Per la libertà di movimento, per i diritti di cittadinanza

La Legge Bossi Fini e i diritti dei migranti: un primo bilancio

Relazione curata dall’avv. Marco Paggi nell’ambito del convegno promosso dal Comune di Venezia sul diritto di voto amministrativo per i cittadini non comunitari

Si intende fare di seguito un sintetico rendiconto relativamente alla legge Bossi-Fini (L. 30 luglio 2002, n. 189) e alle novità dalla stessa introdotte, verosimilmente per rendere ancora più evidente come sia importante il riconoscimento del diritto di voto agli extracomunitari, anche al fine di garantire una effettiva integrazione degli stessi nel nostro paese.

Ricordo che nel corso dei lavori preparatori della legge Turco-Napolitano, quando si parlava del voto che avrebbe dovuto essere l’elemento qualificante della nuova legge (successivamente stralciato) molti stranieri che erano in Italia da tempo, commentavano la proposta con toni piuttosto tiepidi dicendo “Carina questa cosa del diritto di voto, però preferirei che il governo italiano mi desse la possibilità di avere una casa o altri diritti di quelli che si mangiano”. In effetti è difficile immaginare che uno straniero che, pur vivendo in Italia da tanti anni ed essendo inserito dal punto di vista economico e sociale, possa provare un reale senso di appartenenza a questa comunità se continua invece ad avvertire un atteggiamento di rifiuto sistematico nei suoi confronti.

La cittadinanza italiana
D’altra parte, la soluzione per realizzare il riconoscimento del diritto di voto non può avere come misura adeguata quella di perseguire il conseguimento della cittadinanza italiana; ciò perché sono statisticamente raddoppiati i tempi di attesa per la concessione della stessa (circa tre anni), anche nei casi in cui (come nel caso di matrimonio con cittadina o cittadino italiano), si tratta di un vero e proprio diritto.

Un altro aspetto da sottolineare è che il Ministero dell’Interno non pubblica i dati completi sulla cittadinanza, dando conto solamente di quanti sono gli stranieri che l’hanno ottenuta, ma non di quanti l’hanno domandata; in termini scientifici sarebbe interessante scoprire qual è questo rapporto ed il fatto che purtroppo si possano fare solo delle congetture al riguardo fa probabilmente molto comodo. Il network di avvocati di cui faccio parte, l’Associazione Studi Giuridici sull’Immigrazione (ASGI), rappresenta un osservatorio piuttosto ampio di casistica e, pertanto – anche senza il conforto di dati scientifici documentati – penso di poter dire che la stragrande maggioranza delle domande di cittadinanza viene rifiutata, anche se viene fatta da parte di gente normalissima, che si trova in Italia da tanto tempo, con provvedimenti solitamente prestampati recanti la stessa motivazione di stile (che potrei recitare a memoria) ormai da anni. Oltretutto sarebbe ancora più interessante andare a vedere la composizione etnica o nazionale dei soggetti destinatari del rifiuto e di quelli destinatari dell’accoglimento della domanda medesima, perché anche qui, pure in mancanza di dati attendibili, ritengo che si possano fare delle affermazioni su come, soprattutto negli ultimi anni, chi proviene dal ceppo culturale e religioso arabo-musulmano ha una percentuale di accoglimento di gran lunga inferiore alle altre comunità nazionali.

Appare a questo punto opportuno proseguire l’analisi esaminando in particolare le novità introdotte dalla legge Bossi – Fini.

