afferma che il divieto di tortura e di trattamenti inumani e degradanti (art. 3 della Convenzione) impone agli Stati firmatari non solo di astenersi dal porre direttamente in essere tali condotte, ma anche di non allontanare lo straniero verso paesi dove rischierebbe di subirle, o dove risulterebbe esposto al pericolo di un’ulteriore espulsione verso paesi terzi, nei quali correrebbe il rischio di subirle (24).
Questa tecnica di protezione – definita in dottrina par ricochet, ossia di riflesso (25)– è evidentemente debitrice, sul piano strutturale, del concetto tradizionale di non-refoulement, in quanto fa scattare la responsabilità di uno Stato in presenza di un rischio promanante da un altro Stato, così risolvendosi in una nuova forma di tutela – testualmente non prevista dalla Convenzione – a favore dello straniero destinatario di misure di allontanamento.
Specularmente, il diritto dei rifugiati ha attinto dalla giurisprudenza di Strasburgo principi e argomenti che hanno nutrito l’evoluzione in senso estensivo del non-refoulement. La giustificazione di tale operazione ermeneutica va rinvenuta nella considerazione secondo cui «l’art. 33(1) [della Convenzione di Ginevra], che racchiude l’essenza umanitaria della Convenzione del 1951 e garantisce i diritti fondamentali dei rifugiati, deve essere interpretato in maniera coerente con gli sviluppi del diritto internazionale dei diritti umani» (26).
Proprio alla luce del diritto internazionale dei diritti umani, in effetti, sono maturati alcuni dei più recenti approdi esegetici relativi all’art. 33 della Convenzione di Ginevra. A titolo esemplificativo si possono citare i seguenti:
– la norma non si applica soltanto ai titolari dello status di rifugiato – come il suo tenore letterale parrebbe suggerire – ma a tutti gli asylum seekers, fino al momento in cui la procedura per il riconoscimento formale dello status non si sia conclusa (27);
– il requisito della minaccia per la vita e la libertà, tradizionalmente agganciato al solo rischio di persecuzione, deve essere in realtà esteso al rischio di tortura o trattamenti inumani e degradanti, nonché alle altre minacce per la vita, l’integrità fisica e la libertà personale (28);
– quanto all’applicabilità dell’art. 33 ratione loci, «il criterio decisivo non è se quella persona si trovi sul territorio nazionale di quello Stato, o all’interno di un territorio che sia de jure sotto il controllo sovrano dello Stato, quanto piuttosto se egli o ella sia o meno soggetto all’effettiva autorità di quello Stato» (29), sicché nulla osta all’operatività del non-refoulement anche in contesti extraterritoriali (come i respingimenti in alto mare).
Il dialogo tra human rights law e refugee law non comporta, beninteso, l’identificazione completa dei due concetti di non-refoulement, i quali mantengono, accanto ai profili di analogia, differenze piuttosto marcate (30).
Sul punto, la Corte EDU ha più volte affermato che «the protection afforded by Article 3 is wider than that provided by Article 33 of the 1951 Convention relating to the Status of Refugees» (31).
Anzitutto la protezione offerta dall’art. 3 CEDU risulta più intensa in ragione del carattere assoluto ed inderogabile del divieto, laddove invece la Convenzione di Ginevra non può essere invocata dal soggetto che costituisca una minaccia per la sicurezza collettiva (art. 33, par. 2).
In secondo luogo, ciò che cambia è la platea dei soggetti tutelati. Mentre il refugee law è rivolto soltanto ai richiedenti asilo ed a coloro che ottengono lo status formale di rifugiato – e dunque opera solo in presenza dei requisiti fissati dall’art. 33 della Convenzione di Ginevra –, i principi promananti dalla giurisprudenza di Strasburgo si applicano a chiunque corra un rischio effettivo di subire trattamenti incompatibili con l’art. 3 CEDU, a prescindere dalla sussistenza di profili persecutori o discriminatori (32) .
Proprio l’elemento da ultimo evidenziato consente di concludere che il non-refoulement di cui all’art. 3 CEDU costituisce – rispetto all’omonimo principio derivante dal refugee law – uno strumento più efficace nell’ottica della tutela degli stranieri irregolari avverso le operazioni di interdizione navale, in quanto idoneo a ricomprendere nel proprio ombrello protettivo anche i migranti economici.
Vero è, come la dottrina ha evidenziato (33), che la Convenzione EDU, a differenza di quella di Ginevra, non prevede che lo Stato accordi un titolo di soggiorno al migrante: sicché quest’ultimo, una volta “scampato” al refoulement grazie all’art. 3, si troverebbe in una sorta di limbo giuridico, a cavallo tra la condizione di non espellibilità e quella di sans papiers.
Tale rilievo, tuttavia, potrebbe essere superato attraverso un’opportuna interpretazione conforme alla CEDU dei requisiti per ottenere titoli di soggiorno diversi dall’asilo politico, come la protezione sussidiaria e il permesso per motivi umanitari (34).

