Per la libertà di movimento, per i diritti di cittadinanza
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Un bellissimo articolo scritto da un attivista del Baobab ci fa vivere in prima persona il lavoro del collettivo romano

I sommersi

Un paio di sere al presidio di Baobab Experience

Cosa c’è di diverso stasera? Nulla. Ad affollare questa strada ci sono persone che dormiranno in un letto e persone che dormiranno su un materasso che fa da casa a più esseri della città in cui si trova chi lo sta usando. Sono abituato a quello che vedo tutte le settimane da molti mesi, conosco le voci e le doti degli attivisti del mio collettivo, conosco il suono della lingua degli uomini venuti dal mare e qualcuno di noi comincia ad afferrarne il senso. Si sono aggiunti volti. Tratti più dolci, zigomi più smussati, facce più tonde. Ora ci sono anche i sudanesi e gli etiopi a dormire lungo la stessa fila di tende degli eritrei. Etiopi ed eritrei. I loro paesi si sono combattuti fino a sedici anni fa, ci furono 70mila morti. Gli eritrei hanno la leva a tempo indeterminato nel caso ci fosse un’altra guerra. Un materasso, quando non una tenda da due o quattro posti in poliestere indotto e pavimento in polietilene, quando non una brandina di tela sintetica tesa da un tubo in alluminio, un materasso, lo si trova. Non sempre.
L’altra sera abbiamo montato le tende, donate dai cittadini e da MEDU, sotto la muraglia del cimitero monumentale del Verano, su una piazzola piuttosto ampia e ben lastricata, che ha opposto poca resistenza al trapano del nostro geometra sessantottino. Meno dell’asfalto in cui affondano i picchetti delle tende dall’altro lato della strada. Tra i due campi ci sono tre ordini di corsie, in cui sfreccia il traffico di Roma, e quattro bagni chimici. La sera che li hanno svuotati avevano quasi un buon odore, mentre l’assistente capo della polizia di stato registrava i nostri documenti. Mi è stato subito simpatico, nel suo parlare per formule da verbale, nella sua ironia sulla “poca virilità” della musica d’attesa del centralino della centrale operativa e nello scetticismo rispetto alla ragione della sua presenza. Il presunto furto di materassi, palesatosi nell’attraversamento della Tiburtina da parte di un imprecisato numero di individui dalla carnagione posta particolarmente in risalto dal candido presunto corpo del reato. Più tardi ho visto un uomo che fissava il muro e stavo per avvicinarmi a dirgli dei bagni. Mi sono fermato quando l’ho visto inginocchiarsi e poi incurvarsi toccando terra con i gomiti e la fronte. L’ho detto agli altri perché non lo interrompessero. Mi sono sentito stupido.
Più tardi spazzavo la strada a via Cupa, dove sorgono –in lunghezza- i gazebo/cambusa/presidio e il consolidato manipolo di tende, che lambisce l’ingresso di una sala da tango. Di giorno è impossibile farlo senza che un ospite ti tolga lo strumento di mano, ma in quel momento c’erano solo due ragazzi eritrei che si allontanavano tenendosi per mano. Mi ha sempre colpito questa immagine. Da noi, nemmeno due ragazzi che stanno insieme potrebbero farlo indisturbati. Una voce femminile alle mie spalle si avvicina per “parlare con quello che spazza”. Lei e un uomo si qualificano come “della Questura”. Chiedono se io sia uno dei responsabili. Penso sempre si riferiscano alla migrazione in generale, quando pongono questo interrogativo. La proprietaria della voce inanella una serie di domande da fiera dell’ovvio. Tipo:
«Ma il centro è chiuso? »
«No, stiamo campeggiando perché lo troviamo romantico» (potrei non averlo detto davvero)
«Ma il Comune è venuto?»
«Sì passano sempre gli operatori, poverini. Constatano che alla Croce Rossa non ci sono posti per tutti i presenti, fanno qualche chiamata…»

L’uomo si accomiata dicendo «Se c’è qualcosa…» Suppongo sottintenda “ci chiamate”.
La sera successiva, la notte sotto la muraglia sembrava più scura e si vedevano più stelle. Erano aumentate le persone senza tenda. I rom che vivono in quel lembo di asfalto ci hanno chiesto di tenere pulito, quindi mi aspetto rimproveri quando mi chiamano. Invece mi chiedono perché tutte queste persone siano lì, cosa stiano cercando in questo paese. Gli dico da dove vengono, che strada fanno, quanto ci impiegano, che arrivano dal sud quando si apre il cancello del posto dove li tengono. Evado quando mi chiedono perché noi volontari siamo lì. Non so mai come spiegare. Raggiungo gli altri e capisco che il mio compagno ha lo stesso mio pensiero in testa, mentre guarda gli ultimi arrivati avvolti fin sopra la testa. Sono scomparsi sotto la coperta termica d’emergenza a due facce in alluminio dorato/argentato, gentile omaggio del V Dipartimento “Politiche sociali, abitative e dell’immigrazione” di Roma Capitale. A guardarli, lì sotto, non c’è differenza rispetto alle foto del recupero dei cadaveri nel Mediterraneo. Stavamo pensando la stessa cosa. Diventa più bizzarro pensare a quel muro che separa i morti dai vivi. Forse i morti dai sopravvissuti. Mi chiedo sempre se pensino che ne sia valsa la pena. Se trovino la forza di chiederselo, un giorno.

Cosa c’era di diverso stasera? La storia diversa di A., un ragazzino egiziano. Mi allarmo quando l’amica che mi chiama dice che l’ha appena distolto dal controllo del trafficante che lo ha fatto arrivare a Roma. Li raggiungo all’impersonale bar “dei volontari, degli spazzini e dei poliziotti”, ritardando alla riunione con gli attivisti delle occupazioni e la delegazione di studenti. Penso alle inchieste sulla schiavitù sessuale e l’uso per lo spaccio dei minori di questa nazionalità, che da noi non hanno alcuna prospettiva. Sentiamo i volontari dell’Hub di Milano, contattiamo uno dei nostri attivisti che lavora lì. Andrà a prenderlo al terminal degli autobus. È anche per questo che alla riunione dico che è importante organizzare uno sportello di aiuto legale e di informazione sui trasporti, per provare a intaccare questi sistemi criminali. La cosa che ti tiene sveglio è pensare che, forse, di questa gente non possano fare a meno. Per avere i contanti, innanzitutto. Quanto ci metterebbe la polizia ad accorgersi di cittadini armati di buone intenzioni che acquistano stock di biglietti? E da dove verrebbero i soldi da restituire a chi li anticipa, per far pagare il viaggio per Milano al giusto prezzo? Leggo sempre più spesso che queste persone saranno demograficamente i nuovi europei. Quelli passati attraverso tutte queste umiliazioni. Mi chiedo se queste donne, questi uomini, questi bambini percepiscano l’ingiustizia, l’infinito sfruttamento che accompagna ogni loro bisogno dal momento in cui hanno lasciato il paese. E se ne valga la pena. Nell’incontro, come spesso avviene, ci siamo chiesti cosa e quando risponderà il governo locale, a queste persone in tenda, in attesa di proseguire il viaggio. Mi sono girato verso destra e ho detto che la sera, da quel punto, l’angolo di via Cupa, le nuove tende nemmeno si vedono e che gli ospiti stanno in una strada isolata, che è in centro e in periferia al tempo stesso. È difficile che importi a qualcuno se non dà ancora fastidio a nessuno.

Davide Iaccarino, attivista del Baobab