Per la libertà di movimento, per i diritti di cittadinanza

L’integrazione come lavoro comune

Perché non possiamo limitarci a essere spettatori

Foto: Angelo Aprile

di Alessandro Stoppoloni

Nel suo editoriale dal titolo “Integrare senza sensi di colpa” pubblicato domenica scorsa sul Corriere della Sera lo storico Ernesto Galli della Loggia sostiene che l’unica via da percorrere per far fronte ai problemi posti dal fenomeno migratorio è l’integrazione.

Questo termine è oggi usato molto frequentemente e giustamente Galli della Loggia si preoccupa di definirlo: a suo avviso l’integrazione avviene quando una comunità o un individuo in modo più o meno cosciente accetta le regole della società nella quale si trova a vivere.

Secondo Galli della Loggia una tale visione fa venir meno l’obiettivo irrealizzabile di una società “multiculturale”: alcune idee (come un determinato rapporto fra uomo e donna, fra religione e Stato) sono semplicemente incompatibili con quello che viene considerato il “nostro” modo di vivere e perciò chi volesse veramente integrarsi nella nostra società dovrebbe rinunciare loro.
La lettura dell’articolo di Della Loggia mi ha lasciato alcune perplessità che vorrei cercare di discutere nelle righe che seguono.

La prima riguarda il ruolo della comunità nella quale i nuovi arrivati sono “integrati”. Essa viene infatti presentata come un essere inglobante che non riflette sull’identità di chi arriva e, di conseguenza, sulla sua. A mio avviso se manca la consapevolezza e la volontà di fare un simile passo è difficile andare avanti in modo costruttivo. Non è possibile rimanere fermi sulle proprie posizioni aspettando che gli altri in qualche modo si adeguino a ciò che noi imponiamo.

In questi giorni ho riletto il Tentativo di decalogo per la convivenza inter-etnica scritto da Alexander Langer (prima esponente di Lotta Continua e poi fra i fondatori dei Verdi, 1946-1995) nel 1994. Le parole di Langer su questo argomento offrono ancora oggi degli spunti molto interessanti. Una della parti che più trovo significative riguarda il multilinguismo. Langer veniva da una regione, il Trentino-Alto Adige/Süd Tirol, in cui la convivenza fra persone provenienti da aree culturali diverse è costitutiva e ciò ebbe una forte influenza sul suo modo di rapportarsi a tematiche di questo tipo. Galli della Loggia pone giustamente particolare enfasi sulla necessità per i migranti di imparare la lingua italiana. Se da una parte questa richiesta è dovuta alla necessità di facilitare in modo evidente la comprensione reciproca dall’altra essa sembra essere finalizzata alla definizione di confini ben precisi che dovrebbero offrire una chiara linea di demarcazione fra chi è “italiano” e chi non lo è. Non sarò certo io a negare l’importanza dell’apprendimento dell’italiano.

Galli della Loggia però non dice nulla su quello che dovremmo fare noi per favorire un processo di cui l’apprendimento della nostra lingua non è che un tassello. Se chi arriva impara l’italiano perché noi non potremmo imparare l’arabo, il bengalese o il tigrino?

Sento però già l’obiezione: sono loro a essere venuti da noi e quindi in cambio della nostra accoglienza devono fare perlomeno uno sforzo supplementare che noi non possiamo essere obbligati a fare.

Questo genere di risposta rientrerebbe proprio nel paradigma proposto da Galli della Loggia, un paradigma in cui l’integrazione pesa sulle spalle di chi arriva e al massimo di chi deve porre in essere degli atti legislativi in grado di rendere più semplice ottenere dei documenti che certifichino l’avvenuto processo e che premino chi ha seguito per filo e per segno il percorso indicato. Risulta però difficile credere che l’integrazione possa andare in una sola direzione e sono convinto che chi accoglie non possa pretendere di rimanere graniticamente uguale a se stesso mentre passa attraverso una simile esperienza.

Questo vuol dire forse mettere necessariamente in dubbio la nostra identità (torneremo fra poco su questo concetto) come temono tante persone e alcuni schieramenti politici? No, però implica la necessità di mettersi in gioco e di offrire la propria disponibilità a cambiare. Se manca questa parte temo che non si possa far altro che creare nuovi steccati che più che unire e avvicinare finiranno per creare ulteriori divisioni. Non a caso sempre Alexander Langer si soffermava sull’importanza delle persone in grado di porsi ai confini delle diverse comunità grazie alle loro capacità culturali e linguistiche.

Esse si troverebbero nella condizione di rendere questi confini sempre più labili e porosi creando così dei canali di comunicazione e di scambio che potrebbero essere la base per la costituzione di un percorso di reciproco avvicinamento e di reciproca contaminazione.