5. (segue): b) il divieto di espulsioni collettive

Il secondo limite che incontrano gli Stati nell’esercizio del potere di interdizione navale è rappresentato dal divieto di espulsioni collettive.
La sua fonte, come noto, risiede nell’art. 4 del Protocollo n. 4 alla Convenzione EDU.
Dal punto di vista letterale, la norma si riferisce soltanto alle espulsioni collettive: ci si chiede, pertanto, se il divieto in essa previsto sia applicabile anche ai respingimenti. La questione è stata affrontata dalla Corte per la prima volta proprio nella sentenza che si commenta.
Secondo la tesi avanza dal Governo italiano, il concetto di “espulsione” presupporrebbe, letteralmente e logicamente, l’avvenuto ingresso dello straniero sul territorio nazionale.
L’argomento non ha fatto breccia dinanzi alla Grande Camera, la quale ha privilegiato una lettura sistematica e teleologica dell’art. 4, capace di rendere il diritto fondamentale in esso sancito concreto ed effettivo, e non meramente teorico ed illusorio.
In quest’ottica la sentenza valorizza anzitutto l’evoluzione delle tecniche di controllo dei flussi migratori, le quali negli ultimi anni hanno assunto – come visto – anche la veste dei respingimenti in mare: sicché, escludere in tali casi l’applicabilità della norma in esame, significherebbe ridurne in maniera considerevole l’effettività.
In secondo luogo la pronuncia evidenzia la necessità di armonizzare il concetto di “espulsione” ex art. 4 Prot. 4 con quello di “giurisdizione” ex art. 1 della Convenzione: quest’ultimo – come pure già visto – abbraccia tutte le condotte che esprimono l’effettivo controllo del Stato su determinati soggetti, in disparte la loro collocazione territoriale o extraterritoriale.
Una volta stabilito che il divieto di cui all’art. 4 riguarda anche i respingimenti in alto mare, la responsabilità dello Stato per la violazione di tale previsione può essere valutata alla luce dei canoni già elaborati dalla Corte con riferimento alle espulsioni collettive (35).
In particolare, occorrerà valutare se lo Stato che ha condotto l’operazione ha preso in esame la situazione di ciascuno degli stranieri irregolari: solo un esame in concreto, condotto caso per caso, consente infatti di accertare che nessuno dei soggetti coinvolti corra il rischio di subire, a seguito dell’allontanamento, trattamenti contrari all’art. 3 CEDU.
Tale essendo la ratio del principio racchiuso nell’art. 4, sembra condivisibile la sua riconducibilità, dal punto di vista sistematico, nell’ambito dei profili procedurali del principio di non-refoulement (36).

