Per la libertà di movimento, per i diritti di cittadinanza

Attenzione: il D.lgs 150/2011 entrato in vigore lo scorso 6 ottobre 2011 ha introdotto nuove disposizioni complementari al codice di procedura civile in materia di riduzione e semplificazione dei procedimenti civili di cognizione, ai sensi dell’articolo 54 della legge 18 giugno 2009, n. 69”, pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale del 21 settembre 2011

Il giudizio di impugnazione davanti al Tribunale del provvedimento sulla protezione internazionale dello straniero

a cura di Patrizio Gattari, Giudice del Tribunale di Milano

Premessa
Con il D.L.vo n. 251 del 19/11/2007 (“norme minime sull’attribuzione, a cittadini di Paesi terzi o apolidi, della qualifica del rifugiato o di persona altrimenti bisognosa di protezione internazionale, nonché norme minime sul contenuto della protezione riconosciuta”) e il D.Lvo n. 25 del 28/1/2008 (“norme minime per le procedura applicate negli Stati membri ai fini del riconoscimento e della revoca dello status di rifugiato”) modificato dal D.Lvo n. 159 del 2008, il legislatore nazionale ha recepito la direttiva n. 2004/83/CE (Direttiva Qualifiche) e la direttiva n. 2005/85/CE (Direttiva Procedure) e ha ridisciplinato la tutela riconosciuta dall’ordinamento ai cittadini extracomunitari e agli apolidi che entrano in Italia e chiedono “protezione”.
Il “decreto procedure” n. 25 del 2008, dopo aver esplicitato all’art. 1 la finalità di stabilire le forme e i tempi per l’esame delle domande di protezione internazionale presentate dagli “stranieri” (tali dovendo intendersi i cittadini di Paesi non appartenenti all’UE e gli apolidi) e per la revoca e la cessazione degli status in precedenza riconosciuti, all’art. 2 lett. b) afferma che per “domanda di protezione internazionale o domanda di asilo o domanda” deve intendersi “la domanda presentata secondo le procedure previste dal presente decreto, diretta ad ottenere lo status di rifugiato o lo status di protezione sussidiaria”.
Il legislatore nazionale facendo propria nel D.Lvo 25/2008 una frequente equiparazione del “rifugio”, dell’ “asilo” e della protezione internazionale in genere che si rinviene nelle fonti sovranazionali, in particolare nella Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo del 1948, nella Convenzione di Ginevra del 28/7/1951 (ratificata con L. 24/7/1954 n. 722 e modificata dal Protocollo di New York del 31/1/1967 ratificato con L. 14/2/1970 n. 95), nella Carta delle Nazioni Unite del 26/6/1945 (ratificata con L. 17/8/1957 n. 848) e nella giurisprudenza della Corte Europea sulla CEDU Convenzione europea di salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (ratificata con L. 4/8/1955 n. 848) – e che può determinare una qualche difficoltà per l’interprete nel ricostruire il complesso sistema di “protezione” riconosciuta allo straniero nel nostro Paese – parrebbe ritenere espressamente equivalenti la domanda di “protezione internazionale” nelle forme tipiche disciplinate ora dal D.Lvo 251/2007 (sub specie di “rifugio” e di “protezione sussidiaria”) e la domanda di “asilo” ex art. 10 comma 3 Cost., prevedendo che lo straniero deve presentare personalmente la domanda (presso l’ufficio di polizia di frontiera al momento del suo ingresso in Italia o presso la questura competente in base alla dimora del richiedente art. 6 D.Lgs 25/2008) che poi va esaminata e decisa dalla Commissione Territoriale per il Riconoscimento della Protezione Internazionale.
Davanti alla Commissione territoriale lo straniero ha la facoltà (“può”) di farsi assistere a proprie spese da un avvocato, mentre nella (eventuale) successiva fase giurisdizionale di opposizione avverso il diniego della protezione invocata lo straniero deve essere assistito da un difensore e può essere ammesso al patrocinio a spese dello Stato ove ricorrano le condizioni previste dal D.P.R. n. 115 del 2002 (art. 16).
Scopo di questo lavoro è riepilogare talune questioni e dubbi interpretativi, soprattutto di carattere processuale, emersi nei primi anni di applicazione della nuova disciplina ed indicare le soluzioni sinora adottate dal Tribunale di Milano.

L’introduzione della “impugnazione” ex art. 35 D.Lvo 25/2008

Il ricorso
Ultimata la fase amministrativa, qualora la Commissione Territoriale non abbia accolto la domanda di protezione internazionale ovvero quando la Commissione Nazionale per il diritto di asilo abbia, a norma degli artt. 9, 13, 15 e 18 del D.Lvo 251/2007, revocato o dichiarato la cessazione dello status di protezione internazionale in precedenza riconosciuto dalla commissione territoriale, è consentito allo “straniero” di adire il giudice ordinario per la tutela dei suoi diritti.
Il legislatore del 2008 nell’art. 35 del D.Lvo n. 25 ha scelto espressamente per il giudizio di impugnazione il procedimento camerale – rito già applicabile anche in precedenza secondo l’interpretazione data da Cass. Sez. Un. 17/11/2008 n. 27310 all’art. 1 co. 6 del D.L.. n. 416 del 1989 (conv. In L. n. 39 del 1990) laddove era prevista la proposizione della domanda mediante “ricorso” – che si svolge davanti al tribunale in composizione monocratica, adito dallo straniero con un ricorso sottoscritto da un difensore munito di valida procura alle liti e al quale vengono indirizzate tutte le comunicazioni e le notificazioni (artt. 16 comma 2 e 35 comma 3). (Nell’ultima versione dello “Schema” di decreto legislativo attuativo della delega concessa al Governo dall’art. 54 della L. n. 69 del 2009 – per la “riduzione e semplificazione dei procedimenti civili di cognizione” – l’art. 17, relativo alle “controversie in materia di riconoscimento della protezione internazionale”, prevede invece che le impugnazioni ex art. 35 D.Lvo 25/2008 “sono regolate dal rito sommario di cognizione”, per quanto non diversamente disposto dal medesimo art. 17).

Sospensione dell’efficacia del provvedimento impugnato
Per effetto del deposito del ricorso l’efficacia del provvedimento che ha respinto la domanda di protezione internazionale o che ha dichiarato la revoca o la cessazione dello status è sospesa ex lege (comma 6 dell’art. 35).
La sospensione automatica è tuttavia esclusa nei casi espressamente previsti nei commi 7 e 8 dell’art. 35, in particolare quando il ricorso faccia seguito ad un provvedimento della Commissione territoriale che ha dichiarato inammissibile la domanda ex art. 29 (perché il richiedente ha già ottenuto il riconoscimento dello status di rifugiato da un altro Paese firmatario della Convenzione di Ginevra e può ancora avvalersi di tale protezione, o ha reiterato la domanda di protezione sulla quale la commissione si è già pronunciata senza addurre nuovi elementi sulla sua situazione personale o sulla situazione del suo Paese di origine), ovvero che ha rigettato la domanda per “manifesta infondatezza” ex art. 32 co. 1 lett. b-bis (ravvisando la palese insussistenza dei presupposti previsti dal D.Lvo 251/2007 o ritenendo essere stata presentata al solo scopo di impedire o ritardare un provvedimento di espulsione o di respingimento), ovvero ancora pronunciato ai sensi dell’art. 22 co. 2 (nei confronti di un richiedente che si è allontanato senza giustificato motivo dal centro di accoglienza) o quando il ricorso è proposto da un richiedente ospitato in un centro di accoglienza nelle ipotesi previste dall’art. 20 co. 2 lett. b) c) (ha presentato domanda dopo essere stato fermato per aver eluso o tentato di eludere il controllo alla frontiera o subito dopo o ha presentato la domanda dopo essere stato fermato in condizioni di soggiorno irregolare) o infine quando il ricorrente è trattenuto in uno dei centri previsti dall’art. 14 T.U. Immigr per una delle ragioni indicate dall’art. 21.
In tutti i casi in cui il deposito del ricorso non comporta la sospensione automatica del provvedimento impugnato, la sospensione può essere chiesta dall’interessato contestualmente al deposito del ricorso quando ricorrono “gravi e fondati motivi” e il giudice provvede entro cinque giorni con ordinanza non impugnabile, anche apposta in calce al decreto con cui fissa l’udienza.