Il diritto di asilo
Relativamente al diritto d’asilo si è operato uno stravolgimento dei principi fondamentali dello stesso, che è stato praticamente “triturato” con l’assegnazione dell’esame delle domande alle Commissioni Territoriali attraverso una procedura che la norma definisce accelerata, ma che possiamo più semplicemente definire sbrigativa, assegnando a queste commissioni il diritto di vita o di morte sui richiedenti e prevedendo peraltro la limitazione della libertà personale degli stessi. Esistono Paesi che scelgono in tal senso soluzioni più raffinate come ad esempio la Svezia ove non è prevista la limitazione della libertà personale, però i centri di identificazione e di attesa per i richiedenti sono situati in luoghi ameni a distanza di centinaia di chilometri dai centri abitati. Quindi, pur essendo posti molto attrezzati e confortevoli, ove si è anche formalmente liberi, si può dagli stessi uscire solo per andare “in pasto ai lupi”.
Le norme che hanno modificato il diritto d’asilo si presteranno – mi permetto di dire sicuramente – a censure di legittimità costituzionale che sono già state sottoposte all’attenzione della Corte Costituzionale e a censure di legittimità sotto il profilo della violazione della Convenzione Europea dei diritti dell’Uomo del 4 novembre 1950 (entrata in vigore il 3 settembre 1953) e recepita dall’Italia con legge n. 848 del 4 agosto 1955.

I Centri di Permanenza Temporanea
Gli stessi erano già previsti, ma in seguito alle modifiche apportate al Testo Unico sull’Immigrazione dalla legge Bossi-Fini la permanenza in essi è stata raddoppiata nella durata, passando da 30 a 60 giorni (art. 14, comma 5); è stato inoltre introdotto (art. 13, comma 1, lett. b), Legge Bossi – Fini) il meccanismo dell’espulsione immediata (art. 14, comma 5 bis, Testo Unico sull’Immigrazione) con conseguente criminalizzazione di coloro che non ottemperano al provvedimento di espulsione (art. 14, comma 5 ter, Testo Unico sull’Immigrazione). Non si è quindi arrivati ad istituire il reato di presenza clandestina nel territorio italiano, ma si è creato il reato di inottemperanza alla diffida a lasciare il territorio nazionale italiano. E’ interessante rilevare che molto spesso questa diffida viene usata non tanto perché non c’è la possibilità di eseguire l’espulsione, ma semplicemente perché è il sistema più comodo per far sparire uno straniero, nel senso di escluderlo dall’esercizio dei diritti e dalla possibilità di ottenere prestazioni di assistenza di qualsiasi genere, comprese quelle di soccorso.
L’Associazione Studi Giuridici sull’Immigrazione (ASGI) rispetto ai Centri di Permanenza Temporanea (CPT) ha una posizione monolitica: è contro i CPT perché sono inutili. Una recente ricerca metodica condotta da Medici senza Frontiere presso tutti i CPT per espellendi, ha dimostrato che la stragrande maggioranza di coloro che sono ristretti – diciamo pure detenuti – negli stessi, al termine del periodo massimo di permanenza viene rimessa in libertà sul territorio italiano, senza essere accompagnata alla frontiera. Addirittura i CPT vengono usati come prolungamenti della pena penitenziaria: accade infatti che le persone che completano l’espiazione della pena – per le quali ci sarebbero anni di tempo per pianificare prima l’appuntamento con il volo aereo e il rilascio dei documenti da parte della rappresentanza consolare -, vengono invece portate presso i CPT in una sorta di prolungamento della loro detenzione, per poi essere, nella maggior parte dei casi, rimesse in libertà sul territorio nazionale senza essere quindi riaccompagnate alla frontiera. Quando invece vi sono le possibilità tecniche di eseguire l’espulsione, il CPT non serve assolutamente a nulla essendo possibile eseguire l’espulsione senza che vi sia la necessità di comprimere la libertà personale.

Bisogna andare molto indietro nel tempo per trovare nel diritto italiano e non solo, provvedimenti restrittivi della libertà personale che non siano collegati ad un comportamento criminale (si pensi alla prigione per debiti).

Il decreto flussi
Relativamente al governo dei flussi migratori, oltre alla nota abolizione del sistema della sponsorizzazione che era l’unico sistema funzionante per consentire ingressi regolari, si è accentuata l’ipocrisia secondo la quale si fa finta di pensare che uno straniero che vuole entrare regolarmente in Italia per motivi di lavoro possa riuscire a trovare, stando nel suo paese, un datore di lavoro italiano che teoricamente dovrebbe fidarsi di assumere una persona mai vista né conosciuta e che poi dovrebbe ottenere l’autorizzazione al lavoro.

