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In Libia ci trattano come degli schiavi

Mathilde Auvillain, diario di bordo dalla nave di soccorso Aquarius (Sos Mediterranee)

Photo credit: Patrick Bar/SOS MEDITERRANEE

traduzione di Carolina Marizia

Y. , ivoriano, 26 anni, racconta ciò che ha dovuto affrontare prima di essere spinto in mare a bordo di un gommone ed essere soccorso in mare dai membri di Aquarius lo scorso 13 gennaio.

Quando l’Aquarius si avvicina a Messina, iniziano ad apparire all’orizzonte le cime dei monti Nebrodi imbiancate dalla neve. Un vento glaciale soffia sul ponte alle spalle dell’imbacazione, i volontari di Sos Mediterranee e il personale medico di Medici Senza Frontiere distribuiscono tazze di tè caldo zuccherato ai 300 passeggeri che tremano di freddo.

Il viaggio di ritorno è lungo e movimentato. Il giorno prima due passeggeri sono stati portati via in elicottero e trasportati a Malta. Altri due, in ipotermia, sono ancora nella clinica di Aquarius sotto stretta sorveglianza medica. I passeggeri più deboli sono stati trasferiti presso lo «shelter», locale di solito riservato a donne e bambini. Indeboliti per la straziante traversata, dimagriti dopo le settimane e i mesi trascorsi nelle prigioni libiche, molti sono allo stremo delle proprie forze. Ma bisogna tenere duro, almeno per le ore di navigazione che ci separano ancora dal porto di Messina dove l’MRCC, il centro di coordinazione di soccorso in mare della Guardia costiera italiana, ci manda per lo sbarco.

Y., esce dallo «shelter» perché ha troppo caldo, «già in Africa non sopportavo il caldo» dice sorridendo. Qualche ora dopo tremava e si teneva a stento in piedi. Realizzo che in tre giorni, questo giovane uomo di 26 anni ha visto per la prima volta il mare e la neve. Fa parte dei 109 migranti trasbordati la sera del 13 gennaio da una nave della marina verso l’Aquarius. «Sin da piccolo sognavo l’Europa. Era una gioia per me, l’idea di cambiare orizzonte. Di potere crescere. Ma non sapevo le ardue prove che mi aspettavano». Questo giovane ivoriano è sul punto di realizzare il suo sogno da bambino, ma la gioia che l’animava è svanita. «Non ho più nessuno, mio padre, mia madre e i miei fratelli sono stati uccisi durante le violenza in Costa d’Avorio». Spiega.

«Sono partito da solo, ho attraversato Burkina, la Costa d’Avorio, la Nigeria e poi la Libia per arrivare a Al Qatrun, la prima città libanese nel deserto. Ho trascorso due settimane praticamente senza mangiare e senza bere. Ero laggiù, clandestinamente, senza nessun documento, trattato come una merce» racconta Y. Spiega che in seguito si è ritrovato in un campo in cui aveva diritto soltanto ad «una cucchiaiata di cibo e ad un pezzo di pane al giorno e nient’altro fino al giorno dopo». Racconta che il 3 dicembre c’è stata una rivolta intorno alla prigione in cui si trovava, senza saper spiegare esattamente dove si trovava. «Sapete, le cose non vanno molto bene tra i libanesi. Discutono per il business».

«Quel giorno, alcuni hanno iniziato a spingere contro la porta e sono scappate circa 15-20 persone. Le altre sono state uccise. In totale sono morte una quarantina di persone». Si ricorda di aver visto alcuni dei suoi compagni morire sotto il fuoco.

«Sono riuscito a farcela e sono stato aiutato da un nero della Nigeria che mi ha salvato e mi ha dato da mangiare. Mi ha messo in contatto con alcune persone e sono partito per Bani Walid. Per 100 denari, mi hanno chiuso in un 4×4. Arrivato a Bani Walid, non potevo più tornare indietro». Chi l’ha «aiutato» diventa dunque il «tutore», spiega Y. «Ero obbligato a lavorare per lui. Fare qualsiasi lavoro: pulire la casa, la macchina, tosare il prato, andare nei campi. Non sono mai stato pagato. Tutto ciò che mi hanno dato è stata una cucchiaiata di cibo».

«In Libia ci trattano come degli schiavi» spiega Y. «Ci fanno fare dei lavori che possono fare le macchine, tutto questo per una cucchiaiata di cibo al giorno. Ho dei segni sulla schiena. Sono stato colpito. Mi mettevano un affare elettrico, sulla coscia, ogni mattina. Poi ho avuto una frattura, sono caduto, ho perso conoscenza. Ma bisognava che tornassi al lavoro. Non ci pagavano mai per il lavoro che facevamo, ci picchiavano. È per tutti la stessa cosa. E tu non puoi scappare. Ci sono dei bambini di dieci anni, dodici anni con le armi, ci danno la caccia, e dicono: «Questa è casa nostra» e non esitano a sparare» prosegue il giovane uomo, con tono distaccato.

«In Libia, non vi è alcun modo per distinguere gli uomini armati dalla polizia. È un altro mondo. C’è discriminazione ovunque. Una bottiglia d’acqua costa 10 franchi per i libanesi, e per noi costa 50 franchi. In ogni momento, chiunque può puntare un’arma contro, su qualsiasi essere umano. Ti mettono in prigione e ti chiedono del denaro. In Libia, non puoi lamentarti con nessuno e nessuno ha diritti, tranne i libanesi. Noi siamo delle merci, degli schiavi. Pensano solo a venderci. Per strada si sentono colpi di fucile ovunque e per tutto il tempo. Alla fine, raccolgono la gente e la gettano così, sui gommoni. E’ una catastrofe!» .

Evidentemente si pentono di esserci andati, naturalmente non ci ritorneranno più. «Le persone non lo sapevano. Vengono volontariamente ma non sanno che sarà così difficile. In Libia, si spara, si uccide, ti imbarcano per qualche parte, ma dove? Tu non lo sai, non lo sai mai».

E questa «gente» si ritrova, come lui, a piedi nudi, su un gommone in mezzo al Mediterraneo, senza giubbotto di salvataggio, senza GPS. A pregare che una nave venga in suo soccorso. Dall’Europa, non si aspettano niente di particolare. «Io lascio l’Africa per rifarmi una vita», è tutto ciò che sa.

Mathilde Auvillain