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La Turchia blocca rifugiati siriani dalla ricollocazione negli Stati Uniti perché sono laureati

Patrick Kingsley, The Guardian - 19 settembre 2016

Photograph: Holly Pickett for the Guardian

Più di mille migranti siriani sono stati bloccati in Turchia dalla ricollocazione negli Stati Uniti e in altri Paesi perché hanno diplomi universitari.

La ricollocazione dei migranti era stata accettata dalle autorità americane, prima di essere bloccata – a volte solo pochi giorni prima della partenza – dalle autorità turche.

La notizia complica ancor di più il super pubblicizzato summit dell’ONU sulla ricollocazione, previsto per lunedì a New York, in cui i Paesi sviluppati verranno incoraggiati ad accogliere più rifugiati, l’86% dei quali vive in paesi in via di sviluppo.

Paesi come la Turchia, che ospita più rifugiati di chiunque altro, sono entusiasti di condividere questa responsabilità con i Paesi occidentali. Ma questo sviluppo suggerisce anche che non sono disposti a lasciare che Paesi come gli Stati Uniti selezionino i rifugiati più qualificati, lasciandosi alle spalle gli altri.

Crediamo che le persone più vulnerabili necessitino di essere aiutare prima degli altri,” ha detto un alto ufficiale turco al Guardian questa settimana.

Alcuni degli interessati, tuttavia, hanno messo in discussione il fatto che la vulnerabilità possa essere determinata usando il criterio dell’istruzione.

Loreen e Shero, una coppia curda siriana la cui casa è stata distrutta ad Aleppo, hanno richiesto la ricollocazione negli Stati Uniti nell’aprile 2014, insieme ai loro tre bambini. Il processo ha richiesto quasi due anni e numerosi controlli di sicurezza, interviste con ufficiali americani, l’agenzia ONU per i rifugiati, e la Commissione Internazionale Cattolica per la Migrazione (ICMC), un’associazione che organizza parte delle procedure di ricollocazione negli Stati Uniti.

Scoraggiata e frustrata dalla lunga attesa, la famiglia si è preparata due volte a partire per l’Europa con i gommoni – prima che tempestive telefonate dell’agenzia Onu per i rifugiati giungessero a rassicurarli e comunicare che la loro procedura aveva raggiunto la tappa successiva, ripristinando la loro fiducia nel processo ufficiale.

Nel febbraio 2016, gli Stati Uniti hanno finalmente accettato la loro richiesta, e l’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni (IOM) ha comprato loro dei biglietti aerei per Chicago per il 31 maggio. La famiglia ha venduto i mobili, ha lasciato il suo appartamento e si è spostata in uno più costoso per le settimane che rimanevano.
Poi, quattro giorni prima della partenza, Shero si è recata dalle autorità turche per il permesso di uscita, ma le è stato negato.

All’inizio, nessuno del governo turco, IOM, l’ONU o il ICMC ha potuto spiegare il ritardo. “Il suo caso non è ancora stato processato” diceva un messaggio sul loro profilo online. “Per favore riprovi piu tardi”.

Ma alla fine, dopo una serie di telefonate con l’ONU, un ufficiale ha ammesso che la Turchia aveva bloccato la loro partenza perché Loreen aveva una qualifica nel settore bancario.

Per Shero e Loreen, questa mossa è stata un disastro. Sono bloccati in un appartamento che non si possono permettere, mentre i loro bambini stanno affrontando il secondo anno senza andare a scuola.

Nonostante i recenti cambiamenti legislativi, la maggioranza dei rifugiati in Turchia – compresi Shero e Loreen – non hanno accesso a lavoro in regola, in contravvenzione con la convenzione sui rifugiati del 1951. Il risultato è che entrambi lavorano come operai sul mercato nero per metà della paga minima. Con entrambi i genitori fuori casa tutto il giorno, i bambini devono cavarsela da soli – la più grande, Soleen, ha rischiato due volte di essere rapita.

Un giorno stava camminando e un furgone si è fermato davanti a lei”, ha detto Shero. “Gli uomini all’interno le hanno detto: ‘Sei siriana, hai bisogno di soldi, vieni con noi’, e lei è corsa via. Dopo due giorni, i bambini stavano giocando in strada, e ancora una volta quelle persone sono passate, stavolta a piedi, dicendo ‘Venite con noi, vi daremo dei soldi’. E lei ha riconosciuto uno di loro dal precedente episodio“.

Molte altre famiglie intervistate dal Guardian sono state lasciate in una situazione simile. Ad Heba, una trentaquattrenne che lavora in una organizzazione benefica, era stato detto a luglio che la sua richiesta, quella di suo marito e quella di sua figlia erano state cancellate a causa della sua laurea in Letteratura Inglese presa all’Università di Aleppo.

Non abbiamo la minima idea di cosa fare”, ha detto Heba, prima di spiegarci quanto la situazione per i rifugiati in Turchia non soddisfi quanto concordato con la Convenzione sui rifugiati del 1951. “Non siamo felici in Turchia, non abbiamo diritti. Non possiamo andarcene. Mio marito non ha il permesso di lavoro. La mia bimba è stata malata, ha avuto la febbre, così siamo andati in ospedale, ma non l’hanno curata. Qualche tempo fa sono andata in ospedale in condizioni critiche, avevo le vertigini. Si sono rifiutati di aiutarmi o di ricoverarmi.”

Fatima, una studentessa di ingegneria elettrica di 25 anni, era stata ammessa alla ricollocazione a marzo, insieme a suo fratello, sua sorella e i suoi genitori. Le è stato detto che li avrebbero mandati a Chicago, ma prima di prenotare il volo, la loro richiesta è stata improvvisamente cancellata, poiché almeno uno di loro aveva una laurea.

Fatima parla quattro lingue e vuole lavorare nell’elettronica. Ma come altri intervistati, si chiede se i suoi risultati accademici possano in qualche modo rendere la sua famiglia meno vulnerabile in Turchia.

In Turchia, non abbiamo mai avuto un permesso di lavoro o un contratto,” ha riferito Fatima. “Solo per mangiare, sono necessarie 13 ore di lavoro. E’ per questo che la gente preferisce attraversare il mare piuttosto che vivere qui. Non abbiamo nessun diritto. Non abbiamo neanche il diritto di scegliere se andarcene o meno. Perché dobbiamo rimanere qui? Perché hanno il diritto di obbligarci a rimanere qui? Come possono farci questo?

Becca Heller, direttrice e co-fondatrice del Progetto Internazionale di Assistenza ai Rifugiati presso l’Urban Justice Center, ci ha detto: “Lavoriamo con migliaia di rifugiati che aspettano anni prima che le loro richieste di ricollocazione siano approvate, in circostanze estremamente pericolose. Strappare via la promessa di una vita sicura all’ultimo momento è inumano, ed è una grave violazione del diritto internazionale.

Gli intervistati hanno riferito che gli ufficiali nell’ONU li hanno informati privatamente che almeno 5.000 siriani stavano affrontando la stessa situazione. I turchi, gli Stati Uniti, l’ONU e gli ufficiali dell’ICMI non hanno commentato la faccenda. Il The Guardian ha anche incontrato alcuni membri di un’associazione di rifugiati coinvolti, che rappresentano più di mille persone la cui ricollocazione è stata bloccata. Alcuni di loro sarebbero dovuti andare in Canada o in Europa.

Se la situazione dovesse continuare, alcuni di loro hanno affermato di voler provare a raggiungere l’occidente in nave, sottolineando quanto l’assenza di mezzi ufficiali per la ricollocazione possa incoraggiare mezzi di immigrazione ancor più irregolari.

Se non possiamo andare negli Stati Uniti, andremo via mare da qualche parte,” ha detto Fatima. “Ma non possiamo assolutamente stare qui.”