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Immagina le parole che non ci sono ancora

Raccontando di un dialogo difficile

Photo credit: Carmen Sabello

Omar lo avevo sentito parlare in classe un paio di volte al massimo. Non che fuori da scuola fosse andata meglio: un filo di voce bassa, impercettibile, gli stentava ad uscire dal petto come per uno sforzo da compiere troppo grande. Se qualcuno gli rivolgeva la parola, lui indietreggiava e abbassava la testa, il corpo gli si contraeva senza volerlo e perciò sembrava essere sempre sul punto di rinunciarvi. L’attesa trascorreva in silenzio, l’interlocutore cominciava a perdere la speranza e la pazienza, ma ecco che all’ultimo la risposta arrivava. Pochi monosillabi stentati, ma la fatica era fatta e, occorre dirlo, dava sempre un qualche risultato. Piccolino ed esile Omar, scuro in volto e non solo per il colore della pelle. A domandargli qualcosa quasi ci si sente in difetto, tanto è chiuso che sembra di fare una violenza a quel corpicino stretto. Lui si stringe nelle spalle allora, si sente il fiato raccogliersi nei polmoni e tutta la fatica di quel respiro che deve gonfiare il torace e avere la forza di superare le corde vocali, prima di diventare una voce. Ogni cosa in lui, a vederlo così, sembra costargli fatica: le spalle curve da sorreggere, lo sguardo che non ce la fa ad andare troppo lontano, la testa che non si alza per paura di incontrare altri occhi. Ci vuole forza per questi movimenti, e Omar sembra non averne abbastanza. Preferisce risparmiare le energie esigue per qualcos’altro, come quei pensieri che non lo mollano un attimo e sembrano consumarlo da dentro.

Omar è magro. I vestiti troppo larghi non aiutano di certo a mascherarne la figura esile, anzi, risaltano ancor di più i piccoli muscoli afflosciati e il torace da asmatico. C’è qualcosa di estremamente sofferente in quella magrezza eccessiva che racconta una vita. Sembrava voler dire: lasciatemi stare, che io ci ho già rinunciato da tempo, questo è il massimo che posso fare. Tutti gli portano, perciò, una sorta di rispetto per quella dolorosa fatica non detta, eppure tanto evidente: un lamento che si impone alla vista e ne giustifica i silenzi, le mezze frasi scontrose e burbere.

D’altronde Omar ha eretto una barriera intorno a sé, un muro insormontabile che la sua presenza seria e malaticcia inevitabilmente rafforza. Solo al suo giovane amico fidato è permesso andare e venire, oltrepassare la recinzione e avvicinarsi, tutti gli altri devono fermarsi molto più indietro. Non lo dice, ma con quegli altri un po’ ce l’ha, o almeno sembra infastidirlo una certa leggerezza di passare il tempo che lui ha perso da chissà quanto. Quando per qualche istante, a causa di una svista o uno scherzo del vivere quotidiano, si dimentica di quel macigno opprimente tra capo e collo, si scioglie in una sorta di sorriso. Pare allora che i lineamenti prima gli si contraggano nervosi, poi ballino un po’ convulsi, tanto la dolcezza che appare momentanea sulle sue labbra è estranea a quel volto irrigidito.

Omar, per di più, sta sempre male. Ha un problema alla mano che lui dice all’improvviso essersi fatta dolente, ed è arrabbiato con tutti, medici e operatori del suo centro, perché nessuno ha saputo e vuole aiutarlo. Una volta ha mal di denti, un’altra un forte mal di testa, oppure un mal di pancia o la febbre. E più lui sta male più gli dicono che non è niente, e lui si sente deluso, l’ennesima richiesta fatta tra le righe, espressa in altro modo che non siano le parole, eppure lasciata cadere.

Difficile parlare con Omar, estremamente raro incontrarne lo sguardo. Del gruppo di ragazzi di cui fa parte è il più in disparte, il più chiuso, così delicato che è spontaneo dosare ogni parola, ogni gesto perché sia calibrato nel modo giusto. Solo con il suo amico scherza, parlottano a lungo, è l’amico che traduce quello che dice, lui in italiano pronuncia solo poche frasi e il resto lo affida agli altri. Non vuole sforzarsi, o forse non gli interessa, questa lingua per lui ha perso fiducia, le risposte che cercava non sono arrivate e non arriveranno. La mano gli continuerà a far male e nessuno farà niente, che se ne fa di imparare una lingua così, che non serve e non viene ascoltata.