Mi si può obiettare che questo è un percorso estremamente complesso, lungo e faticoso. Forse utopico. Certamente è così, ma io credo che una tale impostazione potrebbe dare a un simile processo un respiro ampio e una base solida. Inoltre è fondamentale che questo sforzo parta dalla società. Se da un lato è vero che gli interventi legislativi possono favorire un simile approccio dall’altra è necessario affermare che essi non saranno mai sufficienti. La legge ha spesso la necessità di creare confini, per esempio per quanto riguarda l’idea di cittadinanza: o si è italiani o non lo si è.

Nella realtà però spesso ci sono situazioni decisamente più complesse e sfumate che non trovano una precisa collocazione giuridica. Galli della Loggia dice che la cultura non è come un cappotto, non si può scegliere quale indossare a seconda delle circostanze. Sono d’accordo, ma proprio per questo l’obiettivo dovrebbe essere un meticciato culturale, linguistico e sociale. Un cappotto nuovo fatto a partire dai colori e dalla stoffa di quelli vecchi.

Un altro dei punti fondamentali nel decalogo della convivenza civile di Langer riguarda la valorizzazione dell’autocritica verso la propria comunità. Credo che questo sia un altro punto fondamentale. Si sentono in continuazione dei giudizi sui musulmani (intesi sempre come una massa omogenea) e sull’Islàm. Di fronte a una simile questione non posso far altro che ammettere la mia inadeguatezza: sono troppo ignorante per poter pronunciare giudizi e credo di non essere l’unico a trovarsi in questa situazione. D’altra parte però conosco un po’ quella che considero essere la mia “comunità” e credo di poter esprimere delle considerazioni con maggiore cognizione di causa.

Questo genere di problematica si è manifestata chiaramente negli ultimi giorni. I fatti avvenuti a Colonia e in generale in Germania a Capodanno hanno portato a ragionare di nuovo sulla condizione delle donne nel mondo musulmano. Da parte nostra ho visto spesso l’atteggiamento di chi si sente in grado di dare delle lezioni.

È vero, negli ultimi anni sono stati fatti molti progressi significativi per quanto riguarda la posizione della donna nella nostra società, ma a volte basta accendere la televisione o ascoltare dei discorsi per strada per notare che il sessismo e il maschilismo sono ancora ben radicati nella nostra quotidianità.

Prima di permetterci di esprimere giudizi sugli altri senza avere una conoscenza sufficiente della situazione dovremmo noi per primi cercare di liberarci di determinati luoghi comuni e di determinate categorie mentali che continuano a influenzare il nostro modo di vedere il mondo.

Temo però che in questo momento non ci sia un vero e proprio interesse a fare un simile percorso. Spesso l’identità si costruisce per differenza e non è sorprendente che le migrazioni, un fenomeno che porta necessariamente nel lungo periodo a un mescolamento, portino a una intensificazione della ricerca di ciò che ci distingue dagli altri. Più è profondo il fossato che scavo più mi sento sicuro di quello che sono (o che credo di essere). Questo implica tendenzialmente delle semplificazioni e dei giudizi affrettati, consolida stereotipi e convinzioni basate più sul sentito dire che sull’esperienza diretta o sullo studio.

Il problema è che il movimento e il mescolamento delle popolazioni sono un elemento costitutivo della storia dell’uomo. Un mio professore di Storia medievale amava dire a lezione che la Bulgaria è l’unico paese che potrebbe aver mantenuto traccia di questo fatto nel nome: secondo una delle interpretazioni il nome Bulgaria verrebbe infatti dalla parola turca bulgar, di origine mista, o dal verbo bulgamak, mescolare. Mi piace pensare che sia l’interpretazione corretta.

Questi sono solo alcuni spunti che non affrontano tutte le questioni sollevate nell’articolo di Galli della Loggia ma che tuttavia consentono di arrivare a una prima conclusione.

Un concetto di integrazione basato sull’idea, più o meno velata, di un’assimilazione della parte più piccola all’interno di quella più grande difficilmente potrà portare a dei risultati positivi. È il significato che attribuiamo alla parola stessa che dobbiamo discutere per capire quale orizzonte abbiamo intenzione di darci e quali obiettivi vogliamo raggiungere.

Se proviamo oggi a immaginare un paese europeo fra qualche anno sarà necessario riflettere sul ruolo di chi arriva ora nel paese e di chi qui già risiede da anni. I migranti (provenienti sia da paesi extra UE sia da paesi UE) sono già una parte significativa della nostra società ed è molto probabile che in futuro saranno sempre più protagonisti.

Anziché sentirci minacciati dovremmo cercare di cogliere le opportunità per allargare i nostri orizzonti. Finiremo comunque per avere sempre più il mondo in casa. Mettiamoci almeno nelle condizioni di potergli parlare.