6. Conclusioni: i diritti fondamentali nell’accordo italo-libico stipulato il 3 aprile 2012

Come sopra rilevato, il diritto del mare riconosce agli Stati, a certe condizioni, il potere di interdizione navale.
Muovendo da tale premessa, sono stati esaminati, nei precedenti paragrafi, i due principali limiti che si frappongono all’esercizio di tale potere nei confronti dei soggetti stranieri che tentano di attraversare le frontiere territoriali: ossia il principio di non-refoulement e il suo precipitato procedurale rappresentato dal divieto di espulsioni collettive.
Ebbene, ad avviso di chi scrive, tali limiti risultano talmente pregnanti da eliminare, in concreto, qualsiasi margine di operatività all’esercizio lecito del potere di interdizione nei confronti di migranti irregolari.
Da un lato, infatti, nella maggior parte dei casi i migranti provengono da paesi in cui è notorio il rischio di subire quantomeno trattamenti inumani e degradanti (37): sicché non sarebbe nemmeno necessaria una valutazione caso per caso per affermare l’incompatibilità del respingimento col principio del non-refoulement ex art. 3 CEDU.
Dall’altro lato, non si vede come lo Stato firmatario della Convenzione possa effettivamente valutare la posizione di ciascuno dei soggetti rintracciati nell’ambito di un’operazione in alto mare: anche qualora fossero presenti, all’interno degli equipaggi, figure in grado di condurre interviste e di informare gli stranieri dei loro diritti, il risultato resterebbe comunque, inevitabilmente, un accertamento sommario, inidoneo a valutare adeguatamente la posizione di ciascun migrante, e pertanto incompatibile col divieto di espulsioni collettive ex art. 4 Prot. 4.
È alla luce di tali coordinate che, ad avviso di chi scrive, dovrà essere interpretato ed attuato il nuovo accordo sottoscritto il 3 aprile 2012 (38) dal Ministro dell’Interno Cancellieri e dal suo omologo libico Abdulali.
Si consideri che, al punto n. III del documento, dedicato al monitoraggio dei confini, le parti si impegnano “alla programmazione di attività in mare negli ambiti di rispettiva competenza, nonché in acque internazionali secondo quanto previsto dagli accordi bilaterali in materia e in conformità al diritto marittimo internazionale”.
Qualora si ritenesse – come prospettato da chi scrive – che i principi affermati dalla sentenza Hirsi si oppongano in maniera assoluta all’interdizione navale nei confronti dei migranti, il concetto di “attività in mare” potrebbe abbracciare soltanto azioni diverse dal respingimento verso il paese di provenienza, come il soccorso o il contrasto alle attività illecite di smuggling o trafficking. Similmente, il generico richiamo agli “accordi bilaterali in materia” – astrattamente idoneo a rievocare i patti stipulati con Gheddafi (39), sulla base dei quali avvenne anche il respingimento dei ricorrenti – non potrebbe estendersi alle clausole di quegli accordi che contemplavano le interdizioni navali.
Del resto, lo stesso accordo del 3 aprile 2012 consacra espressamente l’impegno delle parti “al rispetto dei diritti dell’uomo, tutelati dagli Accordi e dalle Convenzioni internazionali vigenti”: un richiamo, quest’ultimo, che evidentemente ricomprende anche i principi affermati dalla Corte EDU, interprete qualificato della Convenzione (art. 32).

NOTE

(1) Tra i quali Bankovic e altri c. Belgio e altri sedici Stati contraenti, 24 ottobre e 12 dicembre 2001 (dec.); Medvedyev e altri c. Francia, 29 Marzo 2010; Al-Skeini e altri c. Regno Unito, 7 luglio 2011.

(2) La sentenza richiama sul punto, tra l’altro, i noti precedenti Soering c. Regno Unito, 7 luglio 1989; Chahal c. Regno Unito, 15 novembre 1996; Saadi c. Italia, 28 febbraio 2008.

(3) T.I. c. Regno Unito, 7 marzo 2000 (dec.); M.S.S. c. Belgio e Grecia, 21 gennaio 2011.

(4) C. edu, sent. Sufi and Elmi c. Regno Unito, 28 giugno 2011.

(5) Sul punto la Corte si basa fondamentalmente sul proprio precedente Conka c. Belgio, del 5 febbraio 2002, unica pronuncia – prima di quella in commento – ad aver riscontrato una violazione dell’art. 4 del Protocollo n. 4.

(6) A tale proposito la Corte richiama i propri precedenti Shamayev e altri c. Georgia e Russia, 12 aprile 2005; Jabari c. Turchia, 11 luglio 2000; Conka c. Belgio, del 5 febbraio 2002

(7) Tra i primi commenti alla sentenza, v. MASERA L., La Corte europea dei diritti dell’uomo ha dichiarato i respingimenti collettivi verso la Libia operati nel maggio 2009 contrari agli artt. 3, 4 prot. 4 e 13 CEDU, in penalecomtemporaneo.it, 24 febbraio 2012; MORSELLI C., Hic sunt leones: la Corte di Strasburgo traccia l’invalicabile linea di interdizione nella carta geografica dei respingimenti in alto mare, in Dir. pen. proc., n. 4 del 2012, 509 ss.

