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Il caso Shalabayeva, la polizia di stato, la tutela dei diritti umani fondamentali: un «malinconico pensiero»

a cura dell'Avv. Giovanni Guarini

Il caso di Alma Shalabayeva balzato agli onori delle cronache negli ultimi giorni offre l’occasione per alcune brevi riflessioni.
Si apprende dagli organi di stampa che la signora Shalabayeva e la minore Alua di sei anni, rispettivamente moglie e figlia di un oppositore politico del dittatore kazako Nazarbayev, nel 2011 decisero di lasciare Londra, dove «pure l’asilo politico britannico concesso ad Ablyazov (rectius il coniuge) le copriva ‘per estensione’, per paura di un attentato» (1). Nella notte fra il 28 e il 29 maggio, gli agenti della Squadra Mobile della Questura di Roma e della Digos fanno irruzione in una abitazione di Casal Polocco (Roma) nell’intento di eseguire un ordine di arresto internazionale a carico Mukthar Ablyazov, (2) e trovano invece solo la moglie e la figlia minorenne del medesimo. Segue un provvedimento di espulsione immediata a carico della signora Shalabayeva, convalidato nelle successive 48 ore, quindi il 31 maggio 2013, dal Giudice di Pace di Roma al C.i.e. di Ponte Galeria, con immediato rimpatrio della donna e della minorenne.

Nell’abitazione romana della donna viene rinvenuto dalla Digos di Roma anche un passaporto rilasciato dalla Repubblica Centroafricana, che viene ritenuto prima facie falso dagli investigatori, che conseguentemente sequestrano il corpo di reato assieme a del denaro e una memory card, comunicando la notizia di reato all’Autorità competente.(3) A seguito di proposizione di impugnazione in data 25 giugno 2013 il Tribunale di Roma sez. Riesame annulla il provvedimento di sequestro sconfessando la circostanza che la signora fosse in possesso di un passaporto diplomatico contraffatto, rilasciato dalla Repubblica Centroafricana.(4)

Il 12 luglio 2013 il ripensamento dell’Autorità Amministrativa e la revoca del provvedimento di espulsione.(5)

Un sicuro oggetto di approfondimento giuridico è costituito dal provvedimento di espulsione amministrativa del 29 maggio 2013 emesso dal Prefetto della Provincia di Roma.

In primo luogo il provvedimento di espulsione amministrativa deve essere fondato sulla carenza ab origine o sul venir meno di un titolo di soggiorno sul territorio dello Stato, ed infatti il provvedimento in questione reca fra le cause dell’espulsione l’essere la cittadina straniera «entrata nel territorio dello Stato sottraendosi ai controlli di frontiera e non è stata respinta ai sensi dell’art. 10 (13 co. 2 l. a) TU 286 del 1998». Tuttavia si apprende dalle fonti giornalistiche che la signora Shalabayeva era in possesso di un permesso di soggiorno rilasciato dalla Lettonia, paese di area Schengen, valido fino a ottobre,(6) e che quindi Le avrebbe permesso quantomeno un legittimo soggiorno di tre mesi nello Stato italiano. (7)

Inoltre, il provvedimento di espulsione in commento ha previsto l’esecuzione dell’espulsione con accompagnamento coattivo alla frontiera a mezzo della forza pubblica (art. 13, co. 4 e 4 bis d. lgs. 286 del 1998), in buona sostanza con rimpatrio immediato dopo la convalida del provvedimento (eseguita entro 48 dalla comunicazione del provvedimento dal Giudice di Pace), circostanza verificatasi, come si è detto, il 31 maggio 2013.