In realtà sappiamo che la quasi totalità – dico 99% perché sono un inguaribile ottimista – di coloro che sono entrati con questo sistema delle quote, erano già qui da prima, come clandestini, ed hanno avuto la fortuna di trovare un datore di lavoro serio, coraggioso e molto paziente che ha intrapreso questa farraginosa procedura burocratica per consentirne l’ingresso regolare in Italia.

La novità introdotta in tal senso dalla Bossi – Fini è quella che mentre prima era possibile cominciare a presentare le domande all’inizio dell’anno, adesso c’è una sorta di lotteria e gara a chi arriva prima poiché non si sa quando viene pubblicato il decreto flussi.
Con la Bossi-Fini è possibile presentare le domande solo a partire dal giorno della pubblicazione del decreto flussi; ecco quindi che alla gara a chi arriva prima che già esisteva, si è aggiunta l’ulteriore gara a chi arriva primo alla “soffiata” relativa alla pubblicazione imminente del decreto flussi sulla Gazzetta Ufficiale. Ci sono i “bene informati” che riescono ad “indovinare” la data di pubblicazione e quindi a portare il loro pacco di pratiche vendute naturalmente a caro prezzo a chi spasmodicamente cerca un modo per regolarizzare la propria posizione in Italia, perché di fatto questa è una forma di regolarizzazione, anche se “a cruna dell’ago” per cui il passaggio è strettissimo. Naturalmente tutto questo produce irregolarità, violazione della legge, evasione fiscale, evasione contributiva e, infine, impoverimento.

Il contratto di soggiorno
L’elemento “qualificante” della legge Bossi-Fini è il contratto di soggiorno. Durante la campagna elettorale, precedentemente l’approvazione della legge Bossi-Fini, il contratto di soggiorno era usato come slogan per dire “Lo straniero non potrà soggiornare in Italia un minuto in più della durata del contratto di lavoro”. Per fortuna esistono le convenzioni internazionali relative alla condizione giuridica dello straniero cui l’Italia ha dato adesione, che sono particolarmente tutelate nel nostro ordinamento in quanto la Costituzione (art. 10, comma 2) obbliga il legislatore italiano a conformarsi ad esse.
L’esistenza di queste norme internazionali ha consentito di non portare alle estreme conseguenze questo slogan e quindi di continuare a garantire la possibilità per colui che entra in uno stato di disoccupazione di rimanere in Italia per un periodo determinato al fine di cercare una nuova occupazione. Si precisa che questo periodo è stato però dimezzato da un anno a sei mesi (art. 22, comma 11, T.U. sull’Immigrazione), che non sono tanti dal momento che buona parte di questo periodo è “mangiati” dall’attesa del permesso di soggiorno per ricerca di occupazione, considerato che, quando lo straniero lo ritira ha la sorpresa di scoprire che la data di decorrenza iniziale non è la data corrispondente al momento del rilascio, ma la data corrispondente al momento in cui è stata presentata la domanda.