(8) La funzione degli importance levels è ben chiarita sul portale della Corte EDU: «They enable you to perform a search according to the importance level of the case-law collection (s):
1 = High importance, Judgments which the Court considers make a significant contribution to the development, clarification or modification of its case-law, either generally or in relation to a particular State.
2 = Medium importance, Judgments which do not make a significant contribution to the case-law but nevertheless do not merely apply existing case-law.
3 = Low importance, Judgments with little legal interest – those applying existing case-law, friendly settlements and striking out judgments (unless these have any particular point of interest».

(9) Ai sensi dell’art. 30 della Convenzione devono essere trattata dalla Grande Camera, tra l’altro, le cause che sollevano «una questione grave relativa all’interpretazione della Convenzione o dei suoi protocolli».

(10) Si tratta di una decisione del 19 gennaio 2010, nella quale l’assenza di collegamento era stata valorizzata dalla Corte quale carenza sopravvenuta di giustificazione ad esaminare il ricorso (ai sensi dell’art. 37, par. 1, lett. c CEDU), e dunque causa di cancellazione dello stesso dal ruolo: il caso riguardava un respingimento differito – dunque posto in essere non in alto mare, bensì immediatamente dopo lo sbarco sul territorio italiano, ai sensi dell’art. 10, comma 2, T.U. imm. – ma dimostra, a fortiori, come le procedure sommarie di allontanamento rendano particolarmente difficile l’esercizio del diritto di difesa da parte dei soggetti rintracciati.

(11) Il tema, particolarmente vasto, è analiticamente affrontato, con riferimento a ciascuna delle norme citate, dal recente Commentario breve alla Convenzione europea dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, a cura di BARTOLE S., DE SENA P., ZAGREBELSKY V., 2012, CEDAM. Per una approfondita disamina ragionata delle più recenti pronunce in argomento, v. i contributi di COLELLA A. e BEDUSCHI L. relativi alla giurisprudenza di Strasburgo 2008 – 2010, in Diritto penale contemporaneo, Rivista Trimestrale, n. unico del 2011, http://www.penalecontemporaneo.it/rivista/rivista/1/.

(12) V. supra, par. 1., sub b).

(13) V. supra, par. 1., sub a).

(14) Con riferimento, più in generale, alle politiche di cd. esternalizzazione delle frontiere nell’UE, v. l’interessante studio di RODIER C., Analyse de la dimension externe des politiques d´asile et d´immigration de l´UE – synthèse et recommandations pour le Parlement européen, in www.europarl.europa.eu.

(15) Sul punto, v. TREVISANUT S., Respingimenti in mare dal punto di vista del diritto del mare, con particolare riferimento alla cooperazione tra l’Italia e la Libia, in Rass. dir. pubbl. europeo, luglio-dicembre 2011, p. 244 ss.

(16) Per una panoramica sulle azioni di respingimento realizzate dall’Italia nelle acque internazionali a partire dal 2009, nell’ambito degli accordi italo-libici, cfr. TERRASI A., I respingimenti in mare di migranti alla luce della Convenzione europea dei diritti umani, in Diritti umani e diritto internazionale, 2009, 591 ss.; DEL GUERCIO A., La compatibilità dei respingimenti di migranti verso la Libia con la Convenzione europea dei diritti umani alla luce del ricorso Hirsi e altri c. Italia, in Rass. dir. pubbl. europeo, luglio-dicembre 2011, p. 255 ss.; LIGUORI A., I respingimenti in mare e il diritto internazionale, relazione presentata al Convegno Il diritto d’asilo in Italia e in Europa, Roma 22 novembre 2010 (agg. 2011), disponibile su www.europeanrights.eu.

(17) V. ad esempio, i dati CESPI nel 2007 http://www.cespi.it/PDF/mig-mare.pdf.

(18) UNHCR, Considerazioni sulla Grecia come Paese d’asilo, 2009, in www.unhcr.it.

(19) Palmisano, Il trattamento del migrante clandestino, in Europa e Mediterraneo. Le regole per la costruzione di una società integrata, Atti del XIV Convegno della SIDI, Napoli, 2010, p. 319.

