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In mille pezzi il “Codice Minniti”

Alessandro Dal Lago, Il Manifesto - 5 novembre 2017

Photo credit: Carmen Sabello (Milano, 20 maggio 2017 - No one is illegal)

Un naufragio in ottobre, quando le condizioni del mare sono già pessime, 23 i morti recuperati. Probabilmente, molti di più i cadaveri scomparsi nelle vastità marine. 600 salvataggi in un solo giorno. Altri morti e centinaia di salvataggi sempre nel Canale di Sicilia negli ultimi tre giorni.

Le cronache riportano questi dati con una certa impassibilità, come se si trattasse di normali conteggi amministrativi o di statistiche demografiche. Ma c’è qualcosa che non torna. Anzi, molto.

Basta riandare allo scorso ferragosto alle parole del Ministro degli interni Minniti, al culmine di una campagna condotta contro le Ong e alimentata da media e procure.
Minniti aveva dichiarato che con il codice di comportamento imposto alle navi di soccorso e gli accordi con i libici, «si cominciava a vedere la luce in fondo al tunnel». Quale luce e quale tunnel? La soluzione escogitata da Minniti l’Africano era semplice: scopare la questione dei migranti sotto il tappeto libico affinché le impaurite popolazioni italiche, soprattutto al nord, non avessero più preoccupazioni e anche – honni soit qui mal y pense («guai a chi pensa male») – per sottrarre voti a leghisti, berlusconiani e grillini, che sulla paura dei migranti stanno costruendo la loro fortuna elettorale.

E come sistemare la faccenda? Finanziando il governicchio di al Serraj a Tripoli, che controlla poco più di un fazzoletto di terra in riva al mare, e i signori della guerra anti-Isis. Noi vi diamo soldi e armi e vendiamo sottocosto un po’ di vedette. Voi in cambio, ci fermate i migranti, cioè li internate nei vostri campi.

E i migranti che, inevitabilmente, continueranno ad arrivare? Qui Minniti, coerentemente con la discrezione appresa occupandosi di servizi segreti, tace, gira la testa, glissa. Esattamente come hanno fatto tutti i suoi predecessori, primi ministri e dell’interno, da Amato in poi.

Anche i sassi sanno che rispedendo i migranti in Libia se ne condanna una buona percentuale a morte, e gli altri alle torture, agli stupri e all’inedia. La Libia non è un paese «safe», come esigono le ipocrite normative internazionali, ma un guazzabuglio di bande in cui tutti combattono contro tutti e l’Isis, sconfitto in Iraq e Siria, fa affluire i suoi uomini.

E gli scontri armati tra le centinaia di milizie libiche, dati per «finiti» in realtà sono ripresi proprio in questi giorni. Gli interlocutori del «patto» di Minniti si combattono fra loro.

Le denunce di Msf, Amnesty International ecc. sono incessanti. Persino l’Onu, solitamente cauta in materia, ha ammonito che con le limitazioni imposte alle navi delle Ong e gli accordi con la Libia i morti sarebbero aumentati, nel deserto e in mare. Silenzio delle istituzioni.

L’evidente motto di Minniti, occhio non vede e cuore non sente, ha funzionato per un paio di mesi, con qualche protesta delle Ong e sparse sparatorie in mare dei libici, che hanno invaso le acque internazionali per proteggere i propri interessi nell’affare. Finché, in questi giorni, gommoni e barconi hanno ricominciato a fare la spola e i migranti annegano.

Bisogna essere ciechi per non vedere che dai paesi sub-sahariani, con redditi annuali inferiori a quanto una media famiglia italiana spende in un mese in beni di prima necessità, centinaia di migliaia di migranti si metteranno in marcia verso il Marocco, la Libia, la Tunisia, l’Algeria, l’Egitto.

Se vengono fermati a una frontiera, cercano di passare da un’altra parte, come farebbe ognuno di noi nei loro panni. Bisogna essere ipocriti fino all’oscenità per continuare a blaterare di un piano Marshall per l’Africa che nessuno metterà mai in cantiere.

E bisogna essere trasparenti come funzionari dei servizi segreti per tacere che in Ciad, sud della Libia e Niger, per non parlare dell’Africa centro-occidentale, si combattono guerre con partecipazione occidentale (contro l’Isis, certo, ma soprattutto per il controllo delle materie prime e dell’influenza geopolitica).
Così, chi si mette in marcia per non morire di fame o in qualche bombardamento, finirà, se sopravvive, in qualche campo libico o tenterà, come sempre, la sorte in un gommone.
La luce infondo al tunnel vero, ministro Minniti?