Come è noto l’espulsione è eseguita dal questore con accompagnamento immediato alla frontiera a mezzo della forza pubblica nei seguenti casi:
a) nelle ipotesi di espulsioni ministeriali (art. 13, co. 1, D. lgs. 286 del 1998e art. 3, co. 1, L. n. 155/2005) e nei casi di espulsione per pericolosità sociale (art. 13, co. 2, lett. c) D. lgs. 286 del 1998.);
b) quando sussiste il rischio di fuga di cui al successivo comma 4 bis dell’art. 13;
c) quando la domanda di permesso di soggiorno è stata respinta perché manifestamente infondata o fraudolenta;
d) quando lo straniero, senza un giustificato motivo, non abbia osservato il termine concesso per la partenza volontaria prevista dal nuovo coma 5 dell’art. 13;
e) quando lo straniero abbia violato una delle misure disposte in concomitanza con la concessione del termine per la partenza volontaria ( consegna del passaporto o documento equipollente in corso di validità, obbligo di dimora, obbligo di presentazione presso un ufficio della forza pubblica), oppure una delle stesse misure disposte in alternativa al trattenimento ai sensi dell’art. 14 co. 1 bis;
f) in tutte le ipotesi di espulsioni disposte dall’autorità giudiziaria: artt. 15 e 16 T.U. e ove l’espulsione sia sanzione penale o conseguenza di una sanzione penale;
g) in caso di mancata richiesta del termine per la partenza volontaria (art. 13 co. 5.1).(8)
Nei casi ordinari invece l’Amministrazione deve concedere un termine dai 7 ai 30 gg per la partenza volontaria del cittadino straniero (art. 13 co. 5 D. lgs. 286 del 1998)

Ebbene, nell’ipotesi in questione la Prefettura di Roma ha fondato la propria decisione di disporre l’espulsione con immediato rimpatrio alla frontiera in base alla paventata circostanza del pericolo di fuga e a causa della mancata richiesta da parte della signora Shalabayeva di un termine per la partenza volontaria.

In particolare, il pericolo di fuga viene ritenuto sussistente in quanto la cittadina straniera avrebbe dichiarato di «non voler tornare nel suo paese d’origine», nonché in base alla circostanza che la stessa non avrebbe «fornito un documento utile all’espatrio in corso di validità». Senonchè si apprende dalle fonti giornalistiche che il 25 giugno il Tribunale del Riesame di Roma avrebbe annullato il sequestro del passaporto centroafricano sequestrato alla protagonista della vicenda, proprio ritenendolo genuino.
Quanto alla circostanza di «non voler tornare nel suo paese d’origine» lungi dall’essere ritenuta elemento di suffragio del pericolo di fuga, avrebbe meritato un migliore approfondimento quanto ai motivi di tale contrarietà in correlazione alla possibilità di attivare le tutele previste per i richiedenti protezione internazionale, rispetto alla quale ci si soffermerà nel proseguo della disamina.
Allo stesso modo quanto alla «mancata richiesta di un termine per la partenza volontaria», che avrebbe legittimato l’espulsione immediata della donna, la stessa legge e in particolare l’art. 13 co. 5.1. D. Lgs. 286 del 1998 prevede che: «Ai fini dell’applicazione del comma 5 (rectius che prevede la richiesta dello straniero di un termine per la partenza volontaria), la questura provvede a dare adeguata informazione allo straniero della facoltà di richiedere un termine per la partenza volontaria, mediante schede informative plurilingue» e nel caso in questione non risulta che la destinataria del provvedimento sia stata messa concretamente nelle condizioni con comunicazione in una lingua dalla stessa conosciuta, così come previsto dalla legge, di optare per la concessione di un termine per la partenza volontaria.

Infine, a supporto dell’espulsione con rimpatrio immediato il provvedimento in oggetto enuclea la circostanza che la destinataria «non ha fornito né è in grado di fornire garanzie finanziarie provenienti da fonti lecite utili allo scopo».

Ora, la valutazione di tale elemento non appare essere rilevante nella misura in cui il Prefetto già aveva deciso di non concedere un termine per la partenza volontaria, mentre l’art. 13 co. 5.2 d. lgs. 286 del 1998 prevede che solo: «laddove sia concesso un termine per la partenza volontaria, il questore chiede allo straniero di dimostrare la disponibilità di risorse economiche sufficienti derivanti da fonti lecite, per un importo proporzionato al termine concesso, compreso tra una e tre mensilità dell’assegno sociale annuo». Peraltro tale circostanza avrebbe dovuto essere valutata in rapporto all’avvenuto sequestro di danaro presso l’abitazione della signora Shalabayeva, dato del tutto omesso dall’Amministrazione.