In più ogniqualvolta si cambierà datore di lavoro (pensiamo che i lavoratori immigrati sono di fatto destinati ai settori più marginali e precari del mercato del lavoro, e, quindi, sono impiegati con contratti a termine nella grande maggioranza dei casi) sarà necessario andare a stipulare il contratto di soggiorno e in quella sede – oltre all’intasamento ulteriore delle Prefetture che possiamo già immaginare perché è stata fatta una legge con finanziamento zero quindi gli strumenti e il personale non ci sono – bisognerà documentare che il lavoratore dispone non soltanto di un alloggio ma di un alloggio confortevole, munito di certificazione di idoneità rilasciata dal competente ufficio tecnico comunale. I parametri di idoneità sono riferiti a parametri stabiliti dalle Leggi Regionali in materia di edilizia residenziale pubblica che sono stati adottati all’insegna del solito ottimismo legislativo italiano, fissando degli obiettivi da raggiungere che non sono stati raggiunti.
La stragrande maggioranza degli assegnatari di case popolari, vive in alloggi che non rispettano quegli standard, le case sono poche, i richiedenti sono tanti, le famiglie sono numerose ecc.
Ebbene laddove nemmeno lo Stato e gli enti pubblici competenti sono riusciti a rispettare questi standard per consentire l’alloggio a persone che poi comunque pagheranno un canone agevolato, si prevede invece ora che l’immigrato – il soggetto che ha più difficoltà a trovare casa – non solo riesca a trovare una casa ma la trovi rivolgendosi al mercato privato, che se dovesse essere conforme agli standard, costerebbe come minimo l’intero suo stipendio. Questa è fantascienza.
Non esiste una legge che cambia la realtà, dovrebbe esistere una legge che si adegua alla realtà. Ebbene da una situazione di questo genere, possiamo solo immaginare che nasca un ulteriore mercato di carte false quindi di ospitalità fasulle, spingendo nella clandestinità persone che hanno come unica colpa quella di essere povere e di non potersi permettere, come tanti altri italiani, una casa confortevole, ma solo una casa.
Un esempio in tal senso eclatante è stato fino a pochissimo tempo fa il caso di un ex conceria di Arzignano (Vi) (Casa Elisa) dove abitavano 500 persone in possesso di regolare permesso di soggiorno, che lavoravano regolarmente, pagavano i contributi e che ufficialmente, quando si presentava la questura ogni settimana per fare i controlli, esibivano un permesso di soggiorno da cui risultava un domicilio ovviamente diverso. La questura, evidentemente, faceva finta di non sapere che questi signori erano di fatto costretti a documentare un alloggio falso, pur di poter rinnovare il permesso di soggiorno.

Il ricongiungimento familiare
Il ricongiungimento famigliare è stato fortemente ristretto da parte della legge Bossi – Fini, non soltanto per quanto riguarda i soggetti non destinatari dell’esercizio di questo diritto, ma più ancora nella prassi.
I tempi di attesa per il rilascio di un visto per la ricongiunzione famigliare sono scandalosamente lunghi, intollerabili. Si evidenzia infatti che nel momento in cui lo straniero interessato alla ricongiunzione famigliare si presenta all’Ambasciata italiana, possiede già tutti i documenti prescritti, già legalizzati, controllati, è gia stato radiografato e, di conseguenza, il rilascio del visto d’ingresso potrebbe essere un atto simultaneo. Eppure ci sono tempi di attesa di anni e addirittura la famosa Ambasciata Italiana di Casablanca (Marocco) ha chiuso per diversi mesi permettendosi di affliggere un avviso con scritto, “non presentateci più domande di visto per la ricongiunzione famigliare. Stiamo recuperando l’arretrato di quelle di tre anni fa”.
Chiaramente tutto questo produce clandestinità – perché una persona non riesce a stare lontano dai suoi affetti solo perché deve affrontare la sopra descritta procedura -, alimenta il sottobosco della malavita, le mafie, ma non serve certo a difendere i confini nazionali.

Meno diritti per tutti.
Ci sarebbe da parlare molto sui diritti sociali, che pure sono stati eufemisticamente limati. Ma per la verità questo è un processo che è iniziato già sotto la vigenza del testo originario della Turco Napoletano e mi riferisco alla esclusione dalle prestazioni di assistenza sociale per gli immigrati muniti di normale permesso di soggiorno. Solo quelli in possesso della carta di soggiorno possono benficiarne, e non a caso le carte di soggiorno sono state centellinate per anni con la scusa che il Governo non aveva stampato i moduli. Ora però – ulteriore novità con l’ultima finanziaria – è che le donne extracomunitarie con la carta di soggiorno, dopo avere inverosimilmente attraversato un percorso rocambolesco di pazienza e di attesa, non possono avere l’assegno di maternità, ma l’avranno solo le donne comunitarie con conseguente ulteriore incremento della discriminazione.

