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Tratto dal sito donnamoderna.com

Immigrati: la carica della seconda generazione

di Sabrina Barbieri

Possono passare senza difficoltà dal napoletano alla lingua senegalese. O dal milanese a uno dei tanti dialetti cinesi. Le loro mamme sanno cucinare la pasta al forno, ma anche lo zighinì, piatto tipico dell’Eritrea, o il cuscus alla marocchina. In tv guardano film indiani o filippini, ma poi comprano i cd di Tiziano Ferro e Nek. Sono i figli e le figlie degli immigrati. Immigrati di seconda generazione, li definiscono i sociologi. Italiani con il trattino, hanno cominciato a chiamarli giornali e tv. Italiani-cinesi, italiani-marocchini, italiani-filippini, italiani e chissà quante altre cose.

«I bambini e i ragazzi nati qui da stranieri o arrivati quando erano molto piccoli sono circa 400 mila» dice Stefano Molina, autore con Maurizio Ambrosini di un libro sull’argomento che uscirà fra alcune settimane per le Edizioni della Fondazione Giovanni Agnelli: Seconde generazioni. Un’introduzione al futuro dell’immigrazione in Italia. «Le previsioni ci dicono che fra una decina d’anni potranno essere circa un milione». Distribuiti in tante nazionalità. «A differenza di quello che è successo in Francia o in Germania, da noi non c’è un gruppo prevalente» continua Molina.

Questa bellissima armata dai mille colori non ha nessuna intenzione di dimenticare le proprie origini. Ma vuole crescere qui. E bene. «Mentre tra i ragazzi italiani prevale la paura di perdere quello che si ha, tra i figli degli immigrati è forte la voglia di salire. Una molla carica che dobbiamo valorizzare». Qui vi presentiamo una fortissima squadra di italiani doc.

Alla cucina cinese preferiamo la carbonara
I cugini dei due fratelli Hu hanno nomi italiani. Loro no. Lei, 16 anni, si chiama Giaowei, che si legge Ciauì e significa intelligente. Lui, 19 anni, si chiama Yungi, che si legge come si scrive e significa buono e bello. E di quei nomi cinesi sono fieri. Sono nati e vivono a Milano, da perfetti milanesi. Lei frequenta il terzo anno al liceo scientifico, lui fa il primo anno di Economia aziendale alla Bocconi. «I nostri genitori sono arrivati in Italia 23 anni fa» racconta Giaowei. «Vengono dallo stesso villaggio, ma in Cina non si conoscevano. Si sono incontrati qui, dove nell’84 hanno aperto un ristorante». Giaowei e Yungi (che hanno un fratello più piccolo, Yong Peng, di 14 anni) si sentono il cuore diviso a metà.

«Quando mi guardo alla specchio, non posso dimenticare le mie origini» dice Yungi. «Alle Olimpiadi, probabilmente, tiferò Cina. Spero di tornarci presto e restare un po’ per imparare la lingua. Ora conosco solo il dialetto dello Zhejiang. Alla dogana, l’ultima volta che sono andato laggiù, mi hanno preso in giro: un cinese che non sa il cinese. Non voglio che succeda più. Però sono nato qui. Papà e mamma frequentano soprattutto cinesi. Io invece ho amici italiani, non mi perdo un tiggì, mangio la carbonara e le patate al forno, seguo le disgrazie dell’Inter.

Insomma sono anche uno di voi. I miei genitori dicono sempre che un giorno torneranno in Cina. Io no, io voglio restare qui». Come s’immaginano il futuro i fratelli Hu? Yungi non esclude di usare la sua futura laurea per restare nel campo della ristorazione. «Non so ancora cosa farò da grande» confessa invece Giaowei, che ha solo una certezza: «Non lavorerò al ristorante». «Però» aggiunge scherzando « potrei aprire una pasticceria, sono golosissima di dolci, ho appena fatto fuori due brioches alla crema». Intanto fa la sua vita di studentessa, che cerca di scroccare passaggi al fratello per uscire la sera, ascolta David Bowie, Eros Ramazzotti e Laura Pausini e a chi le chiede: «Sposerai un cinese o un italiano?» risponde: «Quando ti innamori, ti innamori». E pazienza se mamma e papà sognano un genero con gli occhi a mandorla.