Decreto di fissazione dell’udienza camerale
A seguito del deposito del ricorso il giudice fissa con decreto in calce all’atto introduttivo l’udienza camerale di comparizione delle parti e dispone che, a cura del cancelliere, il ricorso ed il decreto siano notificati al ricorrente e al Ministero dell’Interno presso la commissione amministrativa che ha emesso il provvedimento impugnato e comunicati al Pubblico Ministero (comma 5 dell’art. 35).
Il processo si svolge con le modalità dei procedimenti camerali (comma 4) e non è previsto un temine minimo a comparire; tuttavia, trattandosi di un giudizio contenzioso su diritti fondamentali della persona, il rispetto del principio costituzionale del giusto processo (art. 111 Cost.), da svolgersi nel contraddittorio fra le parti che vanno messe nelle condizioni di esplicare appieno il diritto di difesa, impone che il giudice preveda un congruo lasso di tempo fra la notifica dell’atto introduttivo e l’udienza camerale. La prassi del Tribunale di Milano è nel senso che nel decreto di fissazione dell’udienza viene disposto che il ricorso ed il decreto siano notificati e comunicati alle parti almeno trenta giorni prima dell’udienza camerale. In considerazione della peculiarità delle situazioni soggettive che costituiscono oggetto del processo, della spiccata celerità e semplicità del rito e del dovere di “cooperazione” del giudice nella ricerca anche d’ufficio della prova dei fatti allegati a sostegno della domanda di protezione, nello stesso decreto in calce al ricorso introduttivo viene invitato il ricorrente a comparire di persona all’udienza camerale per rendere l’interrogatorio libero sui fatti rilevanti per la decisione (e a presentarsi con un interprete di sua fiducia qualora non abbia sufficiente conoscenza della lingua italiana), a depositare l’eventuale ulteriore documentazione in suo possesso che possa fornire sostegno probatorio alla domanda di protezione e ad indicare le generalità di persone in grado di riferire circostanze utili. Viene altresì invitata la commissione che ha emesso il provvedimento opposto a depositare “tutti gli atti e la documentazione che ritiene necessari ai fini dell’istruttoria” (ai sensi del comma 9 dell’art. 35), nonché a comunicare le informazioni aggiornate sulla situazione del Paese di origine del ricorrente (ex art. 8 comma 3) e che possono assumere rilievo per la decisione del caso concreto. Nei giudizi di primo grado davanti al Tribunale di Milano la commissione territoriale solitamente fa pervenire all’ufficio copia della domanda di protezione presentata alla questura, del verbale di audizione del richiedente e del provvedimento di rigetto, mentre normalmente non deposita alcun documento utilizzato nella fase amministrativa per la decisione e solo di recente invia a volte informazioni sulla situazione del Paese di provenienza dello straniero.
La necessità della difesa tecnica implica che l’opposizione proposta personalmente dallo straniero va dichiarata inammissibile, mentre gli eventuali vizi e difetti della procura alle liti rilasciata al difensore si ritiene sanabile nelle forme previste per il giudizio di cognizione dall’art. 182 c.p.c., che costituisce espressione di un principio generale dell’ordinamento processuale applicabile anche al rito camerale.
La previsione che nel ricorso in opposizione al tribunale lo straniero deve essere assistito da un difensore comporta altresì che la domanda – al pari di tutte quelle che si introducono con ricorso e in assenza di deroghe espressamente previste dalla legge – vada introdotta mediante deposito in cancelleria del ricorso e che non possa essere ritenuta ritualmente proposta l’opposizione mediante spedizione a mezzo posta all’ufficio giudiziario dell’atto introduttivo del giudizio.
Nel primo grado il Ministero dell’Interno, ove non ritenga di costituirsi avvalendosi della difesa tecnica dell’Avvocatura dello Stato, può stare in giudizio a mezzo di un rappresentante designato dalla commissione amministrativa che ha emesso il provvedimento opposto (comma 9 dell’art. 35)

Patrocinio a spese dello Stato
L’ammissione al patrocinio a spese dello Stato ex D.P.R. n. 115 del 2002 è molto frequente in questo tipo di controversie per la normale situazione di indigenza in cui versa il richiedente protezione.
L’amministrazione statale convenuta/resistente resta di solito contumace nel giudizio di primo grado (almeno davanti al Tribunale di Milano) e quando esso si conclude con il rigetto del ricorso la contumacia della PA esonera dal pronunciare sulle spese ex art. 92 c.p.c.
In caso di esito favorevole del ricorso e quindi di accoglimento dell’opposizione proposta dallo straniero ammesso al patrocinio, con la sentenza che definisce il procedimento di primo grado non vengono poste a carico del Ministero dell’Interno soccombente le spese di lite, sulla base dell’art. 133 del T.U. Spese di Giustizia. Tale norma prevede, infatti, che in caso di soccombenza della parte non ammessa al patrocinio il giudice dispone che la rifusione delle spese processuali avvenga in favore dello Stato; nel caso di accoglimento dell’opposizione ex art. 35 la parte soccombente non ammessa è l’amministrazione statale che sarebbe quindi tenuta a rifondere le spese a se stessa.
In alcuni casi “limite”, soprattutto quando l’opponente ammesso al patrocinio a spese dello Stato dopo il deposito del ricorso non svolge nessuna ulteriore attività difensiva e, nonostante l’espresso invito contenuto nel decreto di fissazione dell’udienza, non compare neppure a rendere l’interrogatorio libero e la causa viene trattenuta in decisione, si è provveduto ex art. 136 comma 2 ult. parte D.P.R 115/2002 a revocare l’ammissione al patrocinio a spese dello Stato, ritenendo che l’interessato ha agito con colpa grave. L’aggravio per l’erario del patrocinio “gratuito” non sembra affatto giustificabile allorché il comportamento processuale della parte è indice inequivoco che il giudizio ex art. 35 è stato strumentalmente introdotto solo in considerazione dei tempi tecnici necessari per la sua definizione del giudizio e per avvalersi della sospensione automatica degli effetti del provvedimento di rigetto che consegue normalmente al deposito del ricorso, senza tuttavia che poi il ricorrente abbia neppure tentato di provare la fondatezza della domanda stessa (almeno attraverso l’interrogatorio libero necessario, fra l’altro, per vagliare la sua “credibilità”).

Competenza
Il ricorso in opposizione ex art. 35 comma1 D.Lvo 25/2008 avverso il provvedimento della Commissione territoriale – che all’esito del procedimento amministrativo ha totalmente respinto la domanda di protezione o che ha riconosciuto allo straniero la sola protezione sussidiaria – va proposto al tribunale del capoluogo del distretto di corte d’appello in cui ha sede la commissione territoriale, ovvero al tribunale del capoluogo del distretto di corte in cui ha sede il centro di accoglienza per i richiedenti asilo o il centro di identificazione ed espulsione, nel caso in cui al momento della domanda avanzata in sede amministrativa lo straniero fosse stato accolto o trattenuto in uno di tali centri previsti dagli artt. 20 e 21 del D.Lvo 25/2008.
La competenza territoriale per l’opposizione in tal caso va individuata nel tribunale del capoluogo di distretto di corte di appello in cui ha sede la commissione territoriale che ha emesso il provvedimento impugnato, ovvero nel tribunale distrettuale presso il quale ha sede il centro in cui lo straniero è stato accolto o trattenuto al momento della presentazione della domanda di protezione in sede amministrativa. La Cassazione ha affermato che, ai fini dell’individuazione del tribunale territorialmente competente a conoscere dell’opposizione, non ha alcun rilievo che, al momento in cui viene proposto il ricorso giurisdizionale, lo straniero non si trovi più presso il centro di identificazione o di accoglienza in cui era stato ospitato o trattenuto inizialmente, poiché in tal caso il “foro speciale” previsto dal legislatore si fonda sulla situazione iniziale e non sulle modifiche medio tempore intervenute, per cui l’opposizione va comunque proposta davanti al tribunale del distretto in cui si trova il centro ove è stato accolto/trattenuto lo straniero (Cass. sez. 1 ord. 19/8/2010 n. 18723; conf. Cass. sez. 6 ord. 20/11/2010 n. 23573).
Vertendosi in tema di procedimento camerale nel quale è parte necessaria il Pubblico Ministero, la competenza per territorio nei giudizi di opposizione di cui si discute è inderogabile a norma dell’art. 28 c.p.c. e l’incompetenza del giudice adito deve essere rilevata anche d’ufficio (art. 38 c.p.c.), senza che operi in tal caso la preclusione temporale della “prima udienza” prevista dal comma 3 dell’art. 38 c.p.c. non applicabile ai procedimenti camerali.
A seguito della modifica apportata dalla L. n. 69 del 2009 al codice di rito, per quanto riguarda il provvedimento – “ordinanza” e non più sentenza – con cui il giudice è ora chiamato a pronunciare l’incompetenza, è sorto il dubbio che anche il giudice dell’opposizione ex art. 35 D.Lvo 25/2008 dovesse provvedere con ordinanza anziché con sentenza. La specialità del rito camerale disciplinato dal legislatore e la sua intrinseca celerità inducono tuttavia a ritenere preferibile che anche la pronuncia con cui il tribunale adito definisce la fase di giudizio davanti a lui dichiarando l’incompetenza vada adottata con “sentenza”, ai sensi del comma 10 dell’art. 35 D.L.vo 25/2008.

