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L’umanesimo di Giancarlo Illiprandi

Il 15 settembre è morto Giancarlo Illiprandi, designer, grafico, fotografo, quattro Compassi d'Oro. Una vita tra impegno e riflessioni sull'etica del progetto di comunicazione

Giancarlo Illiprandi l’ho conosciuto prima studiando i suoi manuali, alcuni dei quali sono stati testi fondamentali per la mia formazione: “Dalla lettera al lettering“, e poi soprattutto “Disimpegno-Disengagement“, un libro nel quale, attraverso la sua testimonianza diretta di ideatore per alcune delle campagne di utilità sociale più importanti del secondo dopoguerra (contraccezione, inquinamento acustico e ambientale, difesa del patrimonio). Illiprandi apre ad alcune riflessioni necessarie sulla responsabilità, per chi si occupa di comunicazioni visive, di mantenere un codice etico e sul dovere di parlare con coerenza e chiarezza.

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Ho per anni raccolto i “Dischi del Sole” (1965-1975) di cui Giancarlo ha curato alcune delle più belle raccolte: Canti anarchici, Canti della Resistenza Italiana, Canzoni in osteria, Canzoni dal carcere, Canzoni popolari veneziane, solo per citare alcuni titoli.

Quella straordinaria collana non fu solo il più importante episodio in Italia di quello che viene definito “folk revival” ma fu soprattutto, negli anni in cui volgeva al termine l’avventura del beat e il rock era ormai dominato dalle multinazionali discografiche, una maniera di intendere la musica attraverso la sua funzione sociale, di appartenenza a un gruppo e nel suo approccio collettivo e di diffusione di valori sociali e politici.

Ho poi avuto la fortuna di conoscerlo di persona quando era ospite di un festival sul “carnet de voyage“: negli ultimi decenni della sua vita Illiprandi è stato anche un “urban sketcher“, dedicandosi instancabilmente alla produzione di diari grafico-testuali che raccontavano i suoi tanti viaggi assieme a Monica.

In quell’occasione gli chiesi se potevo andarlo a trovare nel suo studio a Milano per un’intervista – stavo lavorando in quel periodo con Ando Gilardi, Patrizia ed Elena Piccini della Fototeca Storica Nazionale a un documentario mai terminato su quell’ incredibile caso editoriale che è stato “Phototeca“, rivista diretta e ideata da Ando Gilardi di cui Giancarlo realizzò il progetto grafico.

Un trimestrale che, come lo ha definito Gilardi, fu in sostanza un “google images” ante-litteram, certamente una delle più innovative e sperimentali avventure editoriali in Italia al volgere tra gli anni ’70 e ’80. Una rivista che si proponeva di “sgarbugliare i fili dei grandi generi dell’iconografia, isolarne i temi essenziali, individuare l’evoluzione delle forme che ne avvolgono i significati immutati“, un manifesto per un’educazione all’immagine.

Il racconto di Giancarlo, nel suo studio vicino a Piazza Aspromonte, mi ha permesso di ricostruire il quadro completo di quella straordinaria avventura editoriale.

Una storia, quella di Phototeca, che si colloca in un preciso momento storico, quando il flusso delle immagini, grazie ai moderni strumenti di produzione e soprattutto di diffusione, inizia a porre degli interrogativi a chi le immagini le produceva di mestiere e che sente per la prima volta la necessità di pensare a dei sistemi nuovi per l’organizzazione e l’interpretazione dei cataloghi.

Phototeca segna l’inizio di una nuova era, quella tecnologica, in cui comincia a farsi pressante la necessità di individuare dei nuovi sistemi d’organizzazione delle immagini: quella che oggi chiamiamo comunemente “parola chiave” all’interno del trimestrale veniva profeticamente trattata attraverso la lente di nuova logica che mirava a contestualizzare le immagini, siano esse prodotte manualmente o meccanicamente, come appartenenti a grandi temi iconografici e soprattutto a fornire quegli strumenti che avrebbero permesso di capovolgere il rapporto abnorme tra tempo di produzione e tempo di lettura di un’immagine.

Ho rivisto Giancarlo alla Fondazione Corrente. Fu lui che mi suggerì di portarci la mia mostra “Olive & Bulloni. Lavoro contadino e operaio nell’Italia del dopoguerra“, dove le istantanee dei reportage di Ando per “Il Lavoro” (1948-1962) e delle spedizioni nel sud Italia accanto a Ernesto De Martino si mescolavano ai ritratti dei braccianti di Melissa di Ernesto Treccani. Ancora nessi e connessi e ancora immagini, da una parte immagini dipinte ad olio, dall’altra immagini registrate meccanicamente, ma così vicine nella composizione e nell’umanesimo di cui erano portatrici.
La parole chiave, ripensando al Giancarlo Illiprandi che ho conosciuto io, è proprio umanesimo.

Prima dell’estate gli avevo scritto un’email dove lo invitavo a collaborare a un progetto al quale stavo lavorando, un foglio di movimento, un manifesto piegato a croce che aveva l’intento di raccontare e testimoniare il disastro umanitario che si stava consumando lungo la rotta dei Balcani con gli oltre 10.000 rifugiati bloccati nel campo di Idomeni.

Un piccolo progetto editoriale che cercava di rompere il silenzio generale dell’Europa e dove avremmo combinato testimonianze scritte di chi stava prendendo parte alle staffette Over The Fortress con contributi grafici autoriali.
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Dopo l’orrore della fotografia del corpo riverso di Aylan, il bambino curdo trovato annegato sulla spiaggia di Bodrum, in cui si aggiungeva un nuovo capitolo al catalogo delle “stragi degli innocenti“, ho condiviso con Giancarlo la decisione di non usare più la fotografia: il flusso ormai incessante di fotografie che ritraggono l’orrore da cui siamo travolti ogni giorno sulla rete ha finito per abituarci anche a quello, il disegno invece, specie quello di Giancarlo, ha tempi di produzione e di lettura diversi.

L’ultima volta che l’ho sentito è stato pochi giorni dopo l’invito che gli avevo rivolto, mi ha inviato uno di quei suoi disegni, dal tratto sottile, vibrante e preciso, e poche righe manoscritte sotto il ritratto di profilo di una donna, una nota come usava fare nelle pagine dei suoi carnet di viaggio:
Quello che più mi ferisce sono queste donne, che si trascinano la sete tra le dune del deserto. Traversano poi sul mare, ostile; quale mare avevano gustato prima, per venire a sbattere contro la stupidità di barriere spinate. Portandosi appresso scatole, sacconi, borse. Ma soprattutto, più di ogni altra cosa, tenendosi al cuore i loro bambini. Il futuro di un mondo migliore. Un mondo per queste donne che merita accoglienza, solidarietà, umanità“.
Ciao Giancarlo,
buona luce.

Fabrizio Urettini

Fabrizio Urettini

Sono attivista e art director. Nel 2016 ho fondato Talking Hands, studio artistico permanente che permette alle persone delle comunità di rifugiati di disegnare, creare e vendere prodotti di moda e design.
Talking Hands valorizza la diversità, la comunità, la formazione, il design sostenibile e le pratiche commerciali etiche.