Per la libertà di movimento, per i diritti di cittadinanza

La Verona che accoglie in piazza per i diritti dei e delle migranti

di Jacopo Rui

In occasione della sedicesima Giornata Mondiale del Rifugiato, a Verona, un gruppo spontaneo di cittadini ha lanciato un appello che ha visto più di trecento veronesi raccogliersi in Corte Mercato Vecchio, una tra le più antiche piazze del centro storico scaligero. Alcuni viaggi in Grecia sono stati il preludio positivo per dar vita alla realtà di One Bridge to Idomeni, un’aggregazione di giovani veronesi che da aprile si è fatta carico, coordinandosi con le altre realtà locali, di mandare aiuti e volontari nei campi greci, e contestualmente di sensibilizzare l’opinione pubblica cittadina.
L’appello, con soli dieci giorni d’anticipo rispetto alla scadenza, ha visto l’impegno di più realtà cittadine concentrarsi nella realizzazione di una piazza che ha lanciato un messaggio portato a casa conoscendo le storie dei migranti bloccati a Idomeni: “chi pianta semi di guerra raccoglie rifugiati”.
Sintetico ma denso di implicazioni, lo slogan ha trovato appoggio in trentasette, tra associazioni, sindacati e realtà autonome, locali e nazionali, che da anni lavorano, a diversi livelli, sul tema dell’immigrazione. Grazie a queste, il cortile in cui si è svolta l’iniziativa è stato allestito con proiezioni di foto scattate durante i viaggi, pittura dal vivo, pannelli con foto d’autore, e una dozzina di tende vuote, retaggio di un campo che adesso non c’è più.
Tuttavia, come hanno sottolineato i numerosi interventi, anche se Idomeni e i campi circostanti (Eko, Hara e BP) sono stati sgomberati dopo mesi di pressioni e uso della forza, il problema non è scomparso. Il circolo vizioso che si apre con la continua vendita di armamenti italiani all’estero, anche verso paesi belligeranti, e con la pratica occidentale di intervento in paesi in conflitto per favorire processi di stabilizzazione o per “esportare la democrazia”, si chiude, inevitabilmente, con l’aumento delle popolazioni in fuga.
Tra tutti, Carlo Melegari, presidente del Cestim (Centro Studi Immigrazione), ha sottolineato come dei 65,3 milioni di migranti nel mondo, 21,3 siano rifugiati richiedenti asilo, di cui la metà è prodotta da soli tre paesi: Siria (4,9), Afghanistan (2,7) e Somalia (1,1). Di questi, poco più di un milione è in direzione dell’Europa.
La rotta verso il vecchio continente però presenta disumane barriere, che costringono i rifugiati a vivere in condizioni pietose, come testimoniato dai racconti dei volontari di One Bridge to Idomeni. Ma se i fili spinati eretti e le violenze inferte da parte degli stati membri dell’Unione Europea sulla pelle di chi cerca riparo da guerra e fame sono intollerabili, anche i percorsi politici di arginamento del fenomeno intrapresi con la Turchia infiammano l’intervento degli attivisti della carovana Overthefortress, che attraverso la voce di Yosef Moukrim, denunciano l’inaccettabilità di un accordo che prevede la deportazione dei rifugiati dislocati in Grecia nelle mani insanguinate di Erdogan, il cui esercito spara sui profughi siriani.
Tuttavia il confine non è solo rappresentato dai muri e dal filo spinato lungo le rotte, ma si evidenzia anche all’interno del nostro paese. L’Italia, che quel patto lo vorrebbe riproporre con i principali paesi d’origine dei migranti che attraversano il Mar Mediterraneo e che sbarcano nella penisola, è responsabile della “clandestinizzazione” di massa dei migranti: il 60% dei dinieghi (dati del primo semestre del 2016) delle Commissioni territoriali del Nord-Est, alle richieste di protezione, sono sintomo di un apparato politico e amministrativo che non solo non è in grado di garantire un’accoglienza dignitosa ai richiedenti d’asilo, ma infierisce con l’alta percentuale di esisti negativi sul destino di chi sta chiedendo protezione e il diritto a costruirsi il proprio presente.
La testimonianza di Mamadou, un rifugiato residente a Verona da qualche anno, è limpida nel descrivere la situazione di chi ha ricevuto il diniego: nell’impossibilità di trovare un lavoro regolare l’unica speranza di impiego futuro gli è stata fornita dal Laboratorio Autogestito Paratodos che, assieme ad alcune realtà di quartiere, è riuscito a finanziare a lui e a pochi altri un corso per pizzaioli. Alberto Modenese del Paratodos segnala, inoltre, come alla stazione dei treni di Porta Nuova a Verona siano quotidianamente presenti pattuglie, in assetto antisommossa, che fermano, controllano e molto spesso impediscono ai migranti di salire sui treni che vanno al Brennero. Questa modalità di selezione dei transitanti, la quale obbliga le persone alla stanzialità forzata, è spia di un razzismo istituzionale che, riprendendo anche l’alta percentuale di dinieghi che poi generano esclusione sociale, finisce per alimentare discorsi demagogici ed xenofobi, già fin troppo insediati nel clima di intolleranza che denota la città.
Solo la settimana scorsa infatti è stato autorizzato dalla questura, mascherato come volantinaggio, un presidio di Lotta Studentesca davanti all’istituto ENAIP di Lungadige Galtarossa che ha visto inscenare un’agghiacciante manifestazione di razzismo rivolto verso i numerosi studenti stranieri che sono stati minacciati e costretti ad allontanarsi dalla loro stessa scuola. La complicità che le istituzioni dimostrano verso atteggiamenti razzisti, xenofobi ed intolleranti sono coadiuvati dalle ordinanze comunali che, negli ultimi anni, hanno previsto in centro storico l’installazione di dispositivi anti bivacco sulle panchine, divieto di dare cibo ai senzatetto, multe per chi fa l’elemosina, divieto di aprire attività d’asporto di cucina etnica (riferibile alla cultura africana, orientale e medio orientale), oltre agli sfratti e sgomberi che ormai non fanno più notizia.
Dalla piazza di lunedì si auspica che a Verona parta un processo di inclusione sociale ed accoglienza, e che al tempo stesso le realtà del territorio si oppongano, soprattutto politicamente, a chi sulla pelle dei migranti, da anni macina interessi economici e propagandistici.