Termine per proporre l’impugnazione/opposizione
Ulteriore verifica “preliminare” che il giudice dell’opposizione avverso il diniego della commissione territoriale è tenuto a compiere è che l’opposizione sia stata proposta tempestivamente.
Il comma 1 dell’art. 35 prevede infatti che il ricorso va proposto “a pena di inammissibilità” nei trenta giorni successivi alla comunicazione del provvedimento di rigetto allo straniero non ospitato o non trattenuto in uno dei centri previsti dagli artt. 20 e 21, mentre il termine per proporre l’opposizione – sempre “a pena di inammissibilità” – è di quindici giorni dalla comunicazione del provvedimento negativo qualora l’opponente sia accolto o trattenuto in uno di tali centri.
L’onere di provare la tempestività dell’opposizione – condizione di ammissibilità della stessa – grava sull’opponente il quale, secondo l’esplicita previsione contenuta nel comma 1 dell’art. 35, è tenuto ad “allegare copia del provvedimento impugnato”, proprio al fine di consentire al tribunale adito di verificare sia la propria competenza territoriale sia la tempestività dell’opposizione proposta.
Le gravi conseguenze che derivano dalla tardiva proposizione dell’opposizione – pronuncia di inammissibilità della stessa – inducono ad interpretare restrittivamente le ipotesi in cui trova applicazione la previsione del termine dimidiato (quindici giorni dalla comunicazione) contenuta nell’ultimo periodo del comma 1 per proporre l’opposizione da parte dello straniero accolto o trattenuto in un centro. Se al fine di individuare il giudice territorialmente competente a conoscere dell’opposizione può convenirsi con la richiamata pronuncia della Cassazione (18723/2010) secondo cui ciò che rileva è che nel momento “iniziale” in cui lo straniero ha avanzato in via amministrativa la domanda di protezione sia stato accolto o trattenuto in uno dei centri ex artt. 20 e 21 – ed essendo irrilevante ai fini della individuazione del giudice competente sull’opposizione che nelle more del procedimento amministrativo abbia poi lasciato il centro – analogo criterio non pare debba applicarsi per la individuazione del termine di decadenza dall’opposizione. Una lettura costituzionalmente orientata che eviti di addivenire ad un’irragionevole e ingiustificata disparità di trattamento e che si risolva in una compromissione del diritto di azione, in contrasto con gli artt. 3 e 24 della Costituzione, sembra imporre di ritenere che il termine “breve” di quindici giorni dalla comunicazione del provvedimento negativo per poter adire il giudice si applica solo allo straniero che al momento in cui riceve tale comunicazione si trovi ospitato o trattenuto presso il centro, non anche per colui che vi si trovava all’epoca in cui ha presentato la domanda all’autorità amministrativa ma che nelle more del procedimento ha lasciato il centro di accoglienza o di identificazione ed espulsione.
Con riferimento all’opposizione avverso la decisione della Commissione nazionale che – a norma degli artt. 9, 13, 15 e 18 del D.Lvo 251/2007 – pronuncia la revoca o la cessazione dello status di rifugiato o di persona ammessa alla protezione sussidiaria in precedenza riconosciuti dalla Commissione territoriale, il comma 2 dell’art. 35 prevede che lo straniero è ammesso a far ricorso al tribunale competente in relazione alla sede della commissione che aveva riconosciuto la protezione, senza che assuma alcun rilievo in tal caso il fatto che lo straniero fosse stato accolto o trattenuto inizialmente in uno dei centri di cui agli artt. 20 e 21 e senza alcuna esplicita previsione di un termine di decadenza per proporre il ricorso. Nel silenzio del legislatore, che non ha ritenuto di prevedere un termine di decadenza per proporre l’opposizione avverso il provvedimento di revoca o di cessazione della protezione internazionale emesso dalla Commissione Nazionale, deve ritenersi che lo straniero possa in tal caso proporre il ricorso al tribunale senza il rispetto di un termine perentorio dalla comunicazione del provvedimento della Commissione nazionale, non essendo consentito introdurre in via interpretativa una decadenza dall’azione non prevista espressamente dalla legge.
(Nel richiamato “Schema” di decreto legislativo attuativo della delega per la riduzione e semplificazione dei riti civili, il comma 2 dell’art. 17 – “controversie in materia di riconoscimento della protezione internazionale” – accomuna, sia sotto il profilo del giudice competente che sotto quello del termine di decadenza per proporre l’”impugnazione”, le ipotesi di provvedimento di diniego della protezione emesso dalla Commissione territoriale a quelle di revoca o di cessazione della protezione in precedenza riconosciuta emesso dalla Commissione nazionale per il diritto d’asilo. Competente è sempre il tribunale monocratico del capoluogo di corte di appello in cui ha sede la commissione territoriale che ha emesso il provvedimento sulla protezione internazionale all’esito della prima fase amministrativa ovvero che ha costituito oggetto di revoca o di cessazione mentre, nei casi di accoglienza o di trattenimento dello straniero ai sensi degli artt. 20 e 21 del decreto procedure, la competenza spetta al tribunale del capoluogo di corte in cui si trova il centro “ove il ricorrente è accolto o trattenuto” (comma 2 dell’art. 17), sembrando quindi far riferimento all’effettiva permanenza dello straniero nel centro al momento della proposizione del ricorso giurisdizionale e non a quello anteriore di presentazione della domanda in sede amministrativa. Inoltre il comma 3 dell’art. 17 prevede un termine di decadenza di trenta giorni dalla comunicazione del provvedimento opposto per proporre il ricorso – termine “ridotto alla metà” in caso di accoglienza trattenimento ex artt. 20 e 21 D.Lvo 25/2008 – senza distinzione alcuna fra l’opposizione avverso il diniego della Commissione territoriale e quella proposta avverso la revoca o la cessazione della protezione disposte dalla Commissione nazionale.)

La “rimessione in termini”
Non è raro che, nel ricorso in opposizione proposto in ritardo rispetto al termine di decadenza suddetto, venga dedotta dallo straniero la invalidità del provvedimento impugnato ed invocata la “rimessione in termini” perché il provvedimento non è stato comunicato al richiedente nella lingua dallo stesso indicata o in una delle cd lingue veicolari (inglese, francese, spagnolo o arabo), in conformità a quanto previsto dall’art. 10 del “decreto procedure”. In tal caso, grava sull’amministrazione pubblica opposta l’onere di provare in giudizio che, contrariamente all’assunto del ricorrente, il provvedimento negativo è invece stato portato a conoscenza dell’interessato nella sua lingua o in una delle lingue veicolari e che non è stato tempestivamente opposto. In mancanza di tale prova, l’opposizione va ritenuta ammissibile anche se tardiva, in quanto si può ragionevolmente presumere che lo straniero non è venuto a conoscenza del contenuto del provvedimento e del diritto di impugnarlo entro un termine perentorio. Quando tuttavia risulta tradotto in una lingua nota al richiedente il “verbale di notificazione” del provvedimento di rigetto emesso dalla commissione territoriale e sono richiamati nello stesso “verbale” la data del provvedimento, l’esito del procedimento amministrativo ed è indicato espressamente che l’interessato poteva far ricorso nel termine perentorio di trenta giorni, il Tribunale di Milano ritiene tardiva l’opposizione – anche in assenza di prova dell’avvenuta “traduzione” del provvedimento di rigetto – perché il ricorrente è stato posto nelle condizioni di conoscere l’esito della domanda di protezione e del diritto di adire il giudice ordinario entro il termine di decadenza previsto dalla legge. Analogamente, l’opposizione tardivamente proposta è stata dichiarata inammissibile anche nel caso in cui il ricorrente – dopo aver invocato la rimessione in termini nel ricorso per essergli stato comunicato solo in italiano il provvedimento impugnato – ha poi dichiarato in sede di interrogatorio libero di aver avuto effettiva conoscenza del provvedimento amministrativo e del termine di decadenza ed ha riferito di aver rilasciato tempestivamente la procura al difensore per proporre l’opposizione che tuttavia era stata proposta in ritardo.

La natura non impugnatoria del giudizio
E’ opinione pressoché unanime in dottrina e giurisprudenza che l’opposizione ex art. 35 non costituisce un’impugnazione tecnicamente intesa.
Come detto, il legislatore prevede un sistema “bifasico” che consente al richiedente la protezione internazionale di adire il giudice solo proponendo “ricorso” contro il diniego totale o parziale della sua domanda esaminata nella fase amministrativa.
Come puntualmente evidenziato da autorevole dottrina (A. Proto Pisani “In tema di protezione internazionale dello straniero”, Foro it., 2010, I, 3043), la limitazione temporale del diritto di adire il giudice per la tutela di un diritto fondamentale della persona può ritenersi costituzionalmente legittima solo a condizione che la fase amministrativa abbia una durata ragionevole e che comunque in sede di “impugnazione/opposizione” vi sia la totale ed automatica devoluzione al tribunale della situazione soggettiva oggetto dell’invocata protezione.
Il giudice dell’opposizione non è vincolato ai motivi dedotti nel ricorso ed è chiamato a pronunciarsi sulla fondatezza della domanda di protezione internazionale in base alle allegazioni del ricorrente ed alle risultanze istruttorie acquisite anche d’ufficio all’esito del procedimento camerale. Il sindacato del giudice dell’opposizione avverso il diniego alla domanda di protezione avanzata dallo straniero non è un sindacato sul provvedimento amministrativo – peraltro solitamente alquanto scarno di motivazione – che ha respinto (in tutto o in parte) la domanda di protezione, ma sul diritto assoluto dello straniero ad ottenere la forma di protezione che l’ordinamento vigente gli riconosce in base alla sua condizione individuale e alla situazione del suo Paese di provenienza.

Mancata comparizione delle parti
E’ tutt’altro che infrequente, anche per il fatto che la proposizione dell’opposizione comporta nella maggior parte dei casi l’automatica sospensione del provvedimento opposto – o meglio del provvedimento di espulsione che normalmente consegue al rigetto della domanda di protezione – che dopo la proposizione dell’opposizione nessuna delle parti compaia all’udienza camerale fissata nel decreto dal giudice ovvero ad un’udienza successiva a cui il procedimento è stato rinviato per l’espletamento di attività istruttoria o per la decisione.
Poiché non si tratta di un’impugnazione tecnicamente intesa, è escluso che nel giudizio di opposizione ex art. 35 trovi applicazione l’art. 348 co. 2 c.p.c. che disciplina la mancata comparizione delle parti alla prima udienza nel giudizio di appello. Come pure, nonostante qualche voce discorde, l’opinione prevalente in giurisprudenza è nel senso che, a fronte della mancata comparizione delle parti, il giudice dell’opposizione ex art. 35 non può applicare il disposto degli artt. 181 e 309 c.p.c. previsto per il giudizio ordinario di cognizione e non applicabile al rito camerale, né può definire il processo con un rigetto in rito ritenendo tacitamente rinunciata la domanda. Dopo un’iniziale incertezza dettata anche da una pronuncia della Corte di Appello (adita con l’impugnazione avverso il provvedimento del tribunale che, in un caso di mancata comparizione delle parti, aveva dichiarato “non luogo a provvedere” sulla domanda di protezione, la corte aveva ritenuto che tale provvedimento andasse qualificato come ordinanza di estinzione emessa senza la doverosa fissazione di un’ulteriore udienza da comunicare alle parti ed aveva rimesso il processo al giudice di primo grado), il Tribunale di Milano, tenuto conto della natura dei diritti in conflitto e della peculiarità del procedimento camerale de quo, ha sempre ritenuto che, in caso di mancata comparizione delle parti e qualora risultino ritualmente effettuate le notificazioni e le comunicazione previste dal comma 5 dell’art. 35, il giudizio vada comunque deciso con sentenza sul “merito” della domanda di protezione, in base agli elementi istruttori disponibili, sempre che l’opposizione sia stata proposta tempestivamente e che il giudice adito sia competente per territorio. L’orientamento del tribunale, fondato anche sui precedenti della giurisprudenza di legittimità relativi alla mancata comparizione delle parti nei procedimenti camerali in genere (Cass. 9/1/2009 n. 284; Cass. 7/12/2005 n.27080; Cass. 11/5/2005 n.9930) e nel procedimento di ricongiungimento familiare chiesto da cittadini stranieri in particolare (Cass. 7/12/2005 n.27080), è stato di recente avallato dalla Cassazione, la quale ha affermato che il giudice dell’opposizione (in quel caso la corte di appello adita con il reclamo) “verificata la regolarità della notificazione del ricorso e del decreto deve decidere nel merito (…) restando esclusa la possibilità di una decisione di rinvio della trattazione o di improcedibilità per disinteresse alla definizione o (come nella specie) di non luogo a provvedere” (Cass. 3/8/2010 n. 18043; conf. Cass. 29/11/2010 n. 24168).