Premesso di soggiorno ridotto
Un’altra conseguenza della Bossi Fini è sostanzialmente il dimezzamento nella media della durata dei permessi di soggiorno, il che naturalmente non ha aiutato a sfoltire il traffico verso le questure. Anzi ha reso la situazione più caotica e insostenibile perché il meccanismo per cui il permesso di soggiorno può durare tanto quanto il contratto di lavoro, di fatto ha quadruplicato i tempi di attesa (per tacere dell’ultima sanatoria che ha riguardato 700 mila persone). A Venezia, ad esempio, si attendono 10 lunghi mesi per rinnovare il permesso di soggiorno.

È vero che la legge Bossi – Fini ha chiarito che durante la fase del rinnovo del permesso di soggiorno si ha il diritto (per il lavoratore così come per il datore di lavoro) di proseguire il rapporto di lavoro, come pure di costituire un nuovo rapporto di lavoro (art. 22, comma 12, T.U. sull’Immigrazione). Questo diritto però, da un punto di vista pratico, non conta quasi nulla perché la quasi totalità dei datori di lavoro risponde all’immigrato che si propone per farsi assumere “torna con il permesso di soggiorno rinnovato”, considerato che non se la sentono di investire tempo e risorse in azienda, correndo il rischio di doverlo licenziare, magari dopo due mesi, a seguito del mancato rinnovo del permesso di soggiorno proprio quando inizia ad essere più produttivo. Gli stessi rischiano inoltre di commettere un reato senza saperlo, se, successivamente al rifiuto il rinnovo del permesso di soggiorno, mantengono l’immigrato nel posto di lavoro.
Il sistema appena descritto evidentemente dimostra un sostanziale rifiuto dello straniero, una ricerca spasmodica della differenziazione e discriminazione. Addirittura fanno le spese di questa cultura anche i cittadini dei nuovi Paesi membri dell’Unione europea. Il 1 maggio i nuovi Paesi potrebbero beneficiare della libertà di circolazione per motivi di lavoro (artt. 39 ss, Trattato istitutivo della Comunità europea), se non fosse che i “vecchi” paesi membri hanno la possibilità di adottare una sorta di “moratoria” di due anni che potrà essere prolungata per ulteriori tre anni fino ad un massimo complessivo di sette anni; ciò al fine di impedire l’afflusso di manodopera a basso costo nei paesi membri dell’U.E.
Certo che se la volontà fosse veramente questa, forse le misure da prendere dovrebbero essere diverse, dire diametralmente opposte perché è noto (e i politici fanno finta di non saperlo) che tutti i cittadini dei nuovi Paesi membri, oppure di altri futuri candidati all’adesione, già oggi possono presentarsi alla frontiera Schengen – muniti di passaporto e qualche euro in tasca – e oltrepassarla. I cittadini di tali paesi sono quindi liberi di fare i turisti in tutta Europa, non sono liberi di lavorare in regola, sicché si potrebbe dire, che sono costretti a lavorare in nero. Quindi chi dice che vuole “evitare l’ingresso di manodopera a basso costo” forse vuole l’esatto contrario perché la realtà dei fatti non può che esprimere questo.
Ora questa ricerca di differenziazione e di discriminazione non è il frutto di scelte sbagliate di tecnica legislativa; è evidente – e lo dimostra la prassi – l’operato delle nostre amministrazioni, che rispecchia una cultura diffusa che purtroppo interessa tutti i settori della nostra società. Anche il sindacato ha qualche serio problema nel gestire i rapporti tra gli italiani e i lavoratori stranieri, cerca di farlo perché naturalmente è il suo mestiere, ma ci sono numerosi problemi, soprattutto con le fasce più deboli della società. Ecco che quindi la questione che si pone non è tanto quella di ingaggiare dei bravi esperti in diritto e tecnica legislativa; il problema vero è un altro ovvero un enorme e difficile battaglia culturale, nell’ambito della quale il diritto di voto rappresenta un caposaldo.