Ma ciò che più di ogni altro elemento lascia perplessi è dato dal fatto che nel decreto di espulsione il Prefetto valuta la possibilità che la cittadina straniera possa chiedere il rispetto del proprio diritto di asilo politico, giungendo a conclusione negativa: «non sussistono le condizioni affinchè alla stessa possa essere rilasciato un permesso di soggiorno per motivi umanitari od altro titolo in quanto non ricorrono in capo alla straniera seri motivi di carattere umanitario o risultanti da obblighi costituzionali o internazionali dello Stato italiano ai sensi dell’art. 5 co. 6 T.U. 286 del 1998 e successive modifiche, né la straniera ha prodotto documentazione che certifichi oggettive e gravi situazioni personali che non consentono l’allontanamento dal Territorio nazionale…, né ricorrono i presupposti di cui all’art. 19 TU 286/1998..».

Nel progresso del tempo si apprende che la signora Shalabayeva è indagata per il reato di corruzione e ristretta nella propria libertà personale in Kazakistan, (9) Paese nel quale, come denuncia il più recente Dossier di Amnesty International, le forze di sicurezza agiscono con impunità e in cui la tortura nei centri di detenzione è la norma.(10)

Da qui alcune considerazioni.
La Direttiva 2008/115/CE del Parlamento Europeo e del Consiglio, c.d. “Direttiva Rimpatri”, recante “norme e procedure comuni applicabili negli Stati membri al rimpatrio di cittadini di paesi terzi il cui soggiorno è irregolare” è stata di recente recepita dal legislatore italiano che ha modificato il c.d. “TU Immigrazione” (D. Lgs. 286 del 1998).(11)
Fra gli obiettivi della direttiva si annovera (considerando 3) l’istituzione di «un’efficace politica in materia di allontanamento e rimpatrio basata su norme comuni affinché le persone siano rimpatriate in maniera umana e nel pieno rispetto dei loro diritti fondamentali e della loro dignità»: il rimpatrio abbinato al rispetto dei diritti umani inviolabili, da qui la regola della concessione di un termine dai 7 ai 30 gg per ritornare volontariamente nel Paese d’origine.
A ciò si aggiunga che anche il rimpatrio volontario trova alcuni limiti quando è in gioco la tutela dei diritti inviolabili dell’uomo, primi fra tutti la vita e l’incolumità individuale: la Convenzione europea dei diritti dell’uomo (resa esecutiva con L. n. 848 del 4 agosto 1955), la Convenzione delle Nazioni Unite contro la Tortura (resa esecutiva con l. n. 489 del 3 novembre 1988) e il Patto Internazionale sui diritti civili e politici (reso esecutivo con L. n. 881 del 25 ottobre 1977) proibiscono la tortura e i trattamenti inumani e degradanti e prescrivono il divieto di refoulment, ovvero di rimpatrio a rischio di persecuzione. Il divieto di refoulment è assoluto e si applica ad ogni persona, senza considerazione né del suo status, né del tipo di imputazione o di condanna, ed indipendentemente dalla natura del trasferimento comprese l’estradizione o l’espulsione fra i quali il divieto di tortura di cui all’art. 3 Convenzione Europea per la Salvaguardia dei Diritti Umani.(12)