L’oggetto dell’impugnazione/opposizione
Diniego della domanda di protezione internazionale o provvedimento di cessazione o revoca dello status di rifugiato o di persona ammessa alla protezione sussidiaria
Una delle questioni più dibattute e tuttora dubbie riguarda l’oggetto dell’opposizione, in particolare le situazioni soggettive tutelabili attraverso il procedimento ex art. 35 D.Lvo 25/2008 e le misure di protezione riconoscibili allo straniero all’esito di tale giudizio.
Il comma 1 dell’art. 35 prevede che “avverso la decisione della Commissione territoriale è ammesso ricorso dinanzi al tribunale (…) anche nel caso in cui l’interessato abbia richiesto il riconoscimento dello status di rifugiato e la Commissione territoriale lo abbia ammesso esclusivamente alla protezione sussidiaria”, mentre il comma 2 riconosce il diritto dello straniero di proporre analogo ricorso al tribunale “avverso la decisione della Commissione nazionale sulla revoca o sulla cessazione dello status di rifugiato o di persona cui è accordata la protezione sussidiaria”. All’esito del procedimento, “Il tribunale, sentite le parti e assunti tutti i mezzi di prova necessari (…) decide con sentenza con cui rigetta il ricorso ovvero riconosce al ricorrente lo status di rifugiato o di persona cui è accordata la protezione sussidiaria” (comma 10).
Detto che non si tratta di un’impugnazione, per poter individuare l’oggetto del giudizio di opposizione ex art. 35 e il thema decidendum su cui il giudice è chiamato a pronunciarsi è necessario muovere dal dettato normativo e dalle possibili “forme di protezione” che possono essere riconosciute allo “straniero”.
Il giudizio di opposizione viene introdotto su domanda dello straniero (unico soggetto legittimato a introdurre il giudizio di primo grado), il quale può fare ricorso anche nel caso in cui la Commissione territoriale gli abbia riconosciuto la sola protezione sussidiaria ovvero quando, pur non avendo accolta la domanda di protezione internazionale in nessuna delle due forme previste dal D.Lvo 251/2007 (rifugio o protezione sussidiaria), abbia comunque ravvisato la sussistenza di gravi motivi di carattere umanitario e trasmesso ex art. 32 comma 3 del D.Lvo 25/2008 gli atti al questore per l’eventuale rilascio del permesso di soggiorno ai sensi dell’art. 5 co. 6 del D.Lvo n. 286 del 1998 (T.U. Immigrazione).
Il sistema di tutela delineato dal decreto procedure è tale da far ritenere inammissibile da parte del giudice la “reformatio in peius” del provvedimento amministrativo opposto dallo straniero. Non è consentito al giudice revocare la protezione sussidiaria riconosciuta dalla Commissione territoriale, né dichiarare non sussistenti i gravi motivi di carattere umanitario che la stessa ha ravvisato e che l’ha indotta a trasmette gli atti al questore per il rilascio del “permesso umanitario”. La forma di protezione (sussidiaria o umanitaria) riconosciuta allo straniero all’esito della iniziale fase amministrativa non costituisce oggetto di riesame nel giudizio di opposizione, né può essere oggetto di (inammissibili) domande riconvenzionali avanzate dal Ministero dell’Interno, posto che la tutela “minore” accordata allo straniero è frutto di una decisione tecnica adottata da un’articolazione periferica dello stesso Ministero dell’Interno (la Commissione territoriale). La cessazione o la revoca delle misure di protezione internazionale riconosciute in sede amministrativa allo straniero sono disciplinate dal D.Lvo 251/2007 e solo la Commissione Nazionale per il diritto d’asilo è legittimata a provvedere in tal senso – in presenza dei presupposti previsti dalla legge (artt. 9, 13, 15 e 18) – mediante i relativi procedimenti amministrativi i cui provvedimenti finali, ove peggiorativi dello “status” in precedenza riconosciuto allo straniero, sono autonomamente impugnabili dall’interessato davanti al giudice ordinario ex art. 35 co. 2 D.Lvo 25/2008.
Al giudice dell’opposizione pare dunque devoluta solo la cognizione sulla domanda di protezione internazionale integralmente respinta dalla Commissione territoriale all’esito della fase amministrativa, ovvero solo sulla forma di protezione “maggiore” (status di rifugiato) negata dall’autorità amministrativa.
Il D.Lvo 251/2007 prevede, come detto, una (unica) “domanda di protezione internazionale” avanzata dallo straniero all’autorità amministrativa e la Commissione territoriale chiamata a valutarla non è vincolata al “tipo” di protezione eventualmente richiesto dallo straniero: qualora il richiedente in ipotesi invochi la sola protezione sussidiaria e la Commissione riscontri invece i presupposti per il riconoscimento dello status di rifugiato è tenuta a riconoscere la forma di tutela “maggiore”.
Fermo restando che ove viene riconosciuto dall’autorità amministrativa lo “status di rifugiato” – che costituisce la forma “maggiore” di protezione internazionale prevista dall’ordinamento – lo straniero all’evidenza è carente di interesse giuridico a proporre l’opposizione ex art. 35, allorché il ricorso faccia seguito alla decisione della Commissione territoriale che ha respinto totalmente la domanda di protezione internazionale, il giudice adito è investito dell’intera (unica) domanda inizialmente avanzata dal richiedente e ben può riconoscere allo straniero sia lo status di rifugiato, sia quello di persona cui è accordata la protezione sussidiaria come espressamente previsto dal comma 10 dell’art. 35.
Maggiori problemi si pongono con riferimento alla possibilità che il giudice sia ammesso a riconoscere al ricorrente, all’esito del giudizio di opposizione ex art. 35 di cui si discute, il cd diritto di asilo costituzionale (ex art. 10 comma 3 Cost.) ovvero il diritto al rilascio di un permesso di soggiorno per ragioni umanitarie (ex art. 5 comma 6 T.U. Immigrazione), quest’ultima solitamente ritenuta un’ulteriore forma “residuale” e “minore” di protezione.
Sul punto non si riscontrano opinioni concordi e il Tribunale di Milano, dopo l’entrata in vigore del D.Lvo 25/2008 è orientato a non ritenere ammissibile la domanda di “asilo costituzionale” ex art. 10 co. 3 Cost., né la domanda di cd “protezione umanitaria” ex art. 5 co. 6 T.U.Immigr (che sovente il ricorrente avanza in subordine).

