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da Il Manifesto di martedì 11 luglio

«Io, vittima del Cpt»

Giovanna Boursier

Bari-Quelli con cui è più arrabbiato sono i trafficanti, «che ti organizzano il viaggio – dice – gli uomini della rete. Quando ci finisci dentro non riesci più ad uscirne». Sajjad viene dal Kashmir ed è arrivato fino al Regina Pacis, il Cpt dove «i muri erano imbrattati di sangue». Ha 35 anni ma gliene daresti qualcuno in più. Forse solo perché ha gli occhi tristi anche quando cerca di sorridere, mentre racconta la sua storia. A lui, e giustamente, Nichi Vendola ha affidato l’ultimo intervento del Forum. Poi lo ha ascoltato girando la sedia per guardarlo bene mentre parlava. Perché nessuno, alla fine di una giornata così, poteva restituire un quadro più lucido, e drammatico, della realtà e soprattutto delle motivazioni che spingono i governatori a cercare di chiudere i Cpt. «Il primo campo è stato in Libia – comincia Sajjad – e non lo dimenticherò mai. Soprattutto non dimenticherò chi c’era e ancora c’è dentro. Perché quel posto faceva paura e ogni momento pensavi che potevi morire. Era in una città in mezzo al deserto, Zawara, tutto chiuso, con le guardie. Noi stavamo in due stanze, sei metri per sei. Eravamo in 200. Sembra impossibile ma era davvero così. Ci davano da mangiare ma solo per sopravvivere. E l’acqua era così sporca che vedevamo gli insetti dentro, di diversi colori. Li tiravamo fuori usando pezzi dei nostri vestiti. A volte arrivava la polizia libica e ci chiedeva i soldi. Chi non pagava veniva messo in una fila separata e poi picchiato brutalmente di fronte a tutti. Ma non si poteva protestare. Se lo facevamo arrivavano i «signori del deserto» che avevano le armi e i coltelli. Eravamo terrorizzati e così eravamo anche costretti a sopportare. In 200 non facevamo nulla contro di loro anche se erano solo 6 o 7. Perché la paura ti paralizza».

E’ un racconto duro quello di Sajjad che voleva ribellarsi ma non poteva. E’ un racconto che ricorda altri viaggi nell’orrore. Ma il suo è un viaggio di oggi, dal Kashmir all’Italia, dove approda nell’estate del 2003. Un viaggio tra i trafficanti di uomini, costato tra i 7 e gli 8.000 dollari: «Non c’è alternativa – continua Sajjad – ti trovano loro. Ti chiedono se vuoi partire ma sanno che lo devi fare». E sei già prigioniero. Come, spesso, lo eri anche prima: «Dal Kashmir sono dovuto scappare – spiega – non avevo scelta. Ero uno studente socialista e nel giugno del 2001 abbiamo fatto una manifestazione pacifista. Lì non si può fare. La polizia ci conosceva e ci cercava. Se mi trovavano finivo in carcere per 25 anni». Sajjad adesso si ritiene «fortunato» perché, spiega, «sono tra quelli arrivati in Europa. Tanti non riescono a farcela e i loro parenti non sanno nemmeno che sono morti. Perché nessuno gli dice niente, perché a nessuno interessa la nostra vita, a loro interessano solo i soldi».

Un giorno nel campo libico gli dicono che può partire: «Fanno così e ti caricano sulle barche. Spesso ne mettono troppi e affondano. A me è andata bene ma so di una barca dove erano in 200 e che è affondata mentre si vedeva ancora dalla costa. Nessuno è andato a aiutarli. Il mare è pieno di corpi. Durante la traversata ci hanno fermati due volte e la seconda erano armati. Ci puntavano i fucili addosso e volevano i soldi. Glieli abbiamo buttati in un sacchetto di plastica. Poi siamo ripartiti e arrivati a Lampedusa».

Il 1° giugno 2003 e anche questo Sajjad non lo dimenticherà mai: «Quando il maresciallo ha detto «siete in terra italiana» il dolore è diventato gioia. Avevamo vinto la nostra battaglia per la vita. Potevamo ricominciare a immaginare. Perché eravamo arrivati nel posto dove gli uomini e gli uccelli sono liberi. Eravamo persino felici». Solo che è durata poco. Perché quasi subito arrivano altri campi e altre paure: «Da Lampedusa mi hanno mandato a Bari. Lì eravamo in 1.000 ma era meglio della Libia. Mi hanno dato un numero, il 389, e un posto dove dormire, A27. Non sapevamo cosa sarebbe successo e continuavamo a sognare. Tutto è finito quando ci hanno detto che ci avrebbero rimandati nei nostri paesi. Eravamo disperati: ognuno pregava il proprio Dio di morire lì piuttosto che tornare indietro. Io sono finito al Cpt Regina Pacis».

Il Cpt di don Cesare Lodeserto, il prete direttore che nel Cpt ci abitava e che oggi è sotto processo per pestaggi e violenze e indagato per sequestro di persona e abuso di mezzi di correzione. Anche per questo il Centro è stato chiuso ma Sajjad se lo ricorda bene: «Peggio di un carcere – dice – con le guardie e il filo spinato. Appena arrivato ho capito che tutti erano agitati, spaventati. Dei pakistani ci hanno detto che tutto andava bene. Ma lo sentivi che non era vero. Che c’era di nuovo solo paura. Ci hanno portato in una stanza e fotografati. Eravamo di nuovo prigionieri. In un posto dove la gente si tagliava le gambe e le braccia e dove molti sbattevano la testa contro il muro. Le pareti erano imbrattate di sangue». Di Lodeserto Sajjad non vuole parlare, «è troppo doloroso», dice, «perché un prete dovrebbe essere diverso dagli altri». Invece in quel Centro si sentivano le grida di chi veniva picchiato a volte solo perché aveva caldo ed era uscito dalla fila per la colazione o perché non aveva ubbidito quando glielo avevano ordinato. Poi la sera, in camera, arrivava Don Cesare, portava le caramelle e si scusava.