La vicenda in oggetto mostra in modo manifesto come gli attori chiamati a dar voce al precetto generale astratto della legge, ed in particolare il Prefetto e l’autorità di Polizia abbiano perseguito obiettivi e fini diametralmente opposti rispetto a quelli anelati dal legislatore comunitario prima e da quello italiano poi.
In un recente saggio sul percorso della democrazia in Italia l’Autore ricorda il clima di “disgelo costituzionale” che è penetrato anche nel corpo di pubblica sicurezza: «negli anni settanta si creò un movimento di ufficiali, agenti e funzionari che si batteva per la smilitarizzazione e la sindacalizzazione della polizia, sfidando la rigida disciplina interna vigilata dai tribunali militari. La riforma disciolse il Corpo delle Guardie di pubblica sicurezza e il Corpo di polizia femminile (creato nel 1959) e stabilì che il relativo personale, assieme ai funzionari civili della carriera direttiva della pubblica sicurezza, entrasse nei ruoli di un nuovo organismo, a struttura interamente civile, denominato polizia di Stato. L’art. 24 della legge istitutiva [rectius l. 121 del 1981] prevede che: “La Polizia di Stato esercita le proprie funzioni al servizio delle istituzioni democratiche e dei cittadini sollecitandone la collaborazione. Essa tutela l’esercizio delle libertà e dei diritti dei cittadini; essa vigila sull’osservanza delle leggi..”».(13) A distanza di più di trent’anni dall’approvazione della legge istitutiva della Polizia di Stato la presente ed altre vicende di cronaca fanno sorgere il dubbio, fondato, che l’Autorità di Polizia non mostri verso i diritti umani fondamentali la medesima sensibilità dimostrata nella repressione dei crimini, come se si trattasse di due obiettivi fra loro antitetici.

La vicenda di Alma Shalabayeva accende i riflettori su una realtà dimenticata e su ingiustizie che vengono perpetrate quotidianamente e vedono come protagonisti gli ultimi, gli invisibili, i disperati senza documenti che si avventurano in Italia in fuga da Paesi in guerra e che approdati nei Paesi “civili” diventano dei numeri, in attesa di essere detenuti e rimpatriati.
Le condizioni di vita degradanti nei Centri di identificazione ed espulsione, da Milano, a Crotone, a Roma, a Milo,(14) denunciate dalle associazioni che si occupano della tutela dei diritti umani, sono divenute notizie quotidiane, “non notizie”, fatti notori al punto di far ritenere ad alcuni Giudici legittime le ribellioni che si verificano all’interno di quei luoghi.(15)
Nella mia esperienza personale ricordo un giovane che soffriva di una grave patologia, incurabile nel proprio Paese d’origine, bisognoso di cure essenziali settimanali, ciò nonostante espulso e inviato per la detenzione in un C.i.e, “salvato” solo dall’Autorità Giudiziaria, o ancora di un tale a rischio di persecuzione in patria in quanto sospetto terrorista con espulsione avallata dal Giudice di Pace ed annullata in Cassazione dopo otto mesi quando ormai era troppo tardi. Chiunque si occupi di diritto dell’immigrazione potrebbe rendere facilmente altri racconti analoghi.
Come ha affermato un autorevole commentatore: «La vicenda di Ama e Alua mostra in filigrana – e attraverso una luce spietata – una moltitudine di espulsi senza nome e senza causa… Un malinconico pensiero agli espulsi senza nome».(16)

Note:
(1) www.ilfattoquotidiano.it
(2) www.repubblica.it
(3) www.tgcom.it
(4) www.repubblica.it
(5) www.ansa.it
(6) www.repubblica.it
(7) cfr. articolo 2, punto 15, del regolamento (CE) n. 562/2006 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 15 marzo 2006
(8) Per una disamina completa cfr. G. Savio,”La nuova disciplina delle espulsioni dopo la legge 129/2011”, in www.meltingpot.org
(9) www.repubblica.it
(10) www.amnesty.it
(11) Modificato precisamente dalla legge 2.8.2011, n. 129 che ha convertito in legge, il Decreto Legge 23.6.2011, n. 89.
(12) Lo afferma pacificamente la Suprema Corte di Cassazione Italiana, ad esempio nella sentenza Cassazione – Sezione sesta – 28 aprile – 28 maggio 2010, n. 20514
(13) D. Gallo, Da Sudditi a cittadini Il percorso della democrazia, Gruppo Abele Edizioni, Torino 2013, 184.
(14) www.meltingpot.org
(15) www.penalecontemporaneo.it
(169 www.repubblica.it