Il cd “asilo costituzionale”
A fronte dell’esplicita previsione contenuta nel richiamato art. 2 lett. b) del D.Lvo 25/2008 (per “domanda di protezione internazionale o domanda di asilo o domanda” deve intendersi “la domanda presentata secondo le procedure previste dal presente decreto, diretta ad ottenere lo status di rifugiato o lo status di protezione sussidiaria”), dopo l’entrata in vigore del “decreto procedure” ed anche sulla base della più recente giurisprudenza della Cassazione in tema di asilo, le domande di asilo ex art. 10 Cost. autonomamente avanzate dallo straniero con citazione e senza il preventivo esperimento della fase amministrativa davanti alla Commissione territoriale, ovvero dopo l’esaurimento di tale fase amministrativa e dell’eventuale giudizio di opposizione ex art. 35, vengono dichiarate inammissibili.
Il tenore letterale del D.Lvo 251/2007 pare infatti inequivoco nel senso che anche la “domanda di asilo” deve necessariamente essere dapprima avanzata dallo straniero all’autorità amministrativa nelle forme previste dal medesimo “decreto procedure”, con la conseguenza che va dichiarata inammissibile la domanda volta ad ottenere il riconoscimento del diritto di asilo ex art. 10 comma 3 Cost. proposta direttamente con citazione al giudice ordinario, al pari dell’identica domanda avanzata dallo straniero dopo l’infruttuosa opposizione ex art. 35 D.Lvo 25/2008 o senza che sia stata proposta l’opposizione avverso il provvedimento negativo della Commissione territoriale. Secondo il più recente insegnamento della Cassazione, infatti, “in assenza di una legge organica sull’asilo politico che, in attuazione del dettato costituzionale, ne fissi le condizioni, i termini, i modi e gli organi competenti in materia di richiesta e di concessione, il diritto di asilo deve intendersi come diritto di accedere nel territorio dello Stato al fine di esperire la procedura per ottenere lo “status” di rifugiato politico, e non ha un contenuto più ampio del diritto di ottenere il permesso di soggiorno temporaneo (…)” (Cass. 23/8/2006 n.18353; conf. Cass. 1/9/2006 n.18940). Pertanto, il diritto di asilo previsto dalla Costituzione, allo stato della legislazione vigente e nonostante la portata precettiva della norma costituzionale – affermata dalle Sezioni Unite della Cassazione nella nota sentenza del 26/5/1997 n. 4674, laddove è stato riconosciuto un diritto soggettivo all’asilante e affermata la giurisdizione del giudice ordinario su di esso – parrebbe non costituire per lo straniero che invochi protezione una posizione soggettiva autonoma e distinta da quelle previste dal D.L.vo 251/2007 e, soprattutto, destinata a sopravvivere al rigetto della domanda di protezione internazionale avanzata nelle forme della citata disciplina.
Tale indirizzo giurisprudenziale viene criticato in considerazione del fatto che i presupposti previsti dall’art. 10 comma 3 della Costituzione per il riconoscimento del diritto di asilo non coincidono affatto con quelli previsti inizialmente dalla Convenzione di Ginevra per il riconoscimento dello status di rifugiato, né con quelli richiesti ora dal D.Lvo 251/2007 per il riconoscimento del medesimo status o della protezione sussidiaria.
L’art. 10 comma 3 Cost. afferma infatti che “lo straniero, al quale sia impedito nel suo paese l’effettivo esercizio delle libertà democratiche garantite dalla Costituzione italiana, ha diritto d’asilo nel territorio della Repubblica, secondo le condizioni stabilite dalla legge”.
Non è questa la sede per richiamare i dubbi sollevati dagli interpreti su quali debbano intendersi le “libertà democratiche garantite dalla Costituzione” il cui “effettivo esercizio” deve risultare “impedito” allo straniero nel suo Paese, ma se tale norma ha carattere precettivo, come solitamente si ritiene, ed attribuisce allo straniero che si trovi nelle condizioni ivi previste il “diritto d’asilo nel territorio della Repubblica”, non pare condivisibile interpretare la previsione “secondo le condizioni stabilite dalla legge” contenuta nell’ultima parte del medesimo comma 3 Cost. nel senso che la legge possa restringerne la portata sotto il profilo soggettivo o oggettivo. In altri termini, se si ritiene che la Costituzione italiana riconosce il “diritto di asilo” al cittadino straniero il quale dimostri di trovarsi nella condizione di aver inutilmente tentato di esercitare nel suo Paese le libertà democratiche garantite dalla nostra Carta fondamentale e che tale effettivo esercizio delle libertà gli venga impedito e per tale ragione ha deciso di lasciare il suo Paese e di chiedere asilo in Italia, se ne dovrebbe far derivare che la legge che intenda attuare il precetto costituzionale – nello stabilire le “condizioni” alle quali lo straniero può essere ammesso a godere di tale diritto – non può “restringere” la portata di tale diritto fondamentale dell’uomo e introdurre ulteriori e diversi requisiti soggettivi o oggettivi non previsti dalla Costituzione.
Il problema sarà allora per l’interprete di individuare, sulla base dell’ordinamento vigente, la “portata minima” e il “nucleo indefettibile” del diritto di asilo che la nostra Costituzione riconosce allo straniero che si trovi nelle condizioni previste dall’art. 10 comma 3, ma non pare corretto ridurre tale diritto fondamentale al diritto di entrare nel nostro Paese e di restarvi fino a quando non venga esaminata – in sede amministrativa e se del caso giudiziale – la domanda di protezione internazionale volta al riconoscimento dello status di rifugiato o di persona ammessa alla protezione sussidiaria secondo i presupposti dettati nel D.Lvo 251/2007.
Come noto, il riconoscimento dello status di rifugiato – secondo quanto già previsto nella Convenzione di Ginevra – presuppone che lo straniero abbia subito una persecuzione individuale o comunque abbia il fondato timore di subire una persecuzione per motivi di razza, religione, nazionalità, appartenenza ad un determinato gruppo sociale o opinione politica qualora fosse costretto a far rientro nel suo Paese, mentre la protezione sussidiaria è riconosciuta allo straniero il quale, pur non avendo i requisiti per il riconoscimento dello status di rifugiato, qualora fosse costretto a far rientro nel suo Paese vi sono motivi fondati di ritenere che sarebbe esposto al rischio di un grave danno, costituito da condanna a morte, torture, pene o trattamenti inumani o degradanti ai suoi danni o dalla minaccia grave alla vita o alla persona derivante dalla violenza indiscriminata in situazioni di conflitto armato interno o internazionale (D.Lvo 251/2007).
L’art. 10 comma 3 Cost. non richiede per il riconoscimento allo straniero del diritto di asilo né il fondato timore di subire una “persecuzione” individuale per uno dei motivi previsti dalla Convenzione di Ginevra del 1951 e dall’art. 8 del D.Lvo 251/2007 qualora dovesse far rientro nel suo Paese, né il fondato motivo che rientrando nel suo Paese sarebbe esposto ad un grave danno del tipo di quelli previsti dall’art. 14 del medesimo decreto legislativo.
Inoltre, mentre sia la Convenzione di Ginevra (art. 33 co.2) che la Direttiva Qualifiche 2004/83/CE e il D.Lvo 251/2007 che l’ha recepita prevedono delle cause di esclusione dalla protezione per quei soggetti che, pur trovandosi nelle condizioni che legittimerebbero il riconoscimento dello status di rifugiato o la protezione sussidiaria, costituiscono un pericolo per lo Stato che li ospita o rispetto ai quali vi sono fondati motivi per ritenere che abbiano commesso crimini contro la pace o crimini di guerra o contro l’umanità come definiti dagli strumenti internazionali ovvero altri gravi reati o che ricorra una delle ulteriori ipotesi previste dagli artt. 10 e 16 del Decreto Qualifiche (rispettivamente per lo status di rifugiato e per la protezione sussidiaria), l’art. 10 della Costituzione – così come l’art. 3 della CEDU come interpretato dalla Corte di Strasburgo che sancisce il principio di “non refoulement” ed è applicabile a chiunque se respinto o espulso da uno Stato dell’UE sarebbe esposto al rischio di subire torture o pene o trattamenti inumani o degradanti – non prevede analoghe ragioni di esclusione dalla protezione che andrebbe riconosciuta allo straniero avente diritto di asilo.
Se non si condivide che l’art. 10 della Costituzione sino all’adozione di una espressa legge di attuazione – che parrebbe non necessaria a fronte della natura precettiva della norma di cui si è detto – si limita a garantire allo straniero il diritto di entrare nel territorio italiano e di permanervi fino alla decisione sulla domanda di protezione internazionale che può essere accolta riconoscendogli una delle varie forme di tutela previste dall’ordinamento, pare esservi spazio per ritenere che il cd diritto di “asilo costituzionale” ha comunque una sua identità che va oltre le ulteriori forme di protezione e per il cui riconoscimento non sono richiesti né il fondato timore di persecuzione né il motivo fondato di essere esposto a un grave rischio se fosse costretto a far rientro nel suo Paese.

La “protezione umanitaria” ex art. 5 comma 6 D.Lvo 25 luglio 1998 n. 286
Va premesso che ci si occupa unicamente della cd “protezione umanitaria” individuale riconoscibile allo straniero in base al T.U. Immigrazione (artt. 5 co. 6 e 19 co. 1), non venendo in rilievo ai fini in esame la “protezione per rilevanti esigenze umanitarie” prevista dall’art. 20 – cd “protezione temporanea” – e che riguarda fenomeni di migrazione “collettiva” da Paesi extra UE in occasione di conflitti, disastri naturali o altri eventi di particolare gravità e che viene riconosciuta ad una pluralità di cittadini extracomunitari con DPCM adottato d’intesa con vari Ministri.
Un possibile “recupero” del più ampio diritto di asilo costituzionale ex art. 10 Cost. viene spesso individuato nella previsione secondo cui la Commissione territoriale, “nei casi in cui non accolga la domanda di protezione internazionale” ma ritenga che sussistono “gravi motivi di carattere umanitario”, “trasmette gli atti al questore per l’eventuale rilascio del permesso di soggiorno ex art. 5 comma 6 del D.Lvo 286/1998 (T.U. Immigrazione). Identico potere/dovere ha la Commissione nazionale per il diritto di asilo “nel caso di revoca o di cessazione degli status di protezione internazionale”, per l’esplicito richiamo all’art. 32 comma 3 contenuto nell’art. 33 comma 3 del D.Lvo 25/2008.
Dal tenore letterale dell’art. 32 comma 3 del decreto procedure, oltre che dal fatto che tale previsione è espressamente richiamata nell’art. 33 che disciplina la revoca e la cessazione dello “status” di protezione internazionale, pare dedursi che il permesso di soggiorno per “ragioni umanitarie” non costituisce una delle possibili misure di protezione internazionale previste dal D.Lvo 251/2007, bensì un’ulteriore residuale forma “minore” di “protezione” riconoscibile allo straniero, al quale non può essere rifiutato (o revocato) un permesso di soggiorno in presenza di “motivi di carattere umanitario” o in base ad obblighi costituzionali o internazionali dello Stato italiano” (art. 5 comma 6 T.U. Immigr).
I “seri motivi di carattere umanitario” che a norma dell’art. 5 co.6 ultima parte vietano allo Stato italiano di rifiutare un permesso di soggiorno allo straniero o di revocargli un permesso già concesso non sono (volutamente) predeterminati e tipizzati dal legislatore nazionale; in presenza di “seri motivi umanitari” o di obblighi derivanti dalla Costituzione o assunti dall’Italia in sede internazionale non può essere negato né revocato il permesso di soggiorno. Tant’è che, come detto, il decreto procedure prevede espressamente che la commissione amministrativa chiamata a valutare il riconoscimento dello status di rifugiato o di persona ammissibile alla protezione sussidiaria ovvero ancora a dichiarare la revoca o la cessazione di una di tali forme di protezione in precedenza riconosciute allo straniero, qualora ravvisi la sussistenza di “gravi motivi di carattere umanitario”, debba trasmettere gli atti al questore per il rilascio del permesso di soggiorno ex art. 5 comma 6.
Le Sezioni Unite della Cassazione hanno precisato che il diritto dello straniero al rilascio del permesso di soggiorno per motivi umanitari ha natura di diritto soggettivo, da annoverare fra i diritti umani fondamentali che godono della protezione accordata ad ogni individuo dall’art. 2 della Costituzione e dall’art. 3 della CEDU (Cass. sez. un. 9/9/2009 n. 19393 e 16/9/2010 n. 19577), con la conseguenza che la sua tutela è sottratta dalla legge alla discrezionalità amministrativa ed è attribuito alla PA solo l’esercizio di una discrezionalità tecnica nell’accertamento dei presupposti di fatto che legittimano la cd protezione umanitaria (in tal senso, anche, Cass. 11535/2010).

