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L’Accordo di Parigi e i rifugiati ambientali: i limiti e le sfide per il futuro

Rodrigo Borges Delfim, MigraMundo, 26 aprile 2016

Foto: IOM/Alessandro Grassani 2015

Hai mai immaginato di vivere in una città o in un paese che potrebbe sparire nei prossimi 10 anni? O di doverti spostare dalla campagna alla città semplicemente perché l’agricoltura è diventata impraticabile?

Questo scenario apocalittico costituisce una minaccia reale in diverse parti del pianeta che, per la loro vicinanza al livello del mare, temono l’innalzamento dei mari. La questione riguarda anche intere regioni afflitte da siccità e da infiltrazioni di acqua marina nelle sorgenti di acqua dolce. Si tratta solo di alcuni dei tanti esempi legati ad un tema che a poco a poco sta entrando nel dibattito sul cambiamento climatico: la questione ambientale e la mobilità umana, i cosiddetti “rifugiati ambientali” o “profughi del clima”.

Nonostante sia ancora dibattuta in modo timido, la questione climatica relazionata alla mobilità umana è contenuta nell’Accordo di Parigi sul clima firmato il 22 aprile nella sede dell’ONU a New York, che conta 175 paesi aderenti tra i quali l’Italia. L’accordo è stato stilato a dicembre nella capitale francese, al termine della conferenza delle parti COP 21, l’organo della Convenzione quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici.

Un’organizzazione che ha partecipato attivamente al dibattito sulla relazione tra rifugiati e questione climatica nell’ambito della COP 21 è la RESAMA (Rete Sudamericana per le Migrazioni Ambientali), fondata in Brasile e Uruguay nel 2010, che opera nel settore insieme a numerosi collaboratori di diversi paesi. In un’intervista al sito MigraMundo (portale brasiliano che si occupa di migrazioni) la ricercatrice Fernanda de Salles Cavedon, rappresentante della Resama e partecipante alla COP21, esprime la propria opinione sull’Accordo di Parigi, considerando positiva l’inclusione dei diritti umani nel testo ma sottolineando i troppi ostacoli che ne limitano l’effettività.

MigraMundo: Qual è il bilancio della COP21 dal punto di vista della Resama?

Fernanda de Salles Cavedon: I principali punti positivi dell’Accordo di Parigi sono soprattutto: la fissazione dell’ambizioso obiettivo riguardante il contenimento dell’aumento della temperatura a 1,5 gradi, considerando i 2 gradi come tetto massimo; il riconoscimento della necessità di crescere in direzione di un’era post-carbone, raggiungendo il 100% della produzione di energie da fonti rinnovabili ed eliminando definitivamente i combustibili fossili; l’inclusione dei diritti umani nel testo, con il riferimento ai diritti dei migranti colpiti dagli effetti del cambiamento climatico; l’adozione di misure per rispondere agli spostamenti provocati dalle avversità ambientali.

Nonostante nell’Accordo sia presente un riferimento agli spostamenti provocati dai cambiamenti ambientali, cosa che può considerarsi di per sé un passo significativo, il testo lascia molto a desiderare se confrontato con le proposte presentate da rilevanti autorità scientifiche e altri organismi internazionali. Le versioni precedenti prevedevano la creazione di un organismo di coordinamento degli spostamenti ambientali, cosa che avrebbe costituito una grande conquista in termini di gestione delle migrazioni ambientali. Purtroppo questa parte è stata eliminata dalla versione definitiva dell’Accordo: il riferimento agli spostamenti causati dai cambiamenti climatici si limita alla questione delle “perdite e danni”. Ricercatori e ONG coinvolte sostengono un approccio più ampio del tema, specialmente per quanto riguarda il riconoscimento delle migrazioni ambientali come forma di adattamento ai cambiamenti climatici.

D’ora in poi sarà necessario lavorare affinché i diritti dei migranti e l’approvazione di raccomandazioni che rispondano agli spostamenti climatici diventino azioni concrete degli Stati aderenti all’Accordo e delle organizzazioni internazionali che operano nell’area delle migrazioni ambientali. È possibile inoltre prevedere una più efficacie articolazione tra Accordo di Parigi e Agenda Nansen per la protezione dei rifugiati nell’ambito dei disastri naturali e delle modificazioni climatiche, al fine di mettere in atto misure concrete di risposta al problema.

Può approfondire il tema dell’Agenda Nansen?

L’iniziativa Nansen è stata lanciata nel 2012 dai governi di Norvegia e Svizzera ed è in parte finanziata dalla Commissione Europea. Si tratta di un processo di consultazioni aventi come obiettivo la costruzione di un’agenda globale volta a identificare misure effettive in grado di soddisfare le necessità di protezione e assistenza delle persone che si trovano in un paese straniero a causa di disastri o effetti dei cambiamenti climatici. Tra il 2013 e il 2015 sono state realizzate consultazioni regionali e sub-regionali che hanno riunito i rappresentati degli Stati esposti a rischio ambientale, Stati di destinazione dei rifugiati ambientali e membri della società civile. La stesura dell’Agenda Nansen per la protezione dei migranti transfrontalieri nel contesto dei disastri e cambiamenti climatici si è conclusa nell’ottobre 2015 ed è stata approvata da 110 paesi. L’Agenda è un documento che contempla raccomandazioni specifiche sulla prevenzione e gestione delle migrazioni ambientali, con l’identificazione di pratiche e strumenti adeguati per la protezione dei migranti e di meccanismi effettivi per la cooperazione tra Paesi.

Secondo le previsioni dell’UNHCR in un futuro prossimo gli eventi legati al cambiamento climatico come siccità, inondazioni e tempeste diventeranno la principale causa dello spostamento della popolazione mondiale, tanto all’interno come all’esterno delle frontiere nazionali. È arrivato il momento di un aggiornamento della definizione di rifugiato in modo da inglobare anche le questioni climatiche?

La migrazione ambientale è già una realtà. Secondo la stima dell’Internal Displacement Monitoring Centre negli ultimi sette anni 184,6 milioni di persone si sono spostate a causa di disastri naturali, con una media di 26,4 milioni di persone all’anno. In uno studio recente, l’UNISDR (United Nations International Strategy for Disaster Risk Reduction) ha dichiarato che il 90% dei disastri naturali degli ultimi vent’anni sono legati al cambiamento climatico.

Nonostante la constatazione dell’incremento degli spostamenti delle persone a causa del cambiamento climatico e alle previsioni di intensificazione del fenomeno, continuiamo a trovarci di fronte all’assenza assoluta di una base legale internazionale che riconosca lo status di rifugiato ambientale e che ne garantisca la protezione integrale. È stato da tempo oltrepassato il momento appropriato per adottare misure che portino ad uno statuto giuridico internazionale per gestire le migrazioni ambientali.
L’ampliamento del concetto di rifugiato, in modo tale da includere le persone che si spostano per motivi ambientali e ottenere i meccanismi adeguati per fronteggiare il problema e garantire la protezione dei migranti, non è stato previsto come opzione da parte della comunità internazionale. L’UNHCR si è già manifestato nel senso della non utilizzazione dell’espressione “rifugiato ambientale”, per mostrare che questo caso specifico non è incluso nella definizione convenzionale di rifugiato, e che una modifica della convenzione in questo senso potrebbe indebolire o creare nuove difficoltà per la sua applicazione.

Qual è la posizione della Resama in relazione a questo concetto?

La Resama difende la necessità di adottare misure in ambito globale, regionale e locale, adatte a riconoscere questo nuovo status migratorio, stabilire i diritti dei rifugiati ambientali e le modalità di ottenimento di tale status, oltre alla costituzione di meccanismi di gestione delle migrazioni ambientali (istituzioni, fondi, meccanismi di risoluzione dei conflitti, ecc.). In questo senso è urgente e necessaria l’adozione di uno strumento internazionale specifico che stabilisca livelli di protezione e che si interessi agli spostamenti provocati dai cambiamenti climatici, dai disastri naturali e da altre alterazioni significative dell’ambiente che costituiscano causa immediata di spostamento. È fondamentale inoltre l’incorporazione di tale strumento alle norme regionali, alla legislazione e alle politiche pubbliche nazionali, per un approccio che integri migrazione, ambiente, mutamenti climatici e diritti umani.

Quando si parla di globalizzazione si considera il carattere economico e si lascia spesso in secondo piano la questione umana. A suo parere il lato umano è lasciato da parte anche nelle discussioni che riguardano il clima?

Questo è l’argomento centrale per innumerevoli ONG e centri di ricerca che militano per la cosiddetta giustizia climatica, che propone un approccio dei negoziati sul clima incentrata sull’umanità (human-centred approach). Questo approccio si traduce nell’inclusione dei diritti umani nelle decisioni e accordi che riguardano i cambiamenti climatici. Si distinguono da questo principio di inclusione le risoluzioni degli organismi delle Nazioni Unite, che non riconoscono l’impatto del cambiamento climatico sui diritti umani e il contributo etico e giuridico dei diritti umani per la gestione della crisi climatica.
Proliferano le proposte di dichiarazioni di iniziativa scientifica e governativa basate su un approccio alle modificazioni climatiche che parta dall’ottica dei diritti umani o dei diritti dell’umanità, come ad esempio il Progetto di Dichiarazione di Diritti Umani e Cambiamenti Climatici del Global Network for the Study of Human Rights and the Environment (GNHRE) o il Progetto di Dichiarazione dei Diritti dell’Umanità di iniziativa del governo francese.
Con l’Accordo di Parigi e con l’inclusione dei diritti umani nel preambolo è stato fatto un passo avanti. Tuttavia gli Stati aderenti, nelle loro azioni in materia di cambiamento climatico, devono rispettare, promuovere e considerare i loro doveri in relazione ai diritti umani, in special modo al diritto alla salute, diritto allo sviluppo, diritto delle popolazioni indigene, delle comunità locali, dei migranti, dei bambini, delle persone disabili e di coloro che si trovano in condizione di vulnerabilità. È necessario in questo momento un lavoro di mobilitazione forte da parte della società civile affinché questa disposizione generale acquisisca concretezza nelle politiche nazionali sui cambiamenti climatici e nei prossimi negoziati internazionali sul clima.

A nostro parere l’integrazione della mobilità umana nei negoziati sul clima dà inizio al passaggio alla dimensione umana di questo dibattito; è un importante passo di presa coscienza e di consapevolezza degli impatti reali delle modificazioni climatiche in diversi aspetti della vita, della dignità e della sicurezza delle persone in diverse parti del pianeta.