Con Omar e gli altri ragazzi ci siamo incontrati a lungo fuori dalla scuola. Siamo andati al cinema, a teatro, ai musei e ai concerti. E Omar, nonostante i suoi malanni, ha sempre partecipato. Ai messaggi non rispondeva, ma bastava avvisare il suo amico ed ecco che sbucavano insieme, presenti, ad ogni appuntamento.

L’ultima occasione di vederlo è stato un paio di mesi fa, durante una delle prime giornate di primavera di fine marzo, il primo sole caldo ad illuminare la via di Porta Portese dove avevamo parcheggiato per andare al cinema. Il film era in francese questa volta: finalmente per i ragazzi la possibilità di rilassarsi un po’ di più e di pensare solo a godersi quanto stavano vedendo. Questo, in fondo, è il senso: fare le cose che apparentemente non servono a niente ma fanno stare bene per restituire il significato del tempo libero, del momento di svago. Per di più, uno svago intelligente, di quelli che fanno pensare, che parlano di rapporti umani e cimentano la propria memoria, facendo breccia tra i pensieri ricorrenti che non danno tregua.

Sulla via del ritorno Omar si avvicina. Sente suonare le campane, e dice: come quelle del film. C’era una scena che avevamo visto poco prima, un uomo saliva su un campanile e iniziava a tirare le corde. Lo faceva con tutta la sua forza, aggrappandosi e saltando da una corda all’altra come in una danza. E quel che si sentiva non aveva più nulla del suono cadenzato della campana solita, rimaneva soltanto un’aria di festa, un ritmo quasi di tamburo, di percussioni che sarebbero potute venire da lontano.

C’è un che di leggero nella piccola comitiva mentre va via. Forse è la primavera nell’aria, forse sono state le campane, o forse le comode poltrone del cinema dove Omar si è addormentato un quarto d’ora durante il film. Certo sarà stato piacevole chiudere gli occhi con il francese familiare nelle orecchie, come una nenia, assieme alla musica dolce tra la calma buia della sala. Chissà se ha sognato. In ogni caso, è insolitamente loquace. Gli squilla il telefono, lui risponde. Lo sento parlare per la prima volta ad alta voce, un tono deciso, concitato. Gli telefonano dal suo paese, sta discutendo, lo si capisce, c’è qualcuno dall’altra parte che sembra insistente. Parla nella sua lingua, ma è chiaro che deve fare la voce dura per opporsi a quanto gli viene detto. La telefonata finisce, l’amico dice: è il padre di Omar, gli telefona sempre per chiedergli quando inizierà a mandargli soldi, ma Omar dice no.

Una storia già sentita. Il padre che fa le sue richieste e vuole che il figlio faccia ciò che gli dice lui, e il giovane figlio che cerca, invece, di trovare la sua strada. Per farlo, gli tocca scontrarsi con la famiglia, fare le sue scelte, sfuggire alle imposizioni, alle richieste che per soddisfare gli altri finiscono per schiacciarlo. Ti capisco, Omar. E’ successo anche a me. Ma saper dire no, ti salva la pelle.

Omar è partito tre settimane fa. Ha deciso di andare in Germania, era stufo di aspettare che qualcuno lo aiutasse a curare la sua mano qui in Italia. E’ convinto che dove è adesso potranno fare qualcosa di meglio per lui. Ad accompagnarlo alla stazione erano in quattro: il suo grande amico, ed altri tre ragazzi. Quegli stessi che c’erano quel giorno, a vedere il film francese. Prima di andare via mi ha chiamato per salutarmi. Omar che non parla, Omar che non risponde, Omar che sta sempre male e passa gran parte del tempo a dormire. Da quando è a Francoforte non manca di inviare un saluto. A volte arrivano i suoi messaggi vocali, sempre con la voce flebile, quasi sussurrata. Ciao, come stai, me lo chiede tre o quattro volte e non dice nient’altro. Ed ogni volta non è mai uguale, ogni volta è diverso.

Esistono righe / che non sono state ancora scritte. / Si indovinano sul volto / nelle spalle dritte / nei toni più bassi della voce che esita / e forse trema, forse cerca / un respiro più forte / che venga fuori e non creda mai / quando lo ignoreranno, di morire. / Impara a leggere / le storie che s’intravedono soltanto / nel profilo serio, nel petto alto, nel polso che si muove / immagina / le parole che non ci sono ancora. / Impara a sentire cosa racconta lo sguardo / quando dolce si apre a guardare il mondo/ e ti dice / sottovoce, ti ho trovata.

Sara Forcella

PhD in Civiltà dell'Asia e dell'Africa, è arabista, mediatrice culturale ed insegnante di italiano L2. E' inoltre presidente di Fuori Passo ETS, associazione che si occupa di mediazione, orientamento, servizi e formazione per persone con background migratorio.