Il principio di “non refoulement”
Tra i “motivi umanitari” che impongono allo Stato italiano il rilascio di un permesso di soggiorno allo straniero e che vietano la revoca di un permesso in precedenza concesso vi è senz’altro il principio del “non refoulement” che costituisce per l’Italia (come per tutti i paesi UE) anche un obbligo derivante dalla CEDU.
Tale principio viene ritenuto il nucleo intangibile (“il cuore”) della protezione dovuta dallo Stato ad ogni straniero, a prescindere dal fatto che abbia o meno diritto al riconoscimento dello status di rifugiato, alla protezione sussidiaria o a qualche altra forma di protezione prevista dall’ordinamento.
Già la Convenzione di Ginevra prevede all’art. 33 comma 1 che “nessuno Stato contraente potrà espellere o respingere (“refouler”) in nessun modo un rifugiato verso frontiere dei luoghi ove la sua vita o la sua libertà sarebbero minacciate a causa della sua razza, religione, nazionalità, appartenenza una determinata categoria sociale o delle sue opinioni politiche”, ma la protezione dal “refoulement” è invocabile solo da colui che in base ai criteri previsti dalla medesima Convenzione può essere ritenuto “rifugiato” e sempre che non rientri in una delle disposizioni di esclusione pure ivi previste; il comma 2 dell’art. 33 contiene tuttavia un’eccezione poiché il divieto di espulsione o di respingimento non opera rispetto al rifugiato il quale per gravi motivi può essere considerato un pericolo per la sicurezza dello Stato in cui si trova, oppure che rappresenta una minaccia per la comunità di detto Stato essendo stato condannato con sentenza definitiva per un crimine o un delitto particolarmente grave.
L’art. 19 comma 1 del T.U. Immigr (D.Lvo 286/1998) prevede che “in nessun caso può disporsi l’espulsione o il respingimento verso uno Stato in cui lo straniero possa essere oggetto di persecuzione per motivi di razza, di sesso, di lingua, di cittadinanza, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali o sociali ovvero possa rischiare di essere rinviato verso un altro Stato nel quale non sia protetto dalla persecuzione” ed ha dunque introdotto nell’ordinamento nazionale il divieto di “non refoulement” per il rifugiato/perseguitato (già previsto dalla Convenzione di Ginevra) senza tuttavia l’eccezione del comma 2 dell’art. 33 sopra richiamato.
L’art. 3 della CEDU, in base al quale “nessuno può essere sottoposto a tortura né a pene o trattamenti inumani o degradanti”, come risulta dall’interpretazione vincolante fornita in varie pronunce dalla Corte di Giustizia Europea, oltre a vietare che uno Stato membro sottoponga chiunque a tortura o a pene o trattamenti inumani o degradanti, vieta altresì a ciascuno Stato di respingere lo straniero o l’apolide verso Paesi in cui sarebbe esposto che al rischio di tortura o a pene o trattamenti inumani o degradanti. Per effetto del richiamo ai vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario contenuto nell’art. 117 Cost., la CEDU è norma interposta fra la legge ordinaria e la Costituzione ed il giudice nazionale è tenuto ad interpretare la norma interna in conformità alla CEDU (così come interpretata in modo vincolante dalla Corte Europea) oltre che alla Costituzione e, nel caso l’interpretazione “convenzionalmente” orientata non sia possibile, deve sollevare la questione di legittimità alla Corte Costituzionale (Corte Cost. sent. n. 347 e 348 del 2007; n. 39 del 2008; n. 239 del 2009; n. 311 del 2009 e n. 317 del 2009).
La portata della garanzia di “non refoulement” contenuta nella CEDU – che non consacra il diritto di asilo, né interferisce con le rispettive discipline di riconoscimento dello status di rifugiato adottate dagli Stati membri – è ben più ampia quindi di quella prevista nelle altre fonti richiamate, poiché si applica in favore di chiunque (sia o meno rifugiato/perseguitato) si troverebbe esposto al rischio di essere sottoposto a tortura o a pene o trattamenti disumani o degradanti e costituisce un principio che non tollera eccezioni. In base alla giurisprudenza della Corte di Strasburgo, infatti, il diritto dello straniero a non essere respinto o espulso verso un qualsiasi Stato in cui correrebbe il suddetto rischio è un diritto assoluto che non può subire limitazioni né bilanciamenti: non assumono alcun rilievo né la causa o l’origine dell’eventuale persecuzione, né i motivi per cui lo straniero potrebbe essere sottoposto a tortura o a pene o a trattamenti disumani o degradanti, né le qualità soggettive dello stesso o il fatto che possa aver commesso gravi delitti, né infine gli interessi dello Stato membro a che non resti nel suo territorio. Lo straniero che, se respinto o espulso, verrebbe a trovarsi nella condizione di subire il rischio che l’art. 3 della CEDU vuole assolutamente prevenire ha un diritto fondamentale ed intangibile nei confronti di ciascuno Stato UE a non essere espulso o respinto (vd, fra altre, le pronunce della Corte Europea nei casi Ben Keimas c. Italia, Hamaraoui c. Italia e Cahal c. Regno Unito). La Corte Europea ha precisato che la tortura o la pena o il trattamento inumano differiscono solo per l’intensità della violenza e che un trattamento risulta degradante quando umilia, avvilisce l’individuo, gli provoca angoscia ecc.. in modo da ridurre la sua capacità di resistenza; nel relativo giudizio da compiere per valutare se lo straniero sarebbe esposto al rischio va tenuto conto anche delle qualità della vittima (anziano, donna, disabile ecc.). Non importa che l’effetto degradante sia voluto dall’autore, perché secondo la Corte Europea ciò che rileva è che esso si riveli tale per la vittima; inoltre il pericolo di essere sottoposto a torture o trattamenti disumani o degradanti non deve necessariamente provenire da uno Stato, ma può anche derivare da organizzazioni criminali, gruppi terroristici ecc. L’onere della prova grava sullo straniero che invoca il diritto a non essere espulso o respinto in base all’art. 3 CEDU, ma lo Stato membro che intende procedere al respingimento o all’espulsione deve valutare la situazione del Paese in cui lo straniero sarebbe inviato. Se gli organismi internazionali che hanno statutariamente il compito di monitorare il rispetto dei diritti umani mettono in guardia sul pericolo di tortura o di trattamento disumano o degradante che potrebbe subire nel Paese in cui verrebbe inviato, allora è lo Stato intenzionato a procedere al respingimento o all’espulsione che in sostanza deve provare che lo straniero non correrebbe tale rischio reale (Caso Saadi c. Italia sent. del 28/2/2008). Il divieto di respingimento ex art. 3 CEDU vige in tutti i luoghi in cui lo Stato dell’UE esercita la propria giurisdizione e su cui ha il controllo effettivo.
In presenza delle condizioni che fanno scattare il principio/divieto di “non refoulement” previsto dalla CEDU ciascuno Stato membro deve in ogni caso esimersi dall’eseguire l’espulsione o il respingimento dello straniero che si trovi in un luogo soggetto al suo controllo effettivo (giurisdizione) e a tale dovere corrisponde un diritto umano fondamentale per lo straniero, tutelabile sia davanti all’autorità nazionale dello Stato in cui si trova sia, all’esito dell’inutile esperimento dei possibili ricorsi “interni”, davanti alla Corte Europea di Strasburgo (artt. 34 e 35 della CEDU). La “garanzia” di “non refoulement” è invocabile da chiunque si vedrebbe esposto al rischio reale di subire torture o pene o trattamenti disumani o degradanti se respinto o espulso dallo Stato membro dell’UE sotto la cui giurisdizione si trova ed è espressione di un diritto fondamentale della persona – intangibile e che non tollera limitazioni o bilanciamenti di sorta – e al tempo stesso costituisce un preciso obbligo per lo Stato di non procedere in tali situazioni al respingimento o all’espulsione dello straniero, pena la violazione della CEDU.
Il diritto fondamentale insito nella garanzia di “non refoulement” non attribuisce uno “status” allo straniero che si trova nel territorio italiano ma gli dà diritto (almeno) al rilascio di un permesso di soggiorno ex art. 5 co.6 T.U. Immigr e, quindi, alla cd “protezione umanitaria” che lo Stato deve riconoscere anche a prescindere da una espressa domanda in tal senso avanzata dall’avente diritto – a differenza delle altre “maggiori” forme di protezione previste dal D.Lvo 251/2007 – in ogni momento in cui si ravvisa il rischio reale che, se respinto o espulso, lo straniero potrebbe essere oggetto di tortura o sottoposto a pene o altri trattamenti inumani o degradanti.
Dopo l’adozione della Direttiva Qualifiche 2004/83/CE e l’entrata in vigore del D.Lvo 251/2007, in considerazione della previsione contenuta nell’art. 34 del medesimo decreto – secondo cui agli stranieri già titolari del permesso umanitario ex art. 5 co. 6 al momento del rinnovo andava concesso il permesso per protezione sussidiaria e sino alla scadenza venivano riconosciuti i medesimi diritti spettanti ai titolari dello status di protezione sussidiaria – si è dubitato che la “nuova” forma di protezione internazionale costituita dalla “protezione sussidiaria” coprisse l’intera area della “protezione umanitaria” già prevista dal T.U. Immigrazione. Tuttavia, come anche ritenuto in recenti pronunce dalla Cassazione (Cass. sez. 6 ord. 18/2/2011 n. 4139 e ord. 24/3/2011 n. 6879), tale lettura non pare consentita per una pluralità di ragioni. Innanzitutto per il disposto dell’art. 32 del “decreto procedure” (D.Lvo 25/2008), laddove come detto è espressamente previsto che, qualora la Commissione territoriale “non accolga” la domanda di rifugio o di protezione sussidiaria ma ravvisi gravi motivi di carattere umanitario, trasmette gli atti al questore per il rilascio del permesso di soggiorno ex art. 5 co. 6 T.U. Immigr. Si può discutere se, a fronte di quanto previsto dall’art. 34 del D.Lvo 251/2007, l’estensione ai titolari del permesso di soggiorno per ragioni umanitarie degli effetti e dei diritti riconosciuti alla persona meritevole di protezione sussidiaria debbano intendersi limitati ai soli permessi ottenuti prima dell’entrata in vigore del decreto qualifiche oppure se – in base ad una interpretazione costituzionalmente orientata dell’art. 34 – l’estensione almeno di taluni diritti connaturati allo status di protezione sussidiaria debba riguardare anche i titolari della protezione umanitaria riconosciuta dopo l’entrata in vigore del decreto qualifiche. Pare tuttavia innegabile che la “protezione umanitaria” ex art. 5 co. 6 del T.U. Immigr mantiene una sua autonomia e un suo spazio di tutela per soggetti che non hanno diritto a vedersi riconosciuto uno dei due status “tipizzati” nel D.L.vo 251/2007 (rifugio e protezione sussidiaria).
La “protezione umanitaria” ex art. 5 co.6 costituisce la misura “minima” di protezione prevista dal nostro ordinamento e alla quale ha diritto qualunque cittadino straniero o apolide al quale non può essere riconosciuto l’invocato status di rifugiato o di persona ammessa alla protezione sussidiaria – per mancanza di uno dei requisiti previsti per il riconoscimento di una di tali forme tipiche di protezione internazionale nei D.Lvi 251/2007 e 25/2008 o per la presenza di una delle clausole di esclusione che pure impediscono il riconoscimento di tali status – a prescindere che abbia avanzato o meno la domanda di protezione internazionale nelle forme previste dai citati decreti legislativi. In presenza di “gravi motivi umanitari” o di obblighi che derivano dalla Costituzione o da fonti sovranazionali e dalla CEDU in particolare, lo straniero è titolare di un diritto assoluto e fondamentale al rilascio di un permesso di soggiorno nel nostro Paese dal quale non può essere respinto né espulso.
Il maggior punto di contatto fra la protezione sussidiaria e la protezione umanitaria pare ravvisabile in relazione allo straniero che si trova nello Stato italiano dove ha presentato domanda per il riconoscimento della protezione internazionale ma non ha diritto al riconoscimento dello “status” per carenza di requisiti o perché ricorre una delle ragioni di esclusione dell’art.16 D.Lvo 251/2007. In particolare, in presenza dei presupposti che legittimerebbero il riconoscimento della protezione sussidiaria allo straniero che (pur non avendo i requisiti per lo status di rifugiato) sarebbe esposto al grave rischio costituito dal pericolo di subire la tortura o altra forma di pena o trattamento inumano o degradante “nel suo Paese di origine” (art. 14 lett. b) D.Lvo 251/2007), lo status non può comunque essergli riconosciuto se ricorre una delle ragioni di esclusione previste dall’art. 16, né se il danno grave può ritenersi escluso per il fatto che non sarebbe espulso verso il “suo Paese di origine” ma verso un diverso luogo. In tali casi deve essere concessa allo straniero la “protezione umanitaria” qualora l’espulsione lo esporrebbe al concreto rischio di subire la tortura o un trattamento disumano o degradante nel Paese in cui sarebbe espulso, a prescindere dal fatto che si tratti oppure no del “suo Paese di origine”. Analogamente, in presenza delle condizioni previste dall’art. 5 co.6 T.U. Immigr va riconosciuta la protezione umanitaria anche a chi non ha presentato domanda di “protezione internazionale” ex D.Lvo 251/2007 e lo straniero è legittimato a far valere il suo diritto fondamentale a non essere espulso o respinto dal nostro Paese in qualunque momento se si trova nelle condizioni che fanno scattare la “garanzia” del “non refoulement”.

L’oggetto del giudizio secondo la giurisprudenza della Cassazione e della prevalente giurisprudenza di merito
Così sommariamente ricostruito l’articolato sistema di protezione dello straniero (o dell’apolide) che si trova in un luogo soggetto alla giurisdizione e al controllo effettivo dello Stato italiano, ci si può chiedere di nuovo se la “protezione umanitaria” costituisca oggetto del giudizio di opposizione ex art. 35 D.Lvo 25/2008 o se invece, come ritiene il Tribunale di Milano, tale forma “minima” di protezione non è oggetto di tale procedimento ma, in quanto anch’essa espressione di un diritto fondamentale dell’uomo, può essere fatta valere in qualsiasi momento dallo straniero, al di fuori ed a prescindere dal giudizio di opposizione avverso il diniego della domanda di protezione internazionale o avverso il provvedimento che dichiari la cessazione o che revoca lo status di rifugiato o di protezione sussidiaria in precedenza riconosciuti.
Facendo leva sulla previsione contenuta nell’art. 32 comma 3 del D.Lvo 25/2008 più volte richiamata, la prevalente giurisprudenza di merito e la Cassazione sono orientate a ritenere che il giudice dell’opposizione ex art. 35 sia investito degli stessi poteri attribuiti dalla legge alla Commissione territoriale (e alla Commissione nazionale per il diritto d’asilo in sede di revoca o cessazione della protezione) e, quindi, anche della domanda di “protezione umanitaria” che lo straniero avanza spesso in via subordinata, qualora la commissione amministrativa nel respingere la domanda di protezione internazionale non abbia ravvisato i presupposti per la trasmissione degli atti al questore per il rilascio del permesso ex art. 5 co. 6 T.U. Immigr.
Secondo il prevalente indirizzo giurisprudenziale il giudice dell’opposizione – a fronte dell’espresso o tacito diniego della protezione umanitaria da parte della commissione amministrativa – sarebbe automaticamente investito dell’esame anche di tale “forma minore” di protezione, con la conseguenza che qualora all’esito del giudizio non ravvisi i presupposti per riconoscere lo status di rifugiato o di protezione sussidiaria sarebbe chiamato a valutare anche se ricorrano le condizioni previste dalla legge per la “protezione umanitaria” e pronunciarsi nel senso di riconoscere o di negare allo straniero il diritto a tale misura di protezione minima e residuale.