Io, marocchina, prego Allah e Padre Pio
È felice Nadia Sellim, 26 anni. Professione (provvisoria): danzatrice del ventre. Oggi lo può dire, ma l’infelicità se l’è portata dietro per tanti anni. Nata a Napoli da mamma e papà marocchini, terza di cinque figli, fino a sette anni Nadia ha vissuto come una qualunque altra bambina italiana. Un giorno, però, papà ha detto stop. Voleva che quei figli troppo napoletani imparassero l’arabo, e i primi tre li ha mandati in Marocco. «Ero tristissima, mi mancava la mamma» dice Nadia. «In inverno stavamo là, in estate tornavamo a casa, a Napoli. Finché nostro padre non ha divorziato, ha lasciato il suo lavoro di commerciante e si è trasferito in Marocco.

Costringendoci a stare con lui». Un dramma. «Avevo 13 anni. Sono riuscita a tornare in Italia solo nel 2000. Ora non voglio più andare via». Non è un rifiuto del Marocco, no. «Ci vado il più possibile. Amo quel Paese, i suoi colori, le ville, i vestiti, e quando avrò una casa mia, l’arrederò all’orientale. Sono scappata perché volevo fuggire da mio padre». A dispetto di tutti gli stereotipi sulle donne musulmane, Nadia lotta per la sua libertà. «Vivo sola, ho un lavoro e, se un giorno mi sposerò, sarà perché l’avrò scelto io.

Mia madre è d’accordo con me, non mi ostacola, nemmeno nelle mie scelte di lavoro». Intanto pensa a trovare una professione più stabile: «Non posso fare la danzatrice del ventre per tutta la vita». A proposito, si fa sempre accompagnare agli spettacoli da una zia-guardia del corpo, per scoraggiare le proposte indecenti. «Sto seguendo un corso di formazione per le donne del Maghreb, organizzato dalla Cisl di Napoli. Vorrei aprire un hammam in città, un bagno turco». E c’è da scommettere che ce la farà. Sui sogni di Nadia vegliano in molti. C’è Allah, che lei non dimentica mai quando c’è il periodo di digiuno del Ramadan. Ma c’è anche Padre Pio che, appeso accanto ai versetti del Corano, la guarda da una parete della camera da letto. «Mi piace quel santo. Un giorno l’ho pregato e mi ha aiutato». L’integrazione passa anche da qui.

Siamo senegalesi ma anche napoletane veraci
Le tre signorine Lo hanno puro spirito napoletano in corpo senegalese. Katia, che studia per diventare stilista (ma le piacerebbe anche fare la modella), è la più grande. In tutti i sensi: è la primogenita con i suoi 14 anni, ed è la più alta con il suo metro e 80. Isa, studentessa delle medie con una passione sfrenata per le scarpe, di anni ne ha 13 e di simpatia tanta. Sonia va alle elementari, ha 10 anni, sogna di diventare carabiniera, o poliziotta, e intanto si fa mega scorpacciate di tv, Grande fratello compreso. Katia, Isa, Sonia sono tutte e tre nate sotto il Vesuvio, e cresciute tra il negozio da parrucchiere di mamma e papà e le cure di Palmira, vicina di casa generosa che se le è tirate su.

A ricordare che le tre sorelle vengono da genitori senegalesi di religione musulmana ci sono le pareti di casa, tappezzate di versetti in arabo e di foto di marabutti (si chiamano così i santi dell’Islam). Ci sono anche i tappeti per le preghiere. I genitori, infatti, sono rimasti molto legati alla loro patria. Ma se chiudi gli occhi e senti parlare le tre ragazzine, l’Africa sparisce dall’orizzonte. E vedi solo Napoli.

Ecco stralci di conversazione rubati in casa Lo. Sonia consiglia alla bellissima Katia di non pensare proprio a fare la modella, altrimenti, dice: «Papà ti spiezz’e cosce». E Katia risponde: «Se c’è l’occasione, io lo faccio lo stesso». «Mi piacciono tanto i friarielli» dice Sonia. E Isa. «Sei napoletana proprio. Si dice friggiarielli, no friarielli» (per i non napoletani: i friarielli sono una verdura del posto). «Il mio stilista preferito è Versace» dichiara Katia. E Sonia ribatte: «A me piace Scianell. Esiste Scianell?». È incontenibile Sonia.

È la più piccola, ma sembra avere le idee chiarissime sulla sua condizione di bambina italiana figlia di immigrati. «Io lo so che vuole papà. Che andiamo là, ci sposiamo un senegalese, facciamo tanti figli e torniamo qua. Ma io, se mi piace uno di qui, me lo prendo. E se lui vuole avere più mogli, come i musulmani, sai che faccio? L’accido».