(20) Cfr., con specifico riferimento ai respingimenti in mare dei migranti, TREVISANUT S., Respingimenti in mare dal punto di vista del diritto del mare, cit., p. 239 ss., nonché la letteratura ivi citata.

(21) SIR ELIHU LAUTERPACHT – DANIEL BETHLEHEM, The scope and content of the principle of non-refoulement: Opinion, agg. 2003, disponibile su www.unhcr.org/419c75ce4.pdf, punto n. 2.

(22) V. nota precedente.

(23) Sul punto si rimanda altresì all’analitica concurring opinion pronunciata nella sentenza Hirsi dal giudice Pinto De Albuquerque.

(24) V. i riferimenti bibliografici citati supra alla nota n. 11.

(25) V. G. COHEN-JONATHAN, La Convention européenne des droits de l’homme, Paris, 1989, p. 84 e 304 ; F. SUDRE, Extradition et peine de mort : arret Soering de la Cour européenne des droits de l’homme du 7 juiliet 1989, in Rev. gen. dr. int. pub, 1990, 108.

(26) UNHCR, Parere consultivo sull’applicazione extraterritoriale degli obblighi di non-refoulement derivanti dalla Convenzione relativa allo status dei rifugiati del 1951 e dal suo Protocollo del 1967, 2007, in www.unhcr.it, punto n. 34.

(27) SIR ELIHU LAUTERPACHT – DANIEL BETHLEHEM, The scope and content, cit., punto n. 98.

(28) SIR ELIHU LAUTERPACHT – DANIEL BETHLEHEM, The scope and content, cit., punti nn. 132, 133.

(29) UNHCR, Parere consultivo sull’applicazione extraterritoriale degli obblighi di non-refoulement, cit., punto n. 35.

(30) SIR ELIHU LAUTERPACHT – DANIEL BETHLEHEM, The scope and content, cit., passim.

(31) V., in particolare, sent. Chahal c. Regno Unito, 15 novembre 1996; Ahmed c. Austria, 17 dicembre 1996; Ryabikin c. Russia, 19 giugno 2008.

(32) Nonostante la segnalata progressiva estensione delle maglie dell’art. 33, infatti, resta pur sempre necessario che la minaccia per la vita o la libertà siano collegate ad una delle motivazioni espressamente previste dall’art. 1, lett. A, n. 2 della Convenzione, vale a dire razza, religione, cittadinanza, appartenenza a un gruppo sociale, o opinioni politiche. In tal senso v. UNHCR Handbook on Procedures and Criteria for Determining Refugee Status, Conclusion No. 15 (XXX) 1979, para. 66, in www.unhcr.it.

(33) SACCUCCI A., Il diritto di asilo nella Convenzione europea dei diritti umani, in Rass. dir. pubbl. europeo, luglio-dicembre 2011, p. 101 s.

(34) Per l’esame di tali strumenti ed i requisiti per accedervi si rinvia all’ottimo Speciale su diritto d’asilo e accoglienza pubblicato l’11 giugno 2011 su www.meltingpot.org.

(35) V., per tutte, la più volte citata Conka c. Belgio, del 5 febbraio 2002.

(36) In tal senso si esprime la concurring opinion pronunciata nella sentenza Hirsi dal giudice Pinto De Albuquerque.

(37) Ciò emerge in maniera evidente dai reports delle organizzazioni internazionali citati nella sentenza Hirsi: v. supra, par. 1., sub b).

(38) Il testo dell’accordo, inizialmente segreto, è stato diffuso dal quotidiano La Stampa a metà giugno: http://www.lastampa.it/_web/tmplframe/default.asp?indirizzo=http://www.lastampa.it/_web/download/pdf/ruotolo.pdf. Il medesimo testo è stato pubblicato dal sito dell’Associazione per gli Studi Giuridici sull’Immigrazione, che ne ha criticato il contenuto ed ha rivolto un appello al Ministro Cancellieri affinchè garantisca che la gestione dei flussi migratori venga condotta nel rispetto dei diritti fondamentali: http://www.asgi.it/home_asgi.php?n=2267&l=it.

(39) Con riferimento ai quali, v. bibliografia citata supra, alla nota n. 16.