La diversa “posizione” del Tribunale di Milano sulla “protezione umanitaria”
Secondo il Tribunale di Milano la “protezione umanitaria” non è invece oggetto del processo di opposizione ex art. 35, che è limitato ad una delle due forme di protezione internazionale previste e disciplinate dal D.Lvo 251/2007, per le seguenti ragioni.
In primo luogo, la cd “protezione umanitaria” non pare essere (propriamente) oggetto neppure della “domanda presentata secondo le procedure previste dal presente decreto, diretta ad ottenere lo status di rifugiato o lo status di protezione sussidiaria”, secondo la esplicita definizione contenuta nell’art. 2 lett. b) del D.Lvo 25/2008; fermo restando che, qualora “non accolga la domanda di protezione internazionale” (ovvero revochi o dichiari cessato lo status in precedenza riconosciuto), l’autorità amministrativa è tenuta se ritenga che sussistono gravi motivi di carattere umanitario a trasmettere gli atti al questore per il rilascio del permesso di soggiorno ex art. 5 co. 6.
Inoltre, l’art. 35 prevede, nelle forme e nei tempi dettati dal medesimo decreto procedure, l’impugnazione/opposizione solo avverso la decisione della commissione amministrativa che non ha riconosciuto (in tutto o in parte) la protezione internazionale attribuendo uno dei due status previsti dal decreto qualifiche o che ha revocato o dichiarato cessato lo status in precedenza riconosciuto (D.Lvo 251/2007), mentre nulla dice per il caso in cui la commissione amministrativa nel provvedimento impugnato ha espressamente negato la ricorrenza dei presupposti che legittimerebbero il rilascio del permesso umanitario ex art. 5 co. 6 o ha omesso qualsiasi motivazione al riguardo (come sovente accade). Il comma 10 del medesimo art. 35 afferma che il Tribunale, all’esito del procedimento di opposizione, “rigetta il ricorso ovvero riconosce al ricorrente lo status di rifugiato o di persona cui è accordata la protezione sussidiaria”. (Identica previsione è contenuta nel comma 9 dell’art. 17 dello “Schema” di decreto delegato per la “semplificazione dei riti” con riferimento alla “ordinanza” destinata a chiudere il giudizio sommario di primo grado).
Il legislatore pare dunque prevedere quali unici possibili esiti del giudizio di opposizione ex art. 35 davanti al tribunale monocratico il rigetto del ricorso – per ragioni di rito o di merito – ovvero il riconoscimento del diritto dello straniero alla protezione internazionale in una delle due forme “tipiche” del rifugio e della protezione sussidiaria. Secondo il Tribunale di Milano la sentenza che definisce il procedimento camerale davanti al giudice monocratico adito ex art. 35 D.Lvo 25/2008 ha solo uno dei suddetti possibili “esiti” – rigetto o riconoscimento dello status – previsti espressamente dal legislatore.
Tale “lettura”, solo apparentemente di chiusura verso una delle forme di tutela previste dall’ordinamento per lo straniero, in specie verso il riconoscimento del diritto alla “protezione umanitaria” ex art. 5 co.6 all’interno del giudizio di opposizione ex art. 35, pare rigorosamente rispettosa della normativa sopra richiamata ed è ispirata da finalità “garantiste”, in quanto favorisce un maggior spazio di tutela ai diritti umani degli stranieri. Infatti, ritenere che il giudice dell’opposizione sia investito anche della forma di tutela “minima” costituita dalla protezione umanitaria, come sopra delineata, avrebbe come logica conseguenza da un lato che l’esame di tale diritto fondamentale dovrebbe dirsi precluso ogni qual volta l’opposizione non venga ritualmente o tempestivamente proposta e dall’altro che il giudicato sul “rigetto” nel merito finirebbe per impedire allo straniero di far valere successivamente il suo diritto fondamentale alla protezione umanitaria – finanche alla garanzia di “non refoulement” – se non quando gli elementi di fatto o le condizioni soggettive che possono fondare il suo diritto siano ulteriori, diversi e sopravvenuti rispetto a quelli dedotti e deducibili nel giudizio di opposizione ex art. 35. Aderendo alla interpretazione del Tribunale di Milano, la cd “protezione umanitaria” può sempre essere invocata dallo straniero davanti al giudice ordinario, sia nel caso in cui abbia chiesto senza esito la protezione internazionale prevista dal D.Lvo 251/2007 sia che non abbia avanzato la domanda di status ed a prescindere che al rigetto della domanda di rifugio o di protezione sussidiaria sia seguita o meno l’impugnazione ex art. 35, che riguarda unicamente il riconoscimento dello status di rifugiato o di persona ammessa alla protezione sussidiaria, oggetto della domanda di protezione internazionale inizialmente avanzata in sede amministrativa.
La Suprema Corte, in un caso di opposizione proposta dallo straniero contro il decreto di espulsione emesso a seguito dell’esito negativo della fase amministrativa sulla domanda di protezione internazionale non seguita dall’impugnazione avverso il rigetto della domanda di “status”, ha ritenuto preclusa per l’interessato la possibilità di dedurre ragioni di protezione umanitaria, che secondo la Corte lo straniero avrebbe potuto e dovuto far valere impugnando davanti al giudice ordinario il rigetto della Commissione amministrativa, affermando espressamente che “la omessa contestazione del diniego frapposto all’istanza di “asilo” non avrebbe costituito ostacolo alcuno alla deduzione della ragione di protezione umanitaria in sede di opposizione alla nuova espulsione (secondo le linee indicate da Cass. n. 16417/2007) soltanto ove detta deduzione fosse stata correlata alla allegazione di un nuovo, diverso, fatto di persecuzione, non esaminato nella sede preposta e fatto valere come sopravvenuta ragione di divieto di espulsione ai sensi del D.Lgs n. 286 del 1998 art. 13” (Cass. 15/12/2009 n. 26252 in motivazione; conf. Cass. 7572/2009). La Cassazione, dunque, afferma che la protezione umanitaria costituisce oggetto dell’impugnazione davanti al giudice ordinario avverso il provvedimento di diniego della domanda di protezione internazionale emesso dalla Commissione amministrativa e ritiene preclusa allo straniero che non ha proposto l’impugnazione la possibilità di invocare ragioni “umanitarie” che avrebbe potuto (e dovuto) far valere in quel giudizio, se non nel caso in cui la tutela “minima” venga invocata sulla base di nuove allegazioni e di diverse e sopravvenute ragioni. In una successiva recente pronuncia (Cass. sez. 1 sent. 17/2/2011 n. 3898), allorché il diritto alla “protezione umanitaria” veniva sempre invocato dallo straniero in sede di opposizione al decreto di espulsione – anch’esso emesso dopo il rigetto in sede amministrativa della domanda di status – deducendo un concreto pericolo di subire torture o trattamenti disumani o degradanti in caso di espulsione, la Suprema Corte non ha invece avuto alcuna difficoltà a ribadire “l’identità di natura giuridica del diritto alla protezione umanitaria, del diritto allo status di rifugiato e del diritto di asilo, in quanto situazioni tutte riconducibili alla categoria dei diritti umani fondamentali, garantiti dall’art. 2 Cost.” ed ha accolto il ricorso, perché il giudice di merito aveva omesso compiutamente di valutare se ricorressero, nel caso di specie, le condizioni che avrebbero imposto allo Stato il divieto di espulsione ex art. 19 co. 1 T.U. Immigr. e legittimato il diritto del ricorrente al rilascio di un permesso di soggiorno per “motivi umanitari”. In tale pronuncia, quindi, la Cassazione non individua ostacoli di sorta a che lo straniero faccia valere il suo diritto alla protezione umanitaria al di fuori dell’articolato procedimento disciplinato nei D.Lvi 251/2007 e 25/2008 e definisce l’istituto del divieto di espulsione o di respingimento “una misura di protezione umanitaria a carattere negativo, che conferisce al beneficiario il diritto di non vedersi nuovamente immesso in un contesto di elevato rischio personale, spettando al giudice di valutare in concreto la sussistenza delle allegate condizioni ostative all’espulsione o al respingimento” (Cass.3898/2011 in motivazione).
Il diritto fondamentale dello straniero a non essere espulso o respinto dal nostro Paese in situazioni in cui verrebbero poste in pericolo la sua incolumità e la sua dignità per il reale rischio di essere sottoposto a torture o a pene o trattamenti inumani o degradanti nel luogo in cui sarebbe inviato – tutelate sia dalla Costituzione (artt. 2 e 27 fra gli altri) che dall’art. 3 della CEDU – e di fronte alle quali scatta la garanzia di “non refoulement” e il diritto al rilascio e/o al rinnovo di un permesso di soggiorno per asilo, non pare poter essere condizionato a decadenze, preclusioni o a forme particolari, ma deve poter essere fatto valere in ogni momento dal titolare anche solo in via di eccezione e di opposizione ad un illegittimo provvedimento di respingimento, di espulsione o di rifiuto del permesso di soggiorno o di revoca di un permesso concesso. Come detto, secondo la giurisprudenza della Corte Europea, il principio del “non refoulement” rinvenibile nell’art. 3 della CEDU concreta un divieto assoluto per lo Stato membro – oltre che di praticare torture o pene o trattamenti inumani o degradanti – di procedere all’espulsione o al respingimento in ogni modo di qualunque cittadino extracomunitario o apolide che sarebbe esposto a tale rischio. Così inteso il principio del “non refoulement” pare incompatibile con il fatto che il diritto dello straniero alla “protezione umanitaria” ex art. 5 co. 6 T.U. Immigr. sia “irreggimentato” nel giudizio di opposizione al diniego della protezione internazionale ex art. 35 di cui si discute. Né a conclusioni diverse pare potersi giungere con riferimento agli altri casi in cui – pur non ricorrendo le condizioni per l’operatività del “non refoulement” – sono ravvisabili seri motivi di carattere umanitario o si sia in presenza di obblighi assunti in sede internazionale dall’Italia ed in presenza dei quali lo straniero ha diritto al rilascio del permesso di soggiorno ed alla cd “protezione umanitaria”, a prescindere dal fatto che abbia o meno avanzato la domanda di protezione internazionale ai sensi del D.Lvo 251/2007 e che abbia o meno proposto opposizione ex art. 35 D.Lvo 25/2008 avverso il provvedimento negativo.
Di fronte al non chiarissimo quadro normativo di riferimento, alla natura di diritti soggettivi assoluti ed intangibili che vengono in rilievo e tenuto conto che la tutela “umanitaria” va assicurata dal giudice sulla base di condizioni soggettive dell’interessato e di quanto risulta (anche dalle informazioni acquisite d’ufficio, le cd C.O.I.) sulla situazione del suo Paese di origine o di quello verso cui sarebbe respinto o espulso – spesso estremamente mutevole anche in un breve arco di tempo – sembrano preferibili opzioni interpretative che da un lato mettano al riparo dal rischio del giudicato (esterno) di rigetto e dall’altro consentano che la decisione sia fondata su circostanze ed elementi il più possibile “attuali”, per non comprimere la tutela di un diritto fondamentale dello straniero. Al più, si potrebbe forse ritenere che il giudice dell’opposizione ex art. 35, qualora non ritenga di accogliere la domanda di protezione internazionale dello straniero ma ravvisi i “gravi motivi umanitari” e le condizioni previste dall’art. 5 co. 6 del T.U. Immigr., debba anch’egli – eventualmente anche d’ufficio ed a prescindere dalla proposizione di un’espressa domanda in tal senso da parte del ricorrente, come per la commissione amministrativa – dichiarare che il ricorrente ha diritto alla “protezione umanitaria” e, quindi, al rilascio di un permesso di soggiorno da parte del questore, ma senza che l’eventuale “rigetto” (anche) della cd protezione umanitaria possa determinare una qualche preclusione o un impedimento a far valere successivamente il diritto fondamentale a non essere espulso (o respinto) dal nostro Paese in presenza delle condizioni che gli attribuiscono il diritto a vedersi riconosciuta la forma di tutela “minima”. Come detto, a fronte della non univoca previsione contenuta nel D.Lvo 25/2008 e per prevenire che in caso di rigetto del ricorso lo straniero possa vedersi precluso dal giudicato il diritto di invocare la “protezione umanitaria” e il diritto al rilascio del permesso di soggiorno ex art. 5 co. 6 ogni qual volta ricorrano le condizioni previste dalla legge, pare preferibile ritenere che il giudice dell’opposizione ex art. 35 non sia investito di tale forma minima di protezione, che non attribuisce il riconoscimento di uno status ma in alcuni casi racchiude e tutela il “nucleo intangibile” di un diritto fondamentale della persona.

Il giudizio di impugnazione davanti al Tribunale del provvedimento sulla protezione internazionale dello straniero