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L’anonima sequestri di Lampedusa

a cura di Gabriele Del Grande

Duecento tunisini tenuti in ostaggio dallo Stato italiano da più di un mese. Due avvocati che provano a difenderli ma che si scontrano contro l’ostruzionismo del ministero dell’Interno, che finisce per negare il diritto alla difesa legale proprio a un ex prigioniero politico del regime di Ben Ali. Tutto questo mentre da Lampedusa riprendono i charter per Tunisi dei rimpatri collettivi, per evitare i quali a Pantelleria c’è chi si taglia le vene per protesta. Ma partiamo dall’inizio della storia. Da sabato scorso, 4 giugno 2011. Sono le nove del mattino, e gli avvocati Leonardo Marino e Giacomo La Russa si presentano puntuali davanti ai cancelli del centro d’accoglienza di Lampedusa, a Contrada Imbriacola. Sono venuti da Agrigento per incontrare i propri clienti: 16 cittadini tunisini trattenuti sull’isola da inizio maggio, dai quali sono stati regolarmente nominati come avvocati difensori. All’ingresso del centro li aspetta un agente di polizia. E da subito si capisce che qualcosa non va.

Dice che senza autorizzazione della Prefettura non può entrare nessuno. Il responsabile del centro, Cono Galipò, sopraggiunto nel frattempo, conferma la restrizione. Decisamente strano, considerato che in tutti i centri di identificazione e espulsione (Cie) d’Italia il diritto di difesa è garantito a tutti i reclusi, e che ogni avvocato può liberamente incontrare i propri assistiti nei Cie, senza bisogno di alcuna autorizzazione prefettizia. I due avvocati lo sanno e mostrano gli atti di nomina sottoscritti (e debitamente autenticati da un funzionario del comune di Lampedusa) dai loro 16 clienti. Ma alla fine non c’è niente da fare e i due avvocati decidono di porre la questione direttamente alla Prefettura di Agrigento, sotto la cui responsabilità ricade il centro di accoglienza di Lampedusa.

Al telefono risponde la viceprefetto Elisa Vaccaro. I due legali le ricordano il principio di inviolabilità del diritto di difesa e spiegano che non chiedono di visitare il centro, bensì di incontrare i propri assistiti, fra l’altro nei locali messi a disposizione dall’Oim (Organizzazione internazionale delle migrazioni) fuori dall’area detentiva. Ma non c’è niente da fare. La viceprefetto Vaccaro invoca l’ormai famosa circolare 1305 del primo aprile 2011, che vieta l’ingresso nei centri di accoglienza e nei centri di espulsione a tutti i soggetti non convenzionati con le prefetture e invita gli avvocati a inoltrare una formale richiesta addirittura al Ministero dell’Interno.

Non avendo altra scelta, alle 11:33 Marino e La Russa inviano il fax con oggetto Richiesta di colloquio difensivo c/o cpsa di Lampedusa, indirizzato all’Ufficio di Gabinetto della Prefettura di Agrigento, al Dipartimento delle libertà civili e immigrazione del Ministero dell’Interno e per conoscenza all’Oim a Roma, indicando l’estrema urgenza dell’istanza.

Soltanto alle 19:15, dopo dieci ore di attesa, arriva finalmente l’autorizzazione della Prefettura di Agrigento con la quale viene permesso ai due difensori il colloquio con i propri clienti, ma non con tutti. Sì perché il Viminale ha deciso che gli avvocati potranno incontrare soltanto i cittadini tunisini che hanno fornito al momento dello sbarco le stesse generalità con cui hanno firmato la procura per nominare il proprio avvocato difensore. Ben sette clienti degli avvocati vengono così privati del diritto di difesa, avendo fornito al momento dell’identificazione generalità poi non confermate al momento del rilascio della procura ai difensori.

Tra questi il caso più delicato è quello di un tunisino di Gafsa, detenuto da più di 20 giorni, che ha chiesto asilo politico all’Italia e che in Tunisia rischia di tornare in carcere per una pena inflittagli ai tempi di Ben Ali per i moti rivoluzionari di Redeyef del 2008, quando il regime azzerò il movimento politico del bacino minerario arrestando centinaia di persone per reati comuni, come devastazione, incendio e associazione a delinquere. Nel caso in questione, la persona aveva fornito una falsa identità al momento del suo arrivo a Lampedusa, ancora sotto shock per le torture subite in carcere prima della caduta del regime e spaventato dalla sola idea che le autorità consolari tunisine potessero identificarlo e rispedirlo nelle mani di chi lo ha torturato. In Francia lo aspetta la moglie, cittadina francese, che da Parigi sta mobilitando avvocati di rango internazionale sul suo caso. Ma l’Italia ha deciso. Ancora una volta con una logica che sa più di stato di polizia che non di diritto: chi ha dichiarato due nomi diversi, qualunque sia il motivo per cui lo ha fatto, non ha più diritto ad avere un avvocato. Non ha più diritto di difesa.

Un ragionamento che in altri paesi farebbe accapponare la pelle anche a un analfabeta del diritto. Come pure farebbe accapponare la pelle l’idea che uno Stato europeo possa nel 2011 tenere in ostaggio 200 cittadini di un paese vicino, la Tunisia, privati della propria libertà personale al di fuori di qualsiasi garanzia giuridica. Rinchiusi in una struttura giuridicamente dedita all’accoglienza e trasformata per l’occasione in galera. Ormai questa storia va avanti da un mese, anzi da un mese e sei giorni. Dagli ultimi sbarchi del 2 maggio scorso. Da allora il trattenimento dei tunisini sull’isola non è stato convalidato da nessun giudice, come previsto dalla legge italiana ogni qual volta un cittadino italiano o straniero venga privato della libertà per essere trattenuto in un carcere o in un centro di identificazione.

In questi casi il codice di procedura penale parla chiaro. L’articolo è il 605: sequestro di persona. Chiunque priva taluno della libertà personale è punito con la reclusione da sei mesi a otto anni. Perché la procura di Agrigento non apre un fascicolo su Lampedusa? Potrebbe farlo anche prima che gli avvocati presentino un esposto penale sui danni subiti dai loro assistiti.

Sì perché comunque alla fine, nonostante l’ostruzionismo del Viminale, alcuni clienti sono riusciti a incontrarli lo stesso. Soltanto cinque, ma meglio che niente. E qualcuno adesso dovrà rispondere del loro trattenimento illegale.

Gli altri quattro reclusi che li avevano incaricati della propria difesa, non sono più sull’isola. Due sono stati trasferiti in elisoccorso all’ospedale di Catania lo scorso 30 maggio a seguito di un tentato suicidio, e altri due sono stati rimpatriati con i voli partiti da Palermo lo scorso 27 maggio e 2 giugno. Sì perché nel frattempo i rimpatri collettivi sono ricominciati.

Sull’isola restano soltanto un centinaio di tunisini. Il terzo volo in una settimana è partito ieri da Lampedusa. A bordo c’erano 26 passeggeri. Tutti tunisini. Identificati dal console all’aeroporto di Palermo e scortati dalla polizia italiana a Tunisi. Finora si sa poco dei rimpatri. Ma qualche voce inizia a circolare. Da un lato si dice che agli espulsi non venga consegnata nessuna copia scritta del provvedimento di rimpatrio, contro il quale diventa quindi impossibile fare un ricorso. Dall’altro c’è chi parla di violenze commesse dalle forze dell’ordine italiane per effettuare i rimpatri.

Rimpatri contro i quali le proteste continuano, ahimè ancora una volta con la modalità dell’autolesionismo. Dopo la trentina di ragazzi che nei giorni scorsi a Lampedusa avevano ingoiato lamette da barba, ferri e vetri per farsi ricoverare d’urgenza all’ospedale e evitare il rimpatrio, ieri è stato il turno di Pantelleria, dove alcuni dei circa sessanta tunisini reclusi nella caserma Barone, si sono tagliati il torace e le braccia con dei cocci di bottiglia per protestare contro il loro trattenimento sull’isola che va avanti dal 27 maggio scorso, chiedendo di essere trasferiti a Trapani prima possibile.

Grazie a Germana Graceffo, dell’associazione Borderline Sicilia per le informazioni contenute nel suo report da Lampedusa